di Sofia Tranchina
In collaborazione il Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti” e la Casa della Cultura, è stato organizzato per la Giornata della Memoria un incontro per indagare le radici psicologiche della coazione a ripetere, una “tendenza incoercibile e inconscia a porsi in situazioni penose ripetendo vecchie esperienze senza rendersi conto di averle attivamente determinate”, nello specifico declinata nel contesto dell’antisemitismo e della psicologia dello sterminio.
Introdotti da Marta Pezzati, gli oratori hanno sviscerato la ciclicità del male come fenomeno psichico ed esistenziale: la storia insegna, ripetiamo ogni anno. Eppure, come teorizzato già da Freud, per gli esseri umani è difficile apprendere dall’esperienza, perché «il trauma genera ripetizione del trauma in forma diabolica», come spiegato dalla Presidente del Centro Milanese di Psicoanalisi Simonetta Bonfiglio. «Il ricordo deve smuovere il dolore vivo e accompagnare una riflessione».
La Vicepresidente della Casa della Cultura Silvia Vegetti Finzi, onorata recentemente con un Ambrogino d’oro, inquadra la Shoah come un’esperienza traumatica contemporaneamente collettiva e individuale.
Il 27 gennaio 1945 i cancelli di Auschwitz vennero abbattuti dalla sesta armata dell’esercito sovietico, ma, poco prima, le SS avevano evacuato il campo costringendo i prigionieri a una marcia forzata, causando la morte di molti di loro.
Da vent’anni il 27 gennaio, designato dall’ONU come Giornata della Memoria, si ricordano le tragedie del nazismo «che riguardano l’intera umanità, e ricordano gli orrori e le pulsioni che si possono celare anche in società colte, come la Germania degli anni ’40», nel tentativo di evitare che «la tragedia venga falsificata, negata, e abbandonata all’oblio».
Ma col tempo la Giornata della Memoria si stava trasformando «in un rituale vuoto e stanco», mentre quest’anno, con il prolungarsi del conflitto tra Hamas e Israele, si è caricata di tensioni e aspettative che hanno ricordato che la giornata non deve essere «solo una mera evocazione»: il ritorno del razzismo antiebraico rappresenta una «conseguenza esecrabile», una deriva difficile da invertire.
Offrendo uno strumento in più per la comprensione dell’antisemitismo nella sua evoluzione intergenerazionale, la psicologa Sara Boffito ha proposto le sue riflessioni sul dialogo con Francesco Barale, professore di Psichiatria e Direttore del Dipartimento di Scienze sanitarie applicate e psico-comportamentali dell’Università di Pavia.
Una “conversazione tra generazioni” sulla coazione a ripetere, che rischia di renderci «testimoni paralizzati e impotenti del ripetersi della violenza: sembra che il lavoro sulla memoria non serva a nulla, e che l’uomo sembra dominato da una forza di violenza imprescindibile».
Riprendendo la testimonianza di Primo Levi, e nello specifico l’episodio in cui una guardia nazista gli strappa di mano una stalattite di ghiaccio con l’imperativo del “qui non c’è perché”, Boffito spiega che accettare il male così com’è è un atto della ragione: «capire che non c’è perché è un punto di partenza: non deve essere scoraggiante».
Con la convinzione che gli interrogativi siano più utili delle affermazioni, invita ciascuno a riflettere su quali occasioni stiamo perdendo per aiutare le generazioni successive a capire e uscire dalla ripetizione coatta della violenza.
Dopo una discussione con il pubblico moderata da Ronny Jaffé, membro della commissione del gruppo sui traumi collettivi del Centro Milanese di Psicoanalisi (di cui è stato direttore fino al 2020), sulla scia aperta da Sonia de Cristofaro su Zakhor e la Psicoanalisi, la giornalista Cristina Battocletti introduce la figura di Boris Pahor, uno dei maggiori testimoni delle nefandezze del nazifascismo.
Sopravvissuto a cinque deportazioni, lo scrittore Boris Pahor ha dedicato la sua vita libera a denunciare i crimini dei totalitarismi: «tutto serve ad evitare che si ripetano gli stessi errori».
È l’uomo che ha detto 3 volte no: al nazismo, fascismo e comunismo. La sua storia è scritta nella brillante biografia a quattro mani con Battocletti, Figlio di nessuno, che ha vinto Premio Manzoni come miglior romanzo storico.
Alla storia della sua sopravvivenza si accompagna un’intramontabile fiducia nei rapporti umani: è una testimonianza che nasce nell’incontro tra due generazioni, come un passaggio di testimone che tenta di «preservare la memoria non solo con il racconto storico dei fatti, ma con la creazione di un legame affettivo».
A conclusione dell’incontro un ulteriore dibattito con il pubblico moderato dallo psicoanalista Stefano Trinchero e una riflessione della psicoterapeuta Anna Ferruta.