7 ottobre – 7 gennaio: bilancio di tre mesi di conflitto

Israele

di Anna Balestrieri
Sono trascorsi tre mesi esatti da quel 7 ottobre che ha cambiato il volto di Israele. Le dichiarazioni del premier israeliano Netanyahu il giorno stesso dell’attacco e le previsioni di una guerra lunga e sanguinosa si sono rivelate profetiche.

Il bilancio in vite umane

Le perdite da parte israeliana ammontano a circa 1.200 persone. Civili e soldati sono stati uccisi nelle loro case, comunità e nel confronto con i terroristi di Hamas. Dall’inizio dell’operazione di terra sono 176 i soldati che hanno perso la vita nel confronto con l’organizzazione terroristica. Molti di loro, giovanissimi.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, almeno 22.722 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano dall’inizio della guerra.

Gli sforzi congiunti degli Stati Uniti e del Qatar hanno permesso il rilascio della metà degli ostaggi detenuti a Gaza, parte dei quali erano cittadini stranieri. Il numero di ostaggi che si crede essere tuttora nelle mani di Hamas è di 136.

Nella Striscia di Gaza

L’operazione di terra ha colpito l’organizzazione terroristica nella Striscia, ma non l’ha ancora debellata. L’IDF ha affermato che la struttura militare di Hamas è stata smantellata nel nord di Gaza. Sarà necessario concentrarsi ora sulla Gaza centro-meridionale. Nelle azioni, l’esercito israeliano ha trovato tunnel e moltissime armi sotto scuole, ospedali e case di civili.

Al confine con il Libano

Aumentano la frequenza e l’intensità degli scontri con Hezbollah al confine settentrionale di Israele con il Libano. I membri del gabinetto di guerra attraverso un post su X di Benny Gantz hanno dichiarato che “La realtà in cui i cittadini del nord di Israele non possono tornare alle loro case richiede una soluzione urgente. Il mondo deve ricordare che è stata l’organizzazione terroristica Hezbollah ad avviare l’escalation. Israele è interessato a una soluzione diplomatica, ma se non riesce a trovarla, Israele e l’IDF elimineranno la minaccia”.

 

In Cisgiordania

Una poliziotta israeliana è stata uccisa il 7 gennaio nell’esplosione di una bomba e altri soldati sono rimasti feriti in un attentato rivendicato dalle Brigate Al-Quds, il braccio armato del movimento palestinese della Jihad islamica. Sei palestinesi sono stati successivamente uccisi in un attacco aereo israeliano.

Dallo scoppio della guerra, le tensioni in Cisgiordania sono aumentate: oltre 2.400 i palestinesi ricercati in tutta la Cisgiordania, tra cui più di 1.200 affiliati ad Hamas, che sono stati assicurati alle forze israeliane. Secondo il ministero della Sanità dell’Autorità Palestinese, in questo periodo circa 290 palestinesi della Cisgiordania sono stati uccisi dagli israeliani o dalle forze israeliane. Secondo stime dell’esercito, la stragrande maggioranza di loro sono stati uccisi durante scontri a fuoco nei raid di arresto.

Il clima interno

Il paese ha conosciuto in questi tre mesi un afflato solidale. Le associazioni impegnate nella campagna contro la riforma giudiziaria si sono convertite in organizzazioni di supporto, offrendo conforto ed aiuto alle famiglie delle vittime ed agli sfollati che da nord a sud si sono visti costretti ad evacuare le proprie abitazioni.

Migliaia i volontari, anche tra gli ultraortodossi, che si sono uniti alle fila dei riservisti dell’IDF. È nato il Forum delle famiglie degli ostaggi. Con una marcia durata cinque giorni, le famiglie degli ostaggi con migliaia di cittadini di tutto il paese si sono unite per chiedere la liberazione degli israeliani rapiti dai terroristi di Hamas e detenuti a Gaza.

Le divisioni interne

L’uccisione di tre ostaggi che erano riusciti ad eludere il controllo dei miliziani di Hamas e a guadagnare la via della libertà per un errore militare ha causato una forte spaccatura nella società civile, generando dubbi circa l’eticità del comportamento dei soldati nella striscia di Gaza.

Centinaia nel nord di Israele e migliaia a Tel Aviv hanno protestato sabato sera, il 6 gennaio, chiedendo nuove elezioni e la destituzione del primo ministro Benjamin Netanyahu. L’opinione pubblica ha chiesto a gran voce un’indagine che getti luce sulle responsabilità nelle falle d’intelligence il 7 ottobre e sulla risposta militare ritardata all’emergenza. L’esercito è stato oggetto di un attento esame a causa dei fallimenti dell’intelligence che hanno consentito adHamas di compiere i massacri. Si prevede che numerosi funzionari di alto livello si dimetteranno una volta finita la guerra. A Tel Aviv si è tenuta una manifestazione per gli ostaggi, durante la quale sono state proiettate le testimonianze degli ostaggi liberati.

Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir hanno chiesto che gli abitanti di Gaza vengano reinsediati fuori dalla Striscia, suscitando una marcata condanna, nazionale ed internazionale. Ma le dicerie su un progetto di trasferimento dei rifugiati di Gaza in Congo si sono rivelate infondate.

Il clima esterno: un’ondata antisemita senza precedenti

All’indomani dell’attacco, l’amministrazione americana, nelle persone del presidente Joe Biden e del segretario di Stato Antony Blinken, ha fatto sentire il proprio appoggio allo stato alleato e non l’ha fatto mancare nel corso dei tre mesi di conflitto, svolgendo un ruolo centrale nelle trattative per il rilascio degli ostaggi.

Gli Stati Uniti, così come la Francia ed il Belgio fino a giungere al Daghestan ed all’Australia, sono stati tuttavia attraversati da episodi di violenza antisemita.

Ad ottobre, una campagna diffamatoria alimentata da Hamas e dalla Jihad islamica ha diffuso la notizia che l’esercito israeliano avesse bombardato l’ospedale di Al Shifa, causando centinaia di morti tra i pazienti. La notizia, data per verificata e diffusa in primis dalla BBC, ha generato scontri tra l’emittente britannica e lo stato ebraico, che l’ha accusata di “moderna calunnia del sangue”.

Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez e il suo omologo belga Alexander de Croo hanno criticato Israele per le sofferenze inflitte ai civili palestinesi durante le operazioni militari israeliane a Gaza. Sánchez ha anche chiesto il riconoscimento da parte dell’Unione Europea di uno Stato palestinese, generando un’aspra reazione diplomatica ed il richiamo degli ambasciatori di Spagna e Belgio in Israele per un rimprovero in seguito alle dichiarazioni rilasciate.

La mancata condanna del brutale attacco di Hamas da parte di esponenti politici di paesi alleati si è unita al silenzio delle femministe riguardo agli stupri di massa, alle uccisioni, mutilazioni e violenze perpetrate da Hamas su donne israeliane di tutte le età. È nato il movimento #metoounlessurajew, per rompere il “silenzio assordante” sulla vicenda del femminicidio delle donne israeliane il 7 ottobredocumentato nella stampa italiana già da fine novembre da Lucia Annunziata, tra gli spettatori dell’esibizione delle prove sui crimini commessi da Hamas. Sono state le femministe francesi di Paroles de femmes a scuotere gli animi in Italia e a chiedere a gran forza, con una petizione che ha raccolto più di sessantamila firme, “il riconoscimento di un femminicidio di massa”.

Il portavoce militare del gruppo sciita degli Houthi Yahya Saree, responsabile di un arrembaggio ai danni di una nave giapponese che i terroristi credevano israeliana, ha ribadito la solidarietà ad Hamas, dichiarando qualsiasi nave appartenente a Israele o a coloro che la sostengono obiettivo legittimo, «in risposta agli atti atroci contro i fratelli palestinesi a Gaza e in Cisgiordania».

Le polemiche nel mondo accademico

Le polemiche e gli scontri hanno coinvolto anche il mondo accademico. Manifestazioni con slogan antisemiti, insulti e attacchi personali, con professori schierati che difendono la “resistenza” di Hamas e discriminano studenti ebrei si sono moltiplicate negli atenei americani. Le polemiche a seguito della tiepida condanna dei presidi di alcune università della Ivy League hanno causato, insieme ad accuse di plagio, le dimissioni della preside di Harvard Claudine Gay. Alcuni atenei hanno dovuto affrontare azioni legali a causa dell’attivismo anti-israeliano nei campus ed hanno perso le donazioni dei sostenitori ebrei e filo-israeliani.

Anche nel mondo accademico italiano ci sono stati quanti (4,000 firmatari di una petizione di boicottaggio) hanno cercato di ostacolare lo sviluppo scientifico volendo tagliare i rapporti di collaborazione con le università israeliane.

In Israele, il 31 dicembre ha marcato l’apertura dell’anno accademico, dopo numerosi rinvii e numerosi ripensamenti. Nonostante parte degli studenti continui a prestare servizio di leva nelle zone interessate dal conflitto, la necessità di uniformare l’anno curricolare ai precedenti ha prevalso. I corsi sono ripresi regolarmente ed i campus si sono ripopolati di studenti, ebrei ed arabo-israeliani, sebbene in un clima teso e con qualche assente. Dagli eventi del “Sabato Nero” del 7 ottobre, infatti, circa un centinaio di studenti israeliani, principalmente arabi, sono stati sospesi dagli studi a causa di presunte simpatie per Hamas.