di Anna Balestrieri
Grazie agli sforzi organizzativi di Mimi Navarro, definita dalle relatrici una “woman of vision”, ha avuto luogo lunedì 4 dicembre la conferenza sul femminicidio organizzata dall’ Associazione Italia-Israele di Milano.
Tre le donne che, con approcci diversi ed originali, hanno presentato ai più di duecento partecipanti opzioni per vivere la cesura tra il prima e il dopo quel che Monsignor Pier Francesco Fumagalli ha definito “il pogrom del 7 ottobre”. A moderare l’incontro la giornalista Carlotta Morgana, scioccata dal “silenzio assordante” sulla vicenda del femminicidio delle donne israeliane il 7 ottobre, documentato nella stampa italiana già da fine novembre da Lucia Annunziata, tra gli spettatori dell’esibizione delle prove sui crimini commessi da Hamas. Sono state le femministe francesi di Paroles de femmes a scuotere gli animi in Italia e a chiedere a gran forza, con una petizione che ha raccolto più di sessantamila firme, “il riconoscimento di un femminicidio di massa”. L’appello è stato condiviso e fatto proprio anche dall’UCEI e dalla Comunità Ebraica di Torino.
“Il 7 ottobre Hamas ha ucciso centinaia di donne in Israele durante un festival musicale e nelle fattorie comunitarie. Crimini specifici delle donne. Le donne sono ancora ostaggi, considerate bottino di guerra”, hanno ricordato le attiviste francesi. Donne assassinate, stuprate, i loro corpi martoriati da vive e vilipendiati da morte.
La memoria
Per dare giustizia alle vittime di femminicidio, bisogna raccontarne le storie, ascoltare chi ha la competenza di intervenire per interrompere la faziosità sterile e propagandistica di questi mesi.
Per infondere una nota positiva ai racconti ed alle immagini della barbarie, Tsvia Peres Walden dell’Università Ben Gurion del Negev ha voluto presentare le storie di coraggio, determinazione e resilienza di sette donne. Dalla giovane Mia Leimberg, appena diciassettenne, che ha saputo nascondere e proteggere il proprio cane Bella fino alla liberazione, a Noa Marciano, diciannovenne che ha vissuto l’orrore di vedere morire quasi tutti i suoi commilitoni in un attacco, sopravvivendo dapprima e perendo poi in cattività, una delle Cassandre inascoltate dell’attacco.
Passando per le eroiche Inbal Rabin-Lieberman, ventiseienne, salvatrice del kibbutz di Nir Am, che ha gestito il caos orchestrato dalla mancanza di elettricità e ha rifornito di armi i membri del kibbutz e Orr Livni Ben Yehuda, trentaquattrenne, che ha combattuto senza sosta per 14 ore, dimostrando un coraggio senza pari nel liberare una base dai terroristi, nonostante la scarsità di informazioni dell’intelligence. Nira Shpak, cinquantasettenne di Kfar Aza, non mobilitata dall’esercito ma ugualmente determinata ad aiutare, ha sfruttato la sua esperienza militare per entrare nelle case distrutte, salvare sopravvissuti e identificare i corpi delle vittime. Rachel Edri, sessantacinquenne di Ofakim, è stata portata come esempio di astuzia ed umanità: ha offerto cibo ed ospitalità ai terroristi per 19 ore, intrattenendoli grazie alle sue doti culinarie ed alla conoscenza dell’arabo, grazie alle sue origini marocchine. Una Giuditta biblica contemporanea, che, guadagnando tempo, ha permesso alla polizia di sopraggiungere annientando i terroristi
Aviva Sela, novantasettenne del kibbutz Beeri, ha visto la sua casa trasformata da Hamas in un centro di smistamento per gli ostaggi. Allontanatasi dal kibbutz aggrappata al suo girello, si è salvata ed ha lottato con tenacia da allora per il rilascio di suo nipote, Itay Svirsky, tra i 130 tuttora tenuti in ostaggio a Gaza.
