Tu chiamale, se vuoi… emozioni… israeliane

Israele

di Yoram Ortona

Sono le 3.40 di notte di venerdì 24 novembre. Stiamo dormendo.

Squilla il telefono di mia moglie Dalia che di soprassalto risponde. Era nostro genero Jonathan che ci annunciava che nostra figlia Alessandra a momenti si sarebbe dovuta recare all’Ospedale Ichilov di Tel Aviv per partorire.

Dobbiamo cambiare il volo che era previsto per domenica 26.

Ci alziamo immediatamente, mentre io metto su un caffè, prepariamo le nostre valigie, abbiamo poco tempo, anche perché il volo dell’EL AL il venerdì mattina parte prima del solito. Arriviamo in aeroporto, passiamo tutte le procedure di sicurezza e decolliamo intorno alle 10.00. Dover partire improvvisamente per assistere la propria figlia che sta per partorire in un paese che si trova in guerra, una tragica guerra, faceva palpitare i nostri cuori.

L’arrivo a Tel Aviv questa volta è del tutto diverso dai soliti che effettuiamo ormai da diversi anni molto frequentemente. La discesa che porta verso il controllo passaporti  dell’aeroporto Ben Gurion è scandita dalle innumerevoli foto degli ostaggi nelle mani dell’organizzazione criminale  terroristica palestinese di Hamas.

Ogni foto a colori con il nome e l’età è un nodo alla gola. Il 7 ottobre è stato un vero e proprio pogrom dove sono state uccise 1200 persone in modo crudele e bestiale. Le donne incinte alle quali è stato tagliato il ventre, le teste dei neonati decapitati, gli anziani e i giovani a cui è stata mozzata la testa, gli stupri alle giovani donne dei kibbutzim e del rave musicale. Inoltre quel sabato nero, sono state prese in ostaggio 240 persone. Una tragedia umana indescrivibile che purtroppo continua anche con la perdita di tanti soldati,e sempre in attesa del rilascio degli altri 134 ostaggi.

Ritiriamo i nostri bagagli e con un taxi ci avviamo a casa di nostra figlia, dove c’è la piccola Lia con lo zio Gideon. La abbracciamo con tutto il nostro affetto e lei ci fa un grande sorriso, correndoci incontro, è felice di vederci.

Sabato mattina nasce il suo fratellino, è un’immensa gioia per tutti noi. Ci rechiamo a Ichilov per vedere il piccolo bebè, il nostro quarto nipotino.

Domenica stessa vado  al ristorante Pankina situato tra Gordon e Dizengoff, per presentarmi e dare la mia disponibilità come volontario per Tzahal.

Un’esperienza durata un mese, dove tutte le mattine insieme a una ventina tra donne e uomini abbiamo dato quel piccolo aiuto a preparare  gli ingredienti di ortaggi e verdure per i cibi dei soldati. L’unico giorno che sono mancato è stato il giorno del Brit Milà del nostro nipotino al quale è stato dato il nome di Dan Amos, un bambino stupendo.

Dopo qualche giorno le attività di volontariato si sono spostate in King’s George alla Beit Chabad dove Tzion, Scelomo ed Eli,  i coordinatori delle attività, rispettivamente della cucina e della logistica, tre persone eccezionali, ci davano le direttive per come eseguire il lavoro giornaliero. La stragrande maggioranza era costituita da cittadini israeliani di origine francese, inglese, russa, canadese, americana e qualche italiano, una generazione di ultra sessantenni, qualche giovane e  con i quali si è creata una simbiosi di affetto, di solidarietà e di grande empatia.

Il lavaggio dei pomodori, dei cetrioli, delle patate, delle cipolle, melanzane, zucchine e zucca gialla, dei peperoni rossi e delle barbabietole era la prima fase, a cui seguiva la fase di come tutti questi ortaggi dovessero essere tagliati, in che dimensioni con diverse tipologie di coltelli e sbuccia patate. Un lavoro laborioso eseguito con i guanti di plastica e con la massima precisione. Una volta finito il lavoro che iniziava alle 8.30  e finiva verso le 13.30, ognuno ripuliva il proprio posto, si rimettevano a posto le sedie e i tavoli  e si spazzava il pavimento.

L’aspetto che vorrei sottolineare di questa esperienza è il comune piacere e soddisfazione che ogni persona che ama Israele, provava nel rendersi utile in qualche modo a favore dei soldati di Tzahal.

Missile caduto King’s George

Uscendo dal locale, una mattina ho incontrato il sindaco della città di Tel Aviv, Ron Huldai, con il quale abbiamo scambiato qualche parola. Un sindaco che ha fatto tanto per la White City. Il giorno prima proprio su King’s George era caduto un missile vicino ad un albero. Se non li vedi con i tuoi occhi, certi fatti, in Italia e in Europa non si viene a sapere.

Per tre volte mi sono recato in tre basi militari differenti, rispettivamente nel nord sul Golan, a sud di Tel Aviv e nel centro per portare i cibi che venivano confezionati da altre persone nei contenitori di plastica e  di alluminio con le pellicole ad hoc.

Una di queste volte ero insieme ad altre due persone nella base dove in un parcheggio ci è venuto a prendere un soldato e sopra il suo Hummer blindato, ci ha fatto salire con gli scatoloni, portandoci all’interno della base dove siamo stati accolti a braccia aperte.

