Rosh Hashanà, l’arte della preghiera e dell’ascolto

Opinioni

di Daniela Abravanel

Rosh Hashanà è da  molti celebrato come una ‘festa’ e incentrato sulla cena in cui le famiglie si ritrovano in un’atmosfera gioiosa e purtroppo spesso poco consapevole della serietà di quel giorno definito dai maestri come Yom Ha Din, il giorno in cui Dio decide ‘chi vivrà’, chi sarà sano e sereno, chi dovrà perire nella guerra. Non per altro, Rosh Hashana è vissuto dai cabalisti come il giorno di più drammatica rilevanza del calendario ebraico, forse anche più dell’Yom Kippur nel quale Dio invece appare nel Suo volto di compassione e misericordia.

In realtà, anche la cena di Rosh Hashanà dovrebbe essere un vero rito alchemico che ci permette di ‘assaggiare’, di entrare in contatto,  attraverso il cibo, con la ‘Bontà di Dio: non è forse scritto ‘tamu u reu et Hashem ki tov’, assaporate e vedete quanto è buono Hashem ? Di fatto ogni volta che ci nutriamo consapevolmente possiamo entrare in contatto con quell’aspetto di Dio che amorevolmente ci sostiene, ma a Rosh Hashana l’assaporare i ‘simanim’, i cibi rituali, diventa un canale che ci permette di sperimentare la disponibilità di Dio a concederci un anno di bontà, una chance di ricominciare a nuovo, ripuliti dalla memoria dei traumi inscritti nella nostra psiche: di ‘addolcirci’ il palato, con il miele ad esempio, da tutte  le amarezze accumulate nell’anno passato.

Tuttavia affinché il rito possa avere il suo effetto deve essere svolto con vera kavanà: l’atto dell’assaporare deve essere una meditazione, un’operazione alchemica realizzata attraverso il senso del gusto – uno dei dodici hushim, sensi spirituali descritti dal Libro della Formazione. Cosa che difficilmente può avvenire, ovviamente, nell’atmosfera di spensieratezza che caratterizza a volte le cene festive ebraiche.

Non solo. Affinché sia possibile il rinnovamento che il seder di Rosh Hashanà mette in moto, esso deve essere seguito da ore di immersione nella preghiera, nella riflessione, nella teshuvà , ispirate dall’ascolto dello Shofar – il dono divino, il potentissimo strumento dato da Dio al popolo ebraico per risvegliare l’anima,  per darle vigore e direzione, al fine di poter fare le giuste scelte nell’anno a venire.

Troppe persone purtroppo non vivono l’esperienza di risveglio e di rinnovamento procurata dallo Shofar perché non frequentano la sinagoga durante il capodanno ebraico. Infatti la lunghissima liturgia del capodanno, per chi non sa l’ebraico, provoca una resistenza, una demotivazione e un’inevitabile perdita di concentrazione nel vitale lavoro spirituale che dovrebbe avvenire a Rosh Hashanà per tutti gli ebrei, senza esclusione di sorta. Si prega niente meno che per la Vita…in ogni possibile senso…

Per chi decidesse di andare in sinagoga, almeno per ascoltare lo Shofar, vorrei dare un’indicazione importante sulla kavanà da avere durante il suono dello Shofar. All’inizio, quando il suono è strozzato e esce con difficoltà dal corno dell’ariete, lo Shofar ha il potere di riconnetterci a livello superconscio al nostro ‘zar’ personale, alle frustranti ristrettezze emotive, economiche o di salute che sperimentiamo. Attraverso il vissuto consapevole di quel profondo disagio, risvegliato dallo Shofar, possiamo accedere alla spinta trasformativa che deriva proprio dalla nostra personale  sofferenza –rimossa da pesanti strati di inconsapevolezza e  negazione dei bisogni più profondi e  autentici della nostra anima.

Quando finalmente il suono fuoriesce dal corno dell’ariete con tutta la sua potenza, fa riecheggiare in noi il potere della libertà, dell’emancipazione dalle ristrettezze in cui viviamo a causa dei condizionamenti automatici che ci imprigionano. Allora lo Shofar diventa lo strumento di comunicazione, potente e trasformatore del divino che ci parla e ci rivela il nostro percorso personale verso la redenzione, immettendo nel nostro superconscio quel seme che ci porterà  a realizzare la nostra missione unica e personale. Non dimentichiamo, infatti, che il termine Shofar contiene le stesse lettere della parola Shipur, perfezionamento…

Un altro brevissimo consiglio, per chi non sapesse l’ebraico e volesse partecipare alle preghiere in sinagoga, è ricordarsi che il libro di preghiera è stato composto dai maestri affinché fosse una fonte di ispirazione e non una prigione. Così come i maestri hassidici che dimenticavano il testo delle preghiere recitavano l’Alef Bet e chiedevano a Dio di mettere insieme le lettere e comporvi delle preghiere, sono certa che chi saprà pregare dal cuore, dal ‘cuore risvegliato’ dal suono dello Shofar potrà comunque raggiungere con le sue parole, il ‘trono di gloria’.

