Università di Stanford

Harvard, Princeton, Yale… il tradimento delle accademie. I proPal conquistano studenti e docenti. Un’inchiesta

Mondo

di Marina Gersony

Antisemitismo nelle università, dagli USA all’Europa. Manifestazioni con slogan antisemiti, insulti e attacchi personali, professori schierati che difendono la “resistenza” di Hamas e discriminano studenti ebrei. Nelle università americane ma anche italiane, la guerra ha reso irrespirabile l’atmosfera per i ragazzi. Facendo uscire allo scoperto un antisemitismo mai sopito e il veleno di una narrativa ideologica dei fatti.

 

Simon è ebreo e studia a Harvard, una delle università più prestigiose d’America. La sua vita e quella di molti amici ebrei al campus è cambiata dopo la carneficina di Hamas del 7 ottobre in Israele. Alcuni compagni li hanno presi di mira: minacce e ingiurie solo per il fatto di essere ebrei. Una situazione che si è complicata ulteriormente quando diverse associazioni studentesche, tra cui l’Harvard Undergraduate Palestine Solidarity Committee, hanno firmato un documento in cui affermavano che Israele era “interamente responsabile” delle violenze. Nonostante le prese di distanza dalla Presidente di Harvard, Claudine Gay – che aveva definito le azioni di Hamas come “atrocità terroristiche” e chiarito che nessun gruppo studentesco parlava a nome dell’università -, da allora Simon e i suoi amici vivono con un crescente senso di angoscia che non avevano mai sperimentato prima.

Cronache dell’inquietudine
Manifestazioni, cortei, scontri e slogan carichi di tensione: la distanza ideologica tra studenti pro Israele e studenti proPal dopo il 7 ottobre è sempre più marcata. L’esplosione di odio nei confronti degli ebrei, camuffata anche da antisionismo, è aumentata con particolare vigore negli atenei americani, un tempo ritenuti fari del sapere e ora trasformati in terreni fertili per l’estremismo.

Se in Italia quattro mila docenti universitari hanno firmato un irresponsabile appello al boicottaggio delle università israeliane, in Usa, le recenti cronache parlano da sé: c’è Patrick Dai, 21 anni, studente della Cornell University, arrestato dopo aver pubblicato messaggi antisemiti online nei quali minacciava di fare strage di ebrei; a Tulane, New Orleans, un alterco è scoppiato in seguito al tentato incendio di una bandiera israeliana. E ancora: scontri alla Columbia; ragazzi che hanno strappato volantini con i volti degli ostaggi israeliani rapiti dai terroristi; altri che hanno celebrato l’attacco come una “vittoria storica per la resistenza palestinese” con slogan del tipo: “la resistenza è giustificata”; simpatizzanti proPal che hanno organizzato veglie in onore dei “martiri”, riferendosi ai terroristi morti; organizzazioni come Students for Justice in Palestine (SJP) che hanno guidato la carica anti-israeliana con un linguaggio talmente provocatorio e minaccioso da costringere le amministrazioni universitarie a intervenire. Da Princeton a Yale, da Harvard a Stanford, il ritornello si ripete: Israele emblema del capitalismo occidentale oppressivo, colonialista, predatorio; Gaza simbolo del proletariato sfruttato, emblema degli umiliati e offesi.

Jonathan Greenblatt, direttore dell’Anti-Defamation League (ADL), ha dichiarato che il micidiale veleno dell’antisemitismo in America rispetto all’anno scorso è aumentato del 388 per cento, proveniente sia dall’estrema destra sia dall’estrema sinistra. Le proteste dopo il 7 ottobre sono costituite principalmente da gruppi di estrema sinistra e musulmani, inclusi BDS, Jewish Voice for Peace e IfNotNow, insieme a numerose organizzazioni legate all’Antifa, un collettivo antifascista internazionale di estrema sinistra, e al Black Lives Matter (BLM). L’amministrazione Biden ha dichiarato di prendere seri provvedimenti per contrastare il fenomeno.

 

La frattura nella sinistra globale
I campus americani, tradizionalmente noti come terreni di protesta, in queste settimane si sono ritrovati al centro di una nuova battaglia ideologica. La solidarietà filo-palestinese, da sempre appannaggio dell’estrema sinistra, ha agitato le acque lasciando sbigottite le comunità ebraiche e scatenando il dissenso tra i conservatori di destra e molti democratici sostenitori dell’alleanza USA-Israele. Il risultato? Una frattura crescente all’interno della galassia della sinistra globale. Da un lato, gli schieramenti democratici, liberali e socialisti; dall’altro, la sinistra radicale terzomondista e anti-occidentale che identifica Israele con il suprematismo bianco e il colonialismo. Una spaccatura che si riverbera anche negli atenei europei, dove appelli accorati per una pace generica sono diventati la colonna sonora di un panorama intricato. La situazione si complica mettendo a dura prova chi, anche nel mondo ebraico, cerca di sostenere Israele pur restando fedele al proprio orientamento pacifista e di sinistra.

