Parashat Mattot Maasè. L’individuo è libero e ha un’identità solo se fa parte di una comunità

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il libro di Bamidbar giunge a una conclusione davvero molto strana. In precedenza nella parashá di Pinchas abbiamo letto di come le cinque figlie di Tzelofkhad andarono da Mosè con una rivendicazione basata sulla giustizia e sui diritti umani. Il loro padre era morto senza figli. L’eredità – in questo caso, una quota parte della terra – passava per linea maschile, ma in questa famiglia non c’era questa linea di successione. Sicuramente il loro padre aveva diritto alla sua porzione di terreno, e le figlie erano le sue uniche eredi. Di diritto quella spettanza avrebbe dovuto giungere a loro: “Perché il nome di nostro padre dovrebbe essere penalizzato nella sua famiglia, solo perché non ha avuto un figlio? Dacci una parte di terra insieme ai fratelli di nostro padre”. (Numeri 27:4)

Mosè non aveva ricevuto alcuna istruzione su tale eventualità, quindi chiese direttamente a Dio che si trovò a favore delle donne. “Le figlie di Tzelofkhad hanno ragione. Darai loro un’eredità tra i fratelli del loro padre e trasferirai così l’eredità del genitore”. Poi Dio diede a Mosè ulteriori istruzioni sulla spartizione dell’eredità, e la narrazione passa in seguito ad altre questioni.

Solo ora, proprio alla fine del libro, la Torà riporta un evento scaturito direttamente da quel caso. I capi della tribù di Tzelofkhad, pronipoti di Menashe, figlio di Josef, vennero e fecero la seguente denuncia. Se la terra dovesse passare alle figlie di Tzelofkhad e sposassero uomini di un’altra tribù, alla fine diventerebbe un possedimento dei loro mariti e quindi di proprietà della loro tribù d’origine. Così la terra che era stata inizialmente concessa alla tribù di Menashe sarebbe stata persa per sempre.

Ancora una volta, Mosè portò il caso a Dio, che offrì una soluzione semplice. Le figlie di Tzelofkhad avevano diritto alla terra, ma mantenendo l’appartenenza alla stessa tribù di provenienza. Pertanto, se desideravano prenderne possesso, devono sposare uomini della loro stessa tribù. In questo modo entrambe le affermazioni avrebbero potuto essere onorate. Le figlie non avrebbero perso il diritto alla terra, ma persero una certa libertà nella scelta del coniuge.

I due brani sono intimamente legati. Usano la stessa terminologia. Sia le figlie di Tzelofkhad che i capi del clan “si fecero avanti”. Usano lo stesso verbo per descrivere la loro potenziale perdita: yigara, “sottratta, diminuita”. Dio risponde in entrambi i casi con la stessa locuzione, «ken…dovrot/dovrim», si…giustamente parlano. Perché allora i due episodi sono separati nel testo? Perché il libro dei Numeri termina con questa nota apparentemente deludente? E ha qualche rilevanza oggi?

Bamidbar è un libro sugli individui. Inizia con un censimento, il cui scopo non è tanto quello di dirci il numero effettivo degli israeliti quanto quello di “alzare” la loro “testa”, l’insolita locuzione usata dalla Torà per trasmettere l’idea che quando Dio ordina un censimento è per dire al popolo che ognuno conta. Il libro si concentra anche sulla psicologia degli individui. Leggiamo della disperazione di Mosè, delle critiche di Aronne e Miriam nei suoi confronti, delle spie che non hanno avuto il coraggio di tornare con un rapporto positivo e del loro scontento, guidati da Korach sfidarono la leadership di Mosè. Leggiamo di Giosuè e Caleb, Eldad e Medad, Datham e Aviram, Zimri e Pinchas, Balak e Bilam e altri. Questa enfasi sugli individui raggiunge il culmine nella preghiera di Mosè al “Dio degli spiriti di ogni carne” per nominare un successore (Bamidbar 27:16) – inteso dai Saggi e Rashi nel senso di nominare un leader che si occuperà di ogni individuo come fosse unico, che si relazionerà con le persone nella loro unicità e singolarità.