L’incontro con i soldati, gli ufficiali e i responsabili militari della base è stato per me la cosa più bella e più emozionante. L’accoglienza che abbiamo ricevuto non si può descrivere. Erano così felici di vedere delle persone che venivano da fuori a dare loro l’affetto e l’amore di cui avevano bisogno. Soldatesse e soldati giovanissimi, i loro superiori un po’ meno giovani, e anche qualche riservista con i quali si è creata un atmosfera di grande fratellanza e di unicità.

 

Un ufficiale, dopo averci fatto visitare la base sotto una pioggerellina fitta, ci ha donato immediatamente una felpa dell’Unità 699 e un giubbotto verde, motivo d’orgoglio per me, che da quando l’ho indossato non me lo tolgo più. Dopo la cena a base di falafel e pite, spiedini di carne e  insalate varie, accompagnata da musica israeliana dentro un hangar,l’ufficiale Yehuda mi ha detto: “Yoram ti adottiamo!” Io gli ho risposto: “sono felice di essere qui, ritornerò presto!”

Ho fatto una breve intervista ad una soldatessa sergente, Helen la quale mi ha detto espressamente che venire da fuori fin qui per portare i cibi, ed anche delle sigarette ai soldati, è un atto che dà loro tanta forza e coraggio, perché non si sentono soli. Questi soldati dormono pochissime ore e lavorano costantemente 24 ore su 24.

Alla fine della cena, un soldato giovanissimo mi ha fatto vedere una foto del suo bimbo di quattro mesi. Io l’ho abbracciato e gli ho detto sottovoce: “tornerai presto da tua moglie e prenderai in braccio il tuo bebè”. Lui mi ha risposto con un dolce sorriso.

Sono stati dei momenti davvero profondi di umanità e di commozione che non scorderò mai.

Naturalmente durante  i pomeriggi ho fatto il nonno, e  con mia moglie, e la nostra nipotina di poco più di due anni, Lia, passavamo momenti felici insieme.

Diverse volte purtroppo durante questo lungo viaggio sono suonate le sirene anche a Tel Aviv, una mattina mentre lavoravamo in King’s George siamo dovuti uscire per chiuderci per qualche minuto in un rifugio attiguo, oppure la volta che ci siamo trovati di sera alla Bima e di corsa siamo corsi insieme a mia sorella e mio cognato nel parcheggio sotterraneo.

Io ho una predilezione per gli autobus israeliani, mi sento a mio agio quando mi ci trovo sopra, mi fa sentire un cittadino telaviviano, ed anche per questo che posseggo la tessera. Una volta che mi trovavo, ritornando appunto dal lavoro, sull’autobus numero 8, lungo Rehov Dizengoff, tutti i passeggeri sono dovuti scendere, e ci siamo rifugiati nel basement di un ristorante. Quando suona la sirena della Red Alert, il suono ti penetra nelle orecchie, e poi dopo alcuni secondi senti i vari bum bum dell’Iron Dome, dei colpi che sembrano non finire mai.

Sono momenti di fibrillazione, ma seguendo gli israeliani, mi sono comportato come loro e con il dovuto senso di responsabilità e di prontezza senza alcun tentennamento.

Proprio sul lungo viale di Dizengoff vi sono tante panchine, sulle quali sono stati disposti, a ricordo dei poveri ostaggi, degli orsacchiotti giganti con una benda nera sugli occhi e delle macchie di vernice rossa con una foto di ogni ostaggio legata al collo.

Un’altra immagine del dolore di tutta Israele è presente nella grande piazza circolare con la sua bella fontana, Kikar Dizengoff, sul cui muretto vengono accese delle candeline, degli oggetti ricordo delle persone che sono state massacrate. Gli zampilli d’acqua infiniti sono come le lacrime che sgorgano sui volti di ogni israeliano e di ogni ebreo.

Un altro dei luoghi pubblici in cui questo senso di unità è sempre presente e visibile è il piazzale dedicato ai hatufim (ostaggi) dove ogni sabato sera, alla fine dello Shabbat, la gente si raccoglie e si raduna per portare la solidarietà alle famiglie degli ostaggi. Ad oggi sono ancora 134 nelle mani di Hamas.

La lunga tavolata dedicata ai 240 ostaggi attigua al Museo d’Arte di Tel Aviv

La piazza è antistante al Museo d’Arte di Tel Aviv in Sderot Sha’ul HaMelech, è stata arredata con un lungo tavolo apparecchiato con i 240 posti dedicati agli ostaggi con le loro foto, i calici, i piatti e le posate, una candelina accesa.

Gli interventi dei parenti, le musiche, le innumerevoli foto delle persone, dei bambini e degli anziani che hanno subito delle cose atroci completano la coreografia di questo grande spazio con gli slogan scanditi con forza, tristezza e grande partecipazione. Quando ti trovi in mezzo a questa gente, al tuo fianco ti rendi conto che hai dei parenti o degli amici con le lacrime sui volti, e piangi anche tu. Sull’altro lato della strada risiede il Ministero della Difesa e il grande edificio quadrato e illuminato dove si svolgono le riunioni del gabinetto di sicurezza del governo, dove si prendono le decisioni politiche e militari.

Ecco, bisogna stare qui in Israele e vivere con la gente normale, con il popolo, per capire a fondo la natura speciale di questa nazione, dove nei momenti difficili e drammatici come quello del post 7 ottobre, si percepisce la profonda unità e resilienza, in cui ho provato delle emozioni straordinarie, davvero uniche.

Am Israel Chai!