Rayhane Tabrizi

Donne iraniane contro il regime e al fianco d’Israele. Intervista a Rayhane Tabrizi

di Nathan Greppi
Dopo il recente attacco iraniano contro Israele e la successiva reazione israeliana contro la base militare di Isfahan, nel nostro paese c’è stato chi ha appoggiato l’Iran, incolpando il governo di Gerusalemme per il precedente attacco contro l’ambasciata iraniana a Damasco (che come abbiamo spiegato qui su Mosaico, mirava ad eliminare degli ufficiali iraniani che rifornivano di armi Hezbollah).

Tuttavia, proprio tra la stessa popolazione iraniana, non sono mancati coloro che hanno denunciato il regime islamico che governa a Teheran, e che da decenni dichiara apertamente di voler cancellare lo Stato Ebraico dalle mappe. In particolare, si sono schierati dalla parte d’Israele quegli attivisti iraniani che, soprattutto dopo l’uccisione della giovane Mahsa Amini nel settembre 2022, protestano per affermare una vera democrazia e uguali diritti per le donne nel loro paese, al grido “Donna, vita, libertà”.

Una di queste è Rayhane Tabrizi: nata a Teheran nel 1979, vive a Milano dal 2008. Dopo la morte della Amini, Tabrizi è diventata una delle attiviste iraniane che vivono in Italia, co-fondatrice dell’Associazione Maanà.

Tra gli iraniani della diaspora, come è stato recepito il recente attacco contro Israele e la conseguente reazione israeliana?

Come in tutti i popoli, anche in quello iraniano si trovano varie opinioni. Sabato sera, quando l’Iran attaccò, molti iraniani anche qui in Italia temevano che sarebbe scoppiata un’altra guerra. Noi portiamo ancora sulle nostre spalle il ricordo di otto anni di guerra con l’Iraq (dal 1980 al 1988, che fece oltre un milione di morti, ndr), della quale ci ricordiamo ancora le conseguenze. Per questo, la stragrande maggioranza degli iraniani vuole evitare la guerra.

Dall’altro lato, molti iraniani vedono Israele come l’unica speranza che può aiutarci ad accelerare la caduta del regime degli ayatollah. Perché ad oggi, dopo due anni di lotta, purtroppo né l’Europa né l’America ci hanno sostenuti come dovrebbero. Per loro, la continuazione del regime comporta maggiori profitti rispetto ad una sua eventuale eliminazione.

La sera dell’attacco eravamo tutti preoccupati, ma sapevamo anche sulla base del tipo di armi utilizzata che l’azione iraniana sarebbe stata più che altro uno spettacolo per rispondere a ciò che è successo in Siria. Loro non vogliono farsi coinvolgere direttamente più di tanto, perché hanno già i loro proxy nella regione, come Hamas, Hezbollah e Houthi. È servito sia per mettere a tacere le fazioni iraniane più intransigenti contro Israele, sia per distogliere l’attenzione da quello che succede in Iran, ovvero la forte repressione nei confronti delle donne.

Una manifestazione in Italia per le donne iraniane

Dopo la morte di Mahsa Amini, come ha deciso di unirsi alle proteste?

Nel nostro gruppo, io sono una delle poche che vivono qui in Italia ormai da tanti anni. Per molto tempo non mi sono occupata di politica, concentrandomi sulla mia vita privata e il mio lavoro. Ma dopo l’ennesima uccisione di una donna innocente, qualcosa è cambiato dentro di me, così come in molti altri. E questa volta, ho deciso di buttarmici appieno, anche perché non si può più tornare indietro. Io oggi non posso più tornare in Iran finché non ci sarà un cambio di regime. Fermarmi adesso sarebbe una sconfitta, in primis per me stessa.

Quali difficoltà dovete affrontare per portare avanti le vostre battaglie?

La nostra comunità, qui in Italia, è piccola e assai fragile; molti degli iraniani che vivono qui, specialmente in Lombardia, sono studenti senza un lavoro, che una volta terminati gli studi devono tornare in Iran. Ciò li rende vulnerabili, e spesso impedisce loro di esporsi.

Oltre a loro, so che ci sono anche molti ebrei iraniani che vivono qui da oltre quarant’anni, ma alle nostre manifestazioni non sono mai venuti; ho saputo della loro esistenza quando siamo andati alle manifestazioni in ricordo del 7 ottobre. Il fatto che non siano mai venuti a manifestare con noi mi addolora molto, perché penso che condividiamo lo stesso obiettivo. Loro potrebbero esserci di grande aiuto, perché vivendo in Italia da più tempo conoscono meglio la lingua e hanno più risorse e conoscenze.