La domanda cruciale è: com’è possibile che nei templi della cultura liberal emergano posizioni così unilaterali o parziali? Com’è possibile che le sirene dell’ideologia siano ancora così attive nei circoli intellettuali? Dove sta il senso di responsabilità del mondo della cultura di fronte all’odio? Anche oggi, come negli anni Venti e Trenta, stiamo assistendo a un altro “tradimento dei chierici”? E infine: dove si collocheranno questi accademici di fronte a una crisi che mette alla prova non solo Israele ma anche la coerenza delle loro stesse posizioni? Se inizialmente una parte del corpo docente si era schierata a favore delle vittime israeliane esprimendo al contempo solidarietà verso i civili palestinesi coinvolti a sorpresa (o forse no), oggi un numero sempre maggiore di docenti definisce l’attacco di Hamas come una forma legittima di “resistenza” denigrando la reazione israeliana come “violenta e genocida”. Il tutto in perfetta sintonia con molti intellettuali da salotto che hanno adottato il mantra fashion “Io non sto con nessuno, sto con chi soffre”, dimenticando che la realtà è un po’ più complicata. Il refrain “Israele ha ragione, ma…” oppure “L’antisemitismo è terribile ma è Israele che lo alimenta”, è la hit del momento, ignorando con garbo che l’antisemitismo non è nato con Israele, bensì era già in voga molto prima che qualcuno si immaginasse uno Stato ebraico moderno. Come ha spiegato il politologo e ricercatore Andrea Molle in una recente intervista a RaiNews: «Non si rischia di esagerare parlando di lavaggio del cervello e indottrinamento. Oggi la cultura liberal americana, detta woke, da non confondere con il mainstream democratico o la tradizione liberale europea, è ispirata a posizioni massimaliste che semplificano eccessivamente le interazioni sociali, politiche ed economiche in una distinzione arbitraria tra ‘buoni’ e ‘cattivi’, dove, naturalmente, i cattivi sono sempre gli altri».

 

Libertà di espressione o hate speech?
Dall’attacco di Hamas, gli episodi di antisemitismo negli Stati Uniti si contano ormai a centinaia. Qualche esempio? Alla Cornell University, come riporta l’Anti-Defamation League, un professore ha dichiarato durante una manifestazione che l’attacco di Hamas è stato “esilarante” ed “energizzante”. Di più: il Telegraph ha svelato il caso di un docente di Stanford che, con un gesto senza precedenti, ha ordinato agli studenti ebrei di mettersi in un angolo minimizzando l’Olocausto a “soli” 6 milioni di ebrei, dividendo poi gli studenti in “colonizzatori” e “colonizzati”. Il risultato? Un pericoloso sdoganamento delle fazioni più estreme, tanto da “contaminare” anche i sostenitori della causa palestinese meno radicali, inclusi quegli studenti musulmani non schierati che all’indomani dell’attacco hanno dimostrato disagio e saltato le lezioni. Mentre le università si impegnano a difendere la libertà di espressione, il rischio di attraversare la linea dello hate speech diventa alto e evidente: quando le parole superano il confine, con slogan di incitamento all’odio, la questione non riguarda più solamente le opinioni, ma è un reato.

 

Essere ebrei in un campus USA schierato
“Hitler aveva ragione”: questo e altro è quanto Bella Ingber, studentessa ebrea alla New York University è costretta a sentire ogni volta che va a lezione. «Essere ebreo alla New York University è ormai terrificante», ha dichiarato Yola Ashkenazie, una studentessa del Barnard College (affiliato alla Columbia University), atterrita a sua volta per l’incremento della violenza antisemita nella sua università. Nel corso del programma America Reports di Fox News, le due giovani hanno raccontato come, dopo l’indignazione e l’orrore manifestati dalla comunità internazionale all’indomani della strage in Israele, molti docenti e studenti abbiano iniziato a esprimere sostegno al gruppo terroristico Hamas e a molestare gli studenti ebrei. «Puoi prepararti quanto vuoi all’antisemitismo, leggere tutti i libri accademici sull’argomento e conoscere tutto a livello intellettuale, ma è molto diverso quando lo vivi personalmente», ha ribadito uno studente della Tulane University di New Orleans. In risposta alla crescente preoccupazione, la rivista The Forward ha condotto un’inchiesta per comprendere cosa significhi essere uno dei 250.000 studenti ebrei nei campus americani in un periodo di conflitto. L’inchiesta ha coinvolto undici giornalisti inviati in altrettante università, tra cui Cornell e Columbia, così come in altre istituzioni dove i conflitti sono stati in parte meno intensi ma non per questo meno impegnativi, come Rutgers e l’Università del Michigan. In un episodio particolarmente controverso alla Stanford University, un docente avrebbe richiesto agli studenti ebrei e israeliani di “identificarsi” (dire nome e cognome) durante una lezione, per poi segregarli in un angolo e dichiarare agli altri studenti: «Guardate, questo è ciò che Israele fa ai palestinesi. Israele è un colonizzatore». L’università ha rimosso il docente ed è in corso un’indagine. Ciò che emerge è la situazione in cui molti dei giovani più brillanti si ritrovano soli, confusi e angosciati, allarmati per ciò che accade intorno a loro. Alcuni hanno risposto togliendosi lo yarmulke, la kippà, o nascondendo il Magen David sotto le t-shirts, mentre altri non rinunciano a portare simboli ebraici sfidando la paura e mostrando con orgoglio i simboli ebraici, affermando la propria identità e appartenenza.