La relatrice, figlia di Shimon Peres, ha voluto rinnovare la speranza di convivenza tra le due culture, ebraica e araba e lanciare un messaggio di positività ed orgoglio. La fierezza per la dignità dimostrata dalle donne israeliane è stata rincarata nei commenti dalla professoressa Sarah Kaminsky, che ha voluto ricordare al pubblico italiano quanto le donne israeliane non siano costrette alla leva militare bensì vedano con orgoglio il proprio avere un ruolo attivo nella difesa del paese.
Femminicidi: perché il doppio standard?
La Professoressa Shalva Weil dell’Università Ebraica di Gerusalemme ha analizzato il fenomeno del femminicidio. In Italia, la tragedia si verifica ogni 72 ore, rappresentando una morte femminile ogni tre giorni a causa del semplice fatto di essere donna. Tuttavia, in Israele, si registra una media di non più di 1,8 casi al mese, evidenziando una differenza significativa rispetto alla frequenza italiana.
Il femminicidio è definito come la morte di una donna a causa del suo genere, un concetto che è emerso come evoluzione dell’uxoricidio, che riguardava il delitto coniugale. In molte società arabe, il femminicidio è strettamente collegato al concetto di delitto d’onore, un fenomeno purtroppo diffuso. Interessante notare che, globalmente, i matricidi rappresentano il 10% dei femminicidi.
Nel contesto più ampio, si potrebbe discutere se le caratteristiche tipiche del genocidio siano applicabili al femminicidio, come avvenuto nel caso del 7 ottobre. Esplorare questa connessione potrebbe offrire un’ulteriore comprensione delle complesse dinamiche coinvolte nel trattare questo tema.
Il richiamo “Palestina libera dal fiume al mare” rende evidente che lo scopo di Hamas sia quello di sterminare la popolazione israeliana.
Shalva Weil ha proposto la creazione di un Osservatorio europeo sul femminicidio come nuova direzione per il futuro, mostrando i vantaggi di una collaborazione transnazionale per prevenire l’omicidio di donne e ragazze. Ha collaborato con migliaia di organizzazioni femministe in Europa e in America.
Il suo appello alla condanna, tuttavia, è rimasto senza risposta. In un articolo di opinione sul Jerusalem Post del 15 ottobre, prima di qualsiasi bombardamento israeliano su Gaza, ricorda Weil, e in una lettera inviata alle oltre 3000 organizzazioni con cui ha collaborato, la studiosa ha sollecitato l’applicazione del motto dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, “name it, count it, end it”. L’obiettivo di sensibilizzare e richiamare l’attenzione sul tema è rimasto inascoltato anche dalle femministe italiane di “Non una di meno” che, nonostante copiosi inviti, sono rimaste sorde alla sofferenza delle donne israeliane. E non certo perché il tema in Italia, esacerbato dalla recente tragedia di Giulia Cecchettin, non sia alla ribalta delle cronache.
Nella manifestazione contro il femminicidio di Roma che ha riunito cinquecentomila attiviste, non solo non è stata spesa nemmeno una parola circa la brutalità del 7 ottobre: un gruppo di manifestanti ha persino condannato l’atteggiamento di Israele.
“Che significato ha il diritto internazionale se si disconnette dai valori universali? Se non dà spazio neppure al grido di un simile orrore, perché riconoscerlo? Dopotutto, il diritto internazionale è un insieme di procedure volte a prevenire la sofferenza umana. In assenza di dichiarazioni che riconoscano la sofferenza, c’è una distorsione morale e un enorme fallimento”, ha affermato la dottoressa Cochav Elkayam-Levy, un’attivista di spicco del movimento di protesta ‘Bonot Alternativa (Women Building an Alternative).
Essere una donna israeliana
Angelica Edna Calo Livne, educatrice e sostenitrice della pace e del dialogo tra bambini di diversa estrazione religiosa e culturale attraverso le arti, è stata l’interprete della risposta più emotiva alla tragedia delle donne israeliane del 7 ottobre.
Ha spiegato al pubblico il significato e il peso emotivo di essere madre, moglie e sorella in Israele, nel contesto attuale in cui il paese vive da due mesi consecutivi un quotidiano Yom Hazikaron, giorno di commemorazione per i caduti.