Per rassicurare chi si sente intimidito ad andare in sinagoga senza conoscere i testi liturgici e a instaurarvi un dialogo personale con Dio,  vorrei proporre alcuni insegnamenti dei più grandi maestri dell’ebraismo riguardo alla preghiera personale e spontanea.

La preghiera personale

Il Talmud ci insegna che gli antichi ebrei meditavano un’ora prima di pregare, per ritrovare se stessi,  per fare heshbon nefesh, un’onesta valutazione delle loro imperfezioni, dei dubbi o dei punti di forza e delle loro priorità esistenziali. Per sentirsi consapevolmente al cospetto di Dio. Poi, dopo la preghiera meditavano un’altra ora per ‘ascoltare’  la ‘risposta’ di Dio: quale era il percorso che la divinità  aveva designato per la loro evoluzione spirituale.

Il Baal Shem Tov era noto per le sue Aliòth, le sue Ascesi mistiche, per il suo prediligere, come il nipote rabbi Nahman, alla frequentazione delle sinagoghe, la preghiera nei boschi, in compagnia degli angeli, l’hidbodedut e la danza sacra.

Oggi, chi osserva con oggettività il mondo ebraico non può far a meno di chiedersi: cosa resta delle ascesi mistiche dei profeti di Israele, cosa resta dell’amore quasi viscerale sperimentato per la Shehinà dai patriarchi? Perché dall’hidbodedut nella natura,  dal dialogo costante e personale con il divino, siamo giunti a una pratica religiosa e a una preghiera organizzata,  rapida e impersonale tra le mura delle sinagoghe ? E ancora: perché anche il Hassidismo è rientrato nei ‘ranghi’ dei conservatorismo, e ha rinunciato al suo carattere innovativo e rivoluzionario?

Oggi è innegabile il fatto che nonostante un ritorno all’osservanza di un gran numero di ebrei che hanno iniziato ad avvicinarsi alla Torà, questa teshuvà assume a volte un carattere esteriore, in quanto non provoca una profonda trasformazione della personalità, il Tikkun ha midot : la riparazione delle emozioni (la rieducazione emozionale tanto evocata anche da Coleman e dai teorici dell’Intelligenza Emotiva) e il superamento dei tratti caratteriali dell’anima animale – la meta principale del ‘ritorno’.

Sia in Israele (dove la discrepanza tra una meticolosa osservanza dei precetti e una sempre più diffusa aggressività, irascibilità ), sia nel resto del mondo ci si trova sempre più spesso di fronte al gap tra una religiosità esteriore e un mondo interiore e psicologico estraniato dall’essenza incontaminata dell’anima – che teoricamente in seguito alla teshuvà dovrebbe prendere il controllo, guidare  la nostra esistenza verso al realizzazione, la gioia, la salute del corpo e dell’anima.

Rav Shlomo Arush, chiedendosi a cosa sia attribuibile tale gap, ha fatto un’ipotesi: forse la mancata purificazione del carattere (considerata come dicevamo da Maimonide, Luzzato e da tutti i grandi saggi l’obbiettivo primo delle mitzvot), dipende da un’ignoranza diffusa della conoscenza della capacità di riflettere e meditare, senza la quale la preghiera rimane un fatto esteriore.

Già Rabbi Nahman nel racconto The Master of Prayers metteva in chiaro come l’unico rimedio all’esilio spirituale e alla mancanza di consapevolezza, fosse la preghiera, una preghiera che emergesse dal profondo del cuore, dalla riflessione (ishuv ha daat), dalla capacità di isolarsi e meditare (hitbodedut), pratica centrale per millenni tra gli antichi ebrei. La preghiera infatti è la manifestazione più elementare della fede.

Se viviamo Dio come  nostro Padre, è ovvio che la prima cosa che dovremmo fare di fronte a un problema è parlarGli, comunicare con Lui. Pregare dal cuore (senza in mano un sidur), significa parlare e comunicare con Dio proprio come faremmo con nostro Padre, con parole autentiche e personali. Tale comunicazione è possibile solo grazie alla percezione che Egli ci è accanto, di fronte, come dice il re David: “Ho posto Dio di fronte a me sempre”. In tale condizione l’assunto cabalistico del ‘Dio è in ogni luogo’ diventa esperienza sensoriale e la teoria della Misericordia divina per le sue creature nella meditazione diventa percezione dell’amorevole vicinanza della Shehinà.