Diverse associazioni femministe, come Non una di meno, hanno taciuto o addirittura negato gli stupri delle donne israeliane compiuti da Hamas il 7 ottobre. Secondo lei, cos’è che le femministe occidentali non riescono a capire, su Israele come sull’Iran?

C’è una gerarchia nelle scelte di certe associazioni, per cui vengono squalificate le donne iraniane e israeliane. Fin dall’inizio, abbiamo visto sulla Casa delle Donne di Milano lo striscione a sostegno delle donne di Gaza. Invece, dopo che in questi giorni il regime iraniano ha iniziato ad inasprire la violenza verso le donne, non hanno mai detto nulla.

Da quello che vedo, sono permeate da un forte antiamericanismo e da un forte antioccidentalismo, nonostante loro stesse vivano in Occidente. Per questo, Israele e quegli iraniani che sono schierati con gli Stati Uniti non vengono visti bene. E il fatto che la sinistra italiana abbia legittimato l’attacco iraniano contro Israele, nonostante quello in Iran sia un regime autoritario che finanzia movimenti terroristici in tutto il Medio Oriente, dimostra ancora di più come vi sia un forte pregiudizio in certi ambienti.

Questo non significa che non mi dispiaccia vedere le donne e i bambini che muoiono nei bombardamenti a Gaza. In tutte le guerre, chi ci rimette di più sono sempre le categorie più deboli. Ma al tempo stesso, non possiamo tacere sugli stupri che hanno subito le donne israeliane. La foto della giovane Shani Louk morta e stesa sul bordo del furgone, l’ha scattata un fotografo palestinese; e quindi, come si può negare qualcosa che è stato dimostrato dagli stessi che l’hanno compiuto? E se i gruppi femministi non sostengono queste vittime, allora non è femminismo, ma un’ideologia politica. Se queste organizzazioni fossero davvero femministe, sosterrebbero le donne di ogni nazionalità e religione.

Cosa pensa che dovrebbero fare le istituzioni italiane per appoggiare la causa dei dissidenti iraniani?

Innanzitutto, chiudere i rapporti con il regime degli ayatollah. Purtroppo questi rapporti sono molto stretti: basta vedere il messaggio di augurio della nuova Ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amadei, nominata da poco. In un incontro con il Ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian, la Amadei si è presentata con il velo, mentre in Iran le donne vengono uccise se non portano il velo. Questo è stato uno schiaffo per noi iraniane, perché ha legittimato ciò che noi non accettiamo più.

Occorre prendere una posizione chiara: o si è dalla parte del popolo iraniano, o dalla parte del regime. Non si dovrebbe poter giocare in mezzo; molti lo fanno per guadagnare, ma non è corretto nei confronti di un popolo che in un anno ha perso centinaia di persone uccise dal regime. Oppure, se non si possono tagliare i rapporti, si dovrebbe almeno facilitare l’ingresso in Italia dei dissidenti iraniani in cerca di asilo politico.

Prima dell’ascesa di Khomeini nel 1979, l’Iran e Israele avevano buoni rapporti. Qualora la Repubblica Islamica dovesse cadere, crede che i due paesi potranno essere nuovamente alleati?

Questo dipende anche da quale tipo di governo ci sarà in futuro. In ogni caso, anche durante questi 45 anni da quando sono saliti al potere gli ayatollah, il popolo iraniano non ha mai odiato davvero il popolo israeliano. E questo nonostante ci abbiano sempre obbligato tutte le mattine a urlare slogan contro l’America e a calpestare la bandiera israeliana dipinta davanti all’ingresso della scuola. Tale odio non si è mai sedimentato davvero nei nostri cuori.

Davanti a una moschea ad Ahvaz (Iran), le persone si sono rifiutate di mettere le scarpe sulle bandiere israeliana e americana (Foto: Twitter)

Quali sono i vostri progetti per il prossimo futuro?

Sin dall’inizio delle nostre proteste, abbiamo ricevuto un forte sostegno da parte di Andrée Ruth Shammah e del Teatro Franco Parenti. Dal 23 al 28 aprile, andrà in scena al Parenti uno spettacolo intitolato Le mie tre sorelle. Il regista è un esule iraniano, Ashkan Khatibi, mentre l’attrice protagonista, Sadaf Baghbani, è una ragazza iraniana alla quale le autorità hanno sparato durante le manifestazioni e ha 150 pallini di piombo in corpo; lo spettacolo racconta la sua vita.

Dopo che è fuggita in Italia, ha cercato di continuare a vivere e a seguire il suo sogno di recitare, ma è in grosse difficoltà; alcuni proiettili le sono rimasti in corpo, vicino agli organi, e per questo deve essere operata. Invito tutti ad andare a vedere il suo spettacolo, che è il modo migliore per mostrarle solidarietà.