Il numero impressionante di 1281 persone decedute, insieme ai 130 individui ancora in cattività dopo due mesi, aumenta quotidianamente a causa dei caduti in guerra. La relatrice ha enfatizzato la potenza della rete di solidarietà che è nata spontaneamente in Israele immediatamente subito lo scoppio della guerra.
Anche Francesca Levi-Schaffer ha dato la sua testimonianza di donna israeliana. “Non ci sono parole per descrivere l’orrore subito il 7 di ottobre 2023 dalle nostre donne in quanto donne, la tristezza del silenzio di tutti ma soprattutto delle “altre donne”, dove la parola altre dovrebbe essere sbagliata. Il silenzio sul lutto delle “altre” donne in quanto israeliane, le madri, le nonne, le figlie, le mogli, le sorelle, le nipoti. Ma anche il silenzio sul dolore di tutta la nostra popolazione. Non ci sono parole per descrivere, e forse questo è un segno positivo, in nessun vocabolario di mia conoscenza, sia l’orrore e sia la sofferenza fisica e psicologica del tutto. Esiste una estrema malvagità, un infinito odio che sono risultati nelle violenze e stragi del 7 di Ottobre.
Che mondo abbiamo? Che mondo possiamo dare in eredità alle prossime generazioni? Quali raccomandazioni di vita fornire? Me lo chiedo come mamma e nonna ma anche come essere umano senza distinzione di genere. Cosa fare della nostra vita quando l’estremo orrore si presenta in un calmo solare giorno di festa agli inizi di Ottobre? Cosa sarà di noi, di Israele, degli ebrei in Israele e nel mondo intero? Questa è possibilmente la domanda, con l’esclusione di Israele, che si sono posti i reduci dei campi di sterminio. Ed ognuna/o ha trovato la propria risposta”.
Levi-Schaffer poi accusa il silenzio del mondo accademico-scientifico. “Io come membro della Accademia mi aspettavo un immediato appoggio da tutte e da tutti i miei colleghi. Ed invece niente!! L’Accademia dovrebbe essere l’esempio della estrema purezza, oggettività dell’accettazione solo di verità provabili. Morale e non di parte. Gli accademici con il 7 di ottobre sono stati, e continuano ad essere – vedi gli interventi delle presidentesse di Harvard, MIT e Penn University – assenti, silenziosi, con un silenzio per me assordante, nella maggior parte dei casi, se non accusatorio della parte “offesa” e scusanti della parte” offendente”!!! Hanno o deciso di non reagire, di non ragionare, di non pensare o di essere apertamente dalla parte del male.E non ho visto nessuna differenza fra college e colleghi, tutti uniti nella volontà di non condannare le atrocità indicibili condotte soprattutto contro le donne israeliane.
Come presidente di una società scientifica europea (EMBRN) ed una mondiale (IUPHAR) ho dovuto combattere a suon di telefonate e messaggi email per emettere un messaggio di condanna dei tragici eventi del 7 di Ottobre da pubblicare sui siti delle due societa’!
Finisco pensando alle nostre vittime per le quali la giustizia è di denunciare chi ha commesso i crimini, e per i nostri ostaggi ancora in mano dei mostri. Aiutateci a riportarli a casa anche se feriti nell’animo e nel corpo. Ce ne prenderemo infinita cura.E nel frattempo combattiamo con tutte le nostre forze per sconfiggere il Male”.
La banalità del male
Susan Sontag intuì il potere delle fotografie e la varietà di reazioni che possono provocare, “dalle richieste di pace all’appello alla vendetta”. Le immagini degli stupri delle donne israeliane sembrano non aver generato nulla oltre al dubbio. Nonostante la moltiplica degli appelli, anche illustri (l’ultimo dall’attrice Gal Gadot), prosegue il silenzio di UN Women e della maggior parte delle organizzazioni femministe. Gli interrogatori in cui i terroristi, paragonati da Liliana Picciotto ad Adolf Eichmann, descrivono apaticamente le atrocità compiute, non generano condanna nemmeno negli intellettuali arabi, approfondendo un divario culturale che potrà essere colmato solo dal riconoscimento di quanto è stato.