 

 

E in Italia? studente alla gogna
Anche in Italia gli episodi di antisemitismo sono aumentati: «Andate all’inferno, Hitler aveva ragione su di voi ebrei». Il commento su Instagram comparso e successivamente rimosso sul profilo della docente Hanane Hammoud della scuola superiore di H-Farm a Roncade (Treviso), è stato segnalato da una studentessa. Quest’ultima ha salvato il video mostrandolo ai genitori, e successivamente si è diffuso attraverso le chat delle famiglie degli altri studenti. E ancora: una studentessa italiana è stata presa di mira dai suoi compagni perché israeliana ed ebrea: uno di loro l’avrebbe addirittura minacciata dicendole «ti butto dalla finestra». Gli episodi di antisemitismo in Italia registrati in ottobre dall’Osservatorio Antisemitismo sono 42, il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Dalle pietre di inciampo oltraggiate a Roma alle offese online, offline e sui banchi di scuola, è probabile che il numero degli atti provocatori e degli insulti sia superiore in quanto non sempre denunciati: “Quant’è bello quando brucia Tel Aviv”, è quanto hanno scritto su Instagram gli studenti della Kurva Manzoni Antifa, gruppo che sostiene la squadra di calcetto del Liceo Manzoni di Milano pubblicando una foto di palestinesi esultanti dopo l’attacco a Israele. Un altro esempio proviene dal Liceo Augusto Righi di Roma, in cui uno studente italo-israeliano è stato coinvolto – senza il suo consenso – in una controversia su un tema scolastico su Israele e i palestinesi, proposto da un docente dell’istituto. Intanto un 56enne italiano, residente a Corsico, è stato indagato per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa. L’uomo avrebbe scritto nel bagno del Centro diagnostico italiano di Via Saint Bon la scritta “Prima Hitler poi Hamas per voi ebrei forni e camere a gas”, seguite da una stella di David.

 

Stampa libera? vince chi fa più rumore
Il Washington Post ha rimosso una vignetta dal suo sito web che illustrava l’uso degli scudi umani da parte di Hamas. La caricatura ha generato reazioni negative all’interno della redazione e tra i lettori, con alcune accuse di razzismo nella rappresentazione di Hamas. Nella caricatura, un portavoce di Hamas dichiarava: “Come osa Israele attaccare i civili”, mentre una donna spaventata e quattro bambini erano legati con una corda al suo corpo. La vignetta è stata pubblicata nell’edizione cartacea ma è stata successivamente rimossa dal sito web a seguito delle critiche.

Il bombardamento incessante di immagini autentiche o generate dall’AI, nonché di notizie fake, distorte, omesse, parziali o difficilmente verificabili, è cosa ormai nota. Creatori di contenuti su Instagram e TikTok, influencer e persino falsi profili social: oggi chiunque può generare, diffondere e amplificare contenuti. Una babele di informazioni che include i media mainstream tra i più accreditati che nelle ore cruciali del conflitto Israele-Hamas hanno enormi responsabilità. Così come giornalisti, inviati e reporter, spesso intrappolati in una dicotomia difficile da gestire, tra la necessità di mantenere l’obiettività in un contesto in cui le emozioni, le storie personali, i dubbi e le fiamme del nazionalismo si fondono per creare un terreno sempre più ostile. Tuttavia, come rivelano numerose inchieste recenti, nell’overdose della disinformazia vince chi fa più rumore: in un articolo dell’Algemeiner, Alexander H. Joffe, archeologo e storico specializzato in Medio Oriente e Affari Internazionali, spiega come i sostenitori pro-Hamas manipolino costantemente importanti piattaforme social per amplificare temi anti-israeliani e antisemiti radicati nell’istruzione primaria e universitaria. La glorificazione dei martiri e la lotta agli infedeli sono diventati strumenti di propaganda globale. Osservatori hanno evidenziato anche le analogie storiche, ricordando i tempi in cui la propaganda nelle università di Weimar preludeva all’orrore nazista. In un capitolo del Mein Kampf, Hitler sintetizzava con chiarezza il concetto che “ogni propaganda efficace deve limitarsi a poche cose essenziali e quelle devono essere espresse per quanto possibile in formule stereotipate. Questi slogan devono essere ripetuti con insistenza fino a che anche l’ultimo individuo venga a cogliere l’idea che gli è stata messa davanti (…)”.

