«Memoria? Israele e Diaspora sono, oggi più che mai, una cosa sola»

Israele

di David Zebuloni

Un algoritmo ha calcolato che compare un contenuto antisemita ogni 80 secondi sul web. Siamo di nuovo davanti alla negazione del diritto a esistere? Sì. “Il parallelismo con la Shoah è comprensibile, ma sbagliato. Non ci sarà più un’altra Shoah. Per fortuna ora abbiamo uno Stato e un esercito”. Parla Dina Porat, la grande storica dello Yad Vashem

 

La storia di Israele si divide in due: prima del 7 ottobre e dopo. L’attacco terroristico di Hamas nei Kibbutzim e al Nova Festival, nonché l’uccisione di 1200 israeliani in un giorno solo e la tenuta in ostaggio di oltre duecento civili innocenti a Gaza, hanno segnato la storia dello Stato Ebraico più di quanto abbia fatto qualunque altra guerra dal 1948 ad oggi. Ma non finisce qui. In parallelo a ciò che avviene in Medio Oriente, anche l’antisemitismo in Italia, in Europa e nel mondo pare alzare la testa. Un odio antico e sopito, mai realmente scomparso. «Antisemitismo e antisionismo sono strettamente legati – spiega Dina Porat, la più importante storica del museo Yad Vashem e professore emerito dell’Università di Tel Aviv –. Chi nega al popolo ebraico l’indipendenza o, peggio, chi non crede nel suo diritto ad avere uno Stato Ebraico, nega di fatto la sua esistenza. Non ogni forma di antisionismo ha radici antisemite, ma il risultato è lo stesso: la negazione di un diritto ad esistere. Pensiamo al solo termine, antisionismo. Esistono altri movimenti definiti “anti” gli altri Stati del mondo? No. Il nostro popolo esiste da tremila anni, com’è possibile che dobbiamo ancora batterci per il nostro diritto ad esistere? È assurdo».

 

Assurdo, eppure l’antisemitismo cambia nel tempo, muta, si evolve. Talvolta, si traveste. «L’odio a cui stiamo assistendo in questi giorni non è diverso da quello che conoscevamo ottant’anni fa. Oggi lo chiamiamo forse antisionismo, ma l’odio è odio. L’antisionismo è antisemitismo. D’altronde, il confine tra Israele e le comunità ebraiche del mondo oggi quasi non esiste più. Insultare un israeliano è come insultare un ebreo e viceversa. Attaccare una comunità ebraica europea è come attaccare Israele e viceversa. Israele e diaspora sono una cosa sola», sostiene Porat. Per combattere l’odio, dunque, quali strumenti hanno oggi gli ebrei d’Italia e d’Europa che in passato non avevano? La risposta dell’esperta è semplice. «Oggi sappiamo cosa può succederci quando tacciamo – afferma -. In passato ignoravamo il pericolo al quale ci esponeva l’odio. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, abbiamo imparato a non tacere più. E non dobbiamo tacere più. Dobbiamo denunciare ogni singolo atto di antisemitismo, anche se ci sembra minore o apparentemente innocuo». Prende un lungo sospiro. «Sai, esiste un algoritmo capace di intercettare in rete i contenuti antisemiti. Indovina ogni quanto tempo viene condiviso un contenuto antisemita. Ogni 80 secondi. Ti rendi conto? 80 secondi. Il pericolo non è solo nelle strade. Bisogna agire attraverso la legislazione e rendere anche i social un luogo più sicuro per i nostri giovani. L’odio inizia lì».

Alcune domande sorgono tuttavia spontanee: quale è stato il ruolo della Memoria negli ultimi ottant’anni? Cosa è andato storto nel modo in cui abbiamo parlato della Shoah se, ad oggi, gli ebrei soffrono dello stesso odio? Il lavoro dei testimoni è forse stato inutile? Ha senso celebrare ogni anno il Giorno della Memoria il 27 gennaio? «Il parallelismo con la Shoah è comprensibile, ma sbagliato – risponde la storica -. La brutalità dell’attacco del 7 ottobre ricorda sicuramente il nefasto nazista, ma è durato un giorno solo. La Shoah è durata cinque anni. Questa è una differenza sostanziale e importantissima da capire. Non possiamo permetterci alcun tipo di parallelismo diretto tra la Shoah e il 7 ottobre. Possiamo sicuramente dar sfogo alle nostre paure, che sono le stesse. Possiamo associare le due forme di odio, quello di ieri così simile a quello di oggi, ma non possiamo creare una simmetria perfetta. Dunque sì, il prossimo 27 gennaio sarà diverso dai precedenti, non c’è dubbio, ma anche noi siamo diversi da quelli che eravamo in passato. Siamo meno spaventati, meno deboli, più indipendenti. Abbiamo uno Stato, un esercito, degli alleati. Non siamo più negli anni ‘30».

Dina Porat ha il tono fermo. «I testimoni della Shoah hanno fatto un lavoro straordinario e preziosissimo nel sensibilizzare le nuove generazioni all’odio. Un lavoro che noi dobbiamo continuare. Questo è il nostro compito. Poi, il fatto che l’odio non si sia estinto, che esista ancora, non ha nulla a che vedere con l’impegno dei testimoni. Non esiste un vero vaccino all’odio, purtroppo, ma non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo continuare a impegnarci affinché i giovani e meno giovani capiscano che la causa ebraica non va sostenuta solo nei confronti degli ebrei morti, ma anche nei confronti di quelli vivi. È troppo facile rivendicare i diritti di chi non c’è più. Dobbiamo rivendicare i diritti di chi c’è e si batte quotidianamente per farli valere».

 

In chiusura, quando ho ipotizzato uno scenario apocalittico circa il futuro delle comunità ebraiche europee, la risposta della professoressa mi ha stupito. «Possibile che il mai più che tanto abbiamo ripetuto, sia stato del tutto vano? Possibile che un’altra strage si possa ripetere?» le ho domandato. «Ma sei impazzito ragazzo mio? Ma che cosa stai dicendo? Bevi una tisana e calmati», ha esclamato lei. Poi ha concluso: «Ciò che è stato è stato, e non sarà mai più. È vero, abbiamo subito un trauma il 7 ottobre, ma da allora ci siamo rialzati. Oggi abbiamo uno Stato e un esercito. Siamo forti, siamo consapevoli, siamo attaccati alla vita e no, non ci sarà mai più un’altra Shoah».

 

Foto in alto: Yad Vashem (foto© lya Varlamov CC-BY-SA 4.0).
In alto: Dina Porat (foto © Tzachi Lerner CC).