130 ostaggi ancora a Gaza: la protesta delle famiglie

Israele

dalla nostra inviata Sofia Tranchina
TEL AVIV – Il 2023 entra nel 2024, e per alcuni questo significa lenticchie e fuochi d’artificio. Ma in Israele, da dove vi scrivo, i botti sono quelli dell’artiglieria. Si piange, si protesta, si riflette: non si festeggia il Capodanno.

Non solo il lutto per i cari persi, ma la straziante attesa del ritorno degli ostaggi: più di un centinaio sono ancora a Gaza.

85 giorni di prigionia, tra la superficie e il sottosuolo, in denutrizione, privazione di medicine e di igiene, e senza sapere accadrà. Non si sa chi sia vivo, chi sia malato, chi sia in mano ad Hamas e chi sia disperso, ma le informazioni ricevute dagli ostaggi rilasciati non sono rincuoranti.

«Mentre ci avviciniamo all’inizio del nuovo anno, ho un solo desiderio: festeggiarlo insieme a mio padre», racconta Rotem Calderon, figlio di Ofer, che è ancora a Gaza. «Padre di quattro bambini che non riescono a dormire la notte senza di lui, Ofer è stato crudelmente rapito il 7 ottobre, insieme ai miei due fratelli minori [che sono stati rilasciati, ndr.]. Ogni momento è critico e possiamo perderli in qualsiasi momento. Devono essere liberati adesso».

Mentre il mondo gioca a scacchi schierandosi da una parte o dall’altra, tra una polemica sui social e una fetta di cotechino, i genitori degli ostaggi, i fratelli, gli amanti, gli amici, i figli, i nipoti e chiunque percepisca l’urgenza della causa, si radunano sabato 30 gennaio davanti alla base militare di Tel Aviv con una sola richiesta per il governo Netanyahu e il Gabinetto di Guerra: che la liberazione degli ostaggi sia una priorità assoluta. Prima di sconfiggere Hamas. Prima di creare accordi con un partito o un altro. Prima di tutto: stilare un piano per il ritorno a casa di tutti gli ostaggi, e non più accordi parziali.

«Achshav (עכשיו)! Adesso!», rituona il loro grido; «habaita (הביתה), a casa».

Per ottenere l’agognata liberazione, l’ex coordinatore americano per il Medio Oriente Dennis Ross ha proposto tre vie: spingere gli imam a dichiarare pubblicamente che rapire degli ostaggi non è islamico; convincere i sostenitori della causa palestinese a dire apertamente che Hamas sta danneggiando i palestinesi stessi; e fare pressione affinché il Qatar non si limiti a negoziare bensì imponga a Hamas di liberare gli ostaggi.

Organizzata dal Forum delle famiglie, la manifestazione fa parte di una lunga serie di dimostrazioni che dal 7 ottobre premono sui centri di potere del Paese.

Decine di migliaia di persone hanno partecipato, per ricordare a tutti che, a quasi tre mesi dal sabato nero, sono ancora in tantissimi a non essere tornati a casa, e non vanno dimenticati.

Ed è per questo che Moran Stela Yanai, ostaggio liberato dopo 54, chiede di non tornare alla routine. «Quando mi hanno rapito, mi hanno tolto tutto: il controllo sulla mia vita, sulla mia libertà, sul mio nome, sulla mia identità. Ora siamo la voce degli ostaggi ancora a Gaza. Loro devono ancora parlare sottovoce, ma noi dobbiamo gridare. Donne, uomini, bambini, giovani e anziani, religiosi e laici, di destra e di sinistra, arabi ed ebrei, sono ancora lì. Non hanno più tempo. Il pensiero più spaventoso a Gaza era che fossi stato dimenticato e che vi sareste abituati alla nostra presenza lì».

Tra le canzoni di Gali Atari e Yuval Dayan, le lacrime, i cartelli, i fiori, e le medagliette con la scritta “הלב שלנו שבוי בעזה, Bring them home” (i nostri cuori sono prigionieri a Gaza, riportateli a casa), Ilan Dalal ha letto una lettera a suo figlio Guy Gilboa, ancora ostaggio a Gaza, per tener viva la speranza del suo ritorno.

«Mio amato figlio Guy, qualche mese fa sei stato rapito da persone malvagie. Il desiderio di riaverti è insopportabile. Sei dentro ai tunnel senza vedere la luce del giorno. Stanco e impaurito di sorridere. Abbiamo bisogno che tu sia forte».

E infine: «non ci arrenderemo mai e faremo di tutto per riportarti a casa. Ti amo infinitamente, ragazzo nostro. Tutti gli ostaggi devono tornare a casa il più presto possibile».