Secondo rabbi Nahman, chi non è capace di stabilire una comunicazione diretta e profonda con il Divino è come un orfano, che non può chiedere aiuto e consiglio a suo Padre.

Vari testi ebraici di maestri, come ad esempio i  ‘Doveri del Cuore’  hanno l’obiettivo di trasformare la fede da teoria metafisica a prassi sperimentale che ci dà la certezza, la sensazione chiara e profonda della vicinanza di Dio, del suo essere a conoscenza di tutti i nostri bisogni, anche di quelli di cui noi stessi non siamo consapevoli.

Il nostro parlare a Dio, sentendoLo presente, è una dichiarazione di fede che supera ogni logica, ogni prova metafisica o spiegazione teologica.  Un vescovo cristiano mi stupì nell’aver intuito il potere della preghiera ebraica quando mi confessò che quando portava i fedeli in pellegrinaggio in Terrasanta li conduceva sulla spianata del Kotel (il Muro del Pianto) e poi ad occhi chiusi li invitava a camminare fino al Muro. Lì dovevano ascoltare la gente semplice che prega, bagnando di lacrime il Muro (come insegnava il re David nei salmi: sciogli come l’acqua il tuo cuore).

Le preghiere quotidiane d’obbligo stabilite dai Saggi devono essere un incentivo, un addestramento alla pratica di parlare e comunicare con Dio, e non la motivazione per la rinuncia al dialogo continuo, intimo e personale con Dio.

Aver disimparato a parlare con Dio dal cuore fa sì che  a parte alcune eccezioni,  anche nelle sinagoghe spesso manchi la kavanà, quel trasporto che per millenni ha caratterizzato la preghiera ebraica. Questo discorso si fa particolarmente serio nelle ezrat nashim (la zona dove pregano le donne) dove chi vorrebbe concentrarsi e pregare, a volte ha difficoltà a evitare di ascoltare lunghe confidenze tra amiche.

In realtà, anche tra gli uomini molti finiscono per ‘recitare’ le orazioni nel modo più veloce possibile – come un dovere di cui disfarsi e non come una preziosa opportunità di connettersi con Dio e con la neshamà, la nostra anima divina.

L’identificazione della preghiera con la lettura e recitazione delle preghiere d’obbligo del siddur ha inoltre fatto sì che la preghiera personale (la preghiera che esce dal profondo del cuore) diventasse una pratica secondaria e facoltativa, mentre per l’Alahà stessa dovremmo rivolgerci a  Dio, con le nostre parole, ogni volta che viviamo una situazione di angustia (zar).  Inoltre la Alahà prevede che nella recitazione dell’Amidà è  bene,  dopo ognuna delle preghiere (meno che nelle tre benedizioni iniziali e finali) inserire delle parole individuali che rendano più autentica e personale la richiesta e l’espressione di gratitudine per i doni ricevuti da Dio. Oggi purtroppo pochi aggiungono preghiere personali nell’Amidà (meno che nella richiesta di guarigione e nello shma colenu) per non restare indietro rispetto al resto del minian.

Credo sia importante chiedersi come mai,  mentre la maggioranza degli ebrei osservanti fa a gara a osservare le mitzvot che riguardano il ‘fare’ (e non l’essere), come ad esempio, la ricerca  meticolosa del più bel Etrog o la costruzione della succà,  o i lunghi viaggi per comprare la carne kasher, quando devono pregare (mitzvà che riguarda il being, l’essere), cercano di farlo rapidamente, come se la preghiera fosse un precetto pesante (e secondario) da assolvere il più velocemente possibile.

Forse la risposta è che la rinuncia a una delle fasi fondamentali delle preghiera (la meditazione, la riflessione e l’introspezione che dovrebbe precedere la preghiera) provoca l’inconsapevolezza e la ‘rimozione’ di quegli aspetti della personalità da rettificare. Una preghiera che si recita correndo dietro ai ritmi affrettati dei minian (a volte scelti proprio perché più ‘veloci’ degli altri)  spesso non ci permette di sperimentare la tefillà come stage per mettersi in discussione e di vivere la preghiera come strumento di trasformazione, come ci insegna il termine ebraico  Leitpalel, che oltre che ‘pregare’ significa ‘giudicarsi’….