 

 

I donatori se ne vanno e arriva il Qatar
Il mondo ebraico, noto mecenate delle università americane, sta vivendo una fase di caos politico e finanziario. Il 7 ottobre è stato il giorno in cui molti grandi donatori hanno dovuto ingoiare una pillola amara. Dopo anni di sbronza woke, filantropi ebrei come George Soros e Michael Bloomberg stanno tirando il freno delle donazioni. Stanchi delle manifestazioni pro-Hamas e degli episodi di antisemitismo, hanno deciso di prendere le distanze anche da fazioni radicali, tipo Black Lives Matter. L’effetto domino risuona nei corridoi delle università di élite e la minaccia di tagli ai fondi riecheggia come un tuono nelle tasche delle istituzioni. Ron Lauder, erede della dinastia che fondò la multinazionale dei cosmetici, ha annunciato un riesame del sostegno finanziario che la multinazionale offre da anni alla University of Pennsylvania. Questo ateneo è uno dei tanti in cui le autorità accademiche hanno tollerato manifestazioni di aperto sostegno al terrorismo e atti di ostilità verso gli studenti ebrei. Anche Bill Maher, sarcastico conduttore tivù, ha sparato frecciatine al giardino accademico, criticando gli studenti ricchi e privilegiati che tifano Hamas e scuotendo le certezze dell’ala radicale.

Ma non è solo un combattimento di idee. Sul versante finanziario oscuro, c’è il Qatar, con il suo affetto per Hamas e la Fratellanza Musulmana, pronto a entrare in scena. Un’inchiesta su The Free Press svela una storia lunga e oscura di miliardi di dollari versati dal Qatar per influenzare il clima accademico statunitense. Così, mentre alcuni donatori tirano il freno, il piccolo e potente Stato arabo sta preparando il suo ingresso, riempiendo il vuoto finanziario e plasmando il panorama accademico americano a suon di petrodollari. Questa partita finanziaria mette le università degli Stati Uniti in una situazione squilibrata, dove la scelta tra i sostenitori tradizionali e i finanziamenti esteri succulenti è a un bivio, con potenziali effetti a lungo termine sulle accademie yankee.

Intanto, qualcosa si muove. Su più fronti sono nate iniziative da parte di rappresentanti del mondo accademico, giuridico, mediatico, enti culturali, associazioni e singoli individui per contrastare una narrazione che mette sulla graticola Israele e per sollecitare rettori universitari a non rilasciare dichiarazioni divisive. Come nel caso del docente israeliano Shai Davidai della Columbia University che, dopo aver consigliato ai genitori ebrei di evitare i college d’élite statunitensi, ha accusato il presidente della propria università di non aver represso le organizzazioni studentesche pro-terrorismo presenti nel campus contribuendo a falsare l’immagine di Israele. O casi in cui il governatore della Florida, Ron De Santis, candidato alle presidenziali del 2024, si è speso per bandire dai campus delle università statali organizzazioni come Students for Justice in Palestine per aver sostenuto Hamas nelle manifestazioni. E anche i direttori delle varie università israeliane hanno invitato le università di tutto il mondo a riconoscere nel 7 ottobre “un atto di barbara violenza che richiede una condanna universale”.

 

Immagine, “marketing”: il contrattacco
Ma la vera eroina di questa saga universitaria è Shira Hoffer, una studentessa di 21 anni di Harvard, che ha deciso di affrontare la disinformazione e la politica turbolenta del campus aprendo una hotline. Un servizio per fornire informazioni corrette in mezzo al caos. Shira ha ricevuto più domande di quante si aspettasse, dimostrando che, contrariamente alle aspettative, la gente può essere curiosa senza scatenare una guerra di opinioni politiche. Infine, Winston & Strawn, un prestigioso studio legale internazionale con sede a Chicago con quasi 800 avvocati distribuiti in dieci uffici negli Stati Uniti, ha annullato un’offerta di lavoro a una studentessa di Giurisprudenza della New York University. La ragazza aveva scritto in una pubblicazione online che “Israele ha la piena responsabilità” per l’attacco mortale di Hamas a Israele. Lo studio, senza nominare la studentessa, ha ritirato la sua offerta di lavoro affermando che “Winston & Strawn è solidale con il diritto di Israele di esistere in pace e condanna Hamas e la violenza e la distruzione che ha innescato nei termini più forti possibili”.