Questo è il contesto della rivendicazione delle figlie di Tzelofkhad. Stavano rivendicando i loro diritti come individui. Giustamente. Come molti dei commentatori hanno sottolineato, il comportamento delle donne durante gli anni del deserto è stato esemplare mentre quello degli uomini è stato l’opposto. Gli uomini, non le donne, hanno dato l’oro per il vitello d’oro. Le spie erano uomini: un famoso commento del Kli Yakar (R. Shlomo Ephraim Luntschitz, 1550 –1619) suggerisce che se Mosè avesse mandato delle donne, queste sarebbero tornate certamente con un rapporto positivo. Gli uomini non compresero la giustizia della loro causa, e che se l’avessero sostenuta Dio avrebbe affermato i loro diritti come individui.

Ma la società non è costruita solo sugli individui. Come sottolinea il libro dei Giudici, l’individualismo è un altro nome per il caos: “In quei giorni non c’era un re in Israele, ognuno faceva ciò che era giusto ai propri occhi”. Di qui l’insistenza, in tutto il libro di Bamidbar, sul ruolo centrale delle tribù come principio organizzatore della vita ebraica. Gli israeliti furono contati tribù per tribù. La Torà stabilisce il loro preciso accampamento intorno al Mishkan e l’ordine in cui dovevano viaggiare. Nella parashà di Nasò, con una lunghezza eccessiva, la Torà ripete i doni di ogni tribù portati all’inaugurazione del Mishkan, nonostante ognuno di loro abbia dato esattamente lo stesso quantitativo di offerte. Le tribù non erano casuali nella struttura di Israele come società. Come gli Stati Uniti d’America, la cui struttura politica fondamentale è quella di una federazione di stati (originariamente tredici, ora cinquanta), così Israele era (fino alla nomina di un re) una federazione di tribù.

L’esistenza di qualcosa come le tribù è fondamentale per una società libera. Il moderno stato di Israele è costruito su una vasta panoplia di etnie: ashkenaziti, sefarditi, ebrei dell’Europa orientale, centrale e occidentale, Spagna e Portogallo, terre arabe, Russia ed Etiopia, America, Sudafrica, Australia e altri luoghi; alcuni ebrei sono chassidim, alcuni vengono da Yeshivot, altri “Moderni”, altri “Tradizionali”, altri ancora secolari e culturali.

Ognuno di noi ha una serie di identità, basate in parte sul contesto familiare, in parte sul lavoro, in parte sulla località e sulla comunità di provenienza. Queste “strutture di mediazione”, più grandi dell’individuo, ma più piccole dello stato, esistono dove sviluppiamo le nostre interazioni e identità complesse, vivide, faccia a faccia. Sono il dominio della famiglia, degli amici, dei vicini e dei colleghi e costituiscono ciò che è noto collettivamente come società civile. Una società civile forte è essenziale per la libertà.

Ecco perché, accanto ai diritti individuali, una società deve fare spazio alle identità di gruppo. Il classico esempio del contrario si è verificato sulla scia della rivoluzione francese. Nel corso del dibattito all’Assemblea Rivoluzionaria Francese del 1789, il conte di Clermont-Tonnerre fece la sua famosa dichiarazione: “Agli ebrei come individui, tutto. Per gli ebrei come nazione, niente”. Se insistessero a definirsi come una nazione, cioè come un sottogruppo distinto all’interno della repubblica, disse il conte, “saremo costretti a espellerli”.

Inizialmente, questo sembrava ragionevole. Agli ebrei venivano offerti i diritti civili nel nuovo stato-nazione laico. Tuttavia, era tutt’altro. Significava che gli ebrei avrebbero dovuto rinunciare alla loro identità di ebrei di pubblico dominio. Nulla – nemmeno l’identità religiosa o etnica – avrebbe dovuto frapporsi tra l’individuo e lo stato. Non è un caso che un secolo dopo, la Francia sia diventata uno degli epicentri dell’antisemitismo europeo, a partire dal feroce “La France Juive” di Édouard Drumont, 1886, e culminato con il processo Dreyfus. Sentendo la folla parigina gridare “Mort aux Juifs”, Theodor Herzl si rese conto che gli ebrei non erano ancora stati accettati come cittadini europei, nonostante tutte le proteste contrarie. Gli ebrei si trovarono considerati una tribù in un’Europa che pretendeva di aver abolito le tribù. L’emancipazione europea aveva riconosciuto i diritti individuali, ma non quelli collettivi.

Il primatologo Frans de Waal, del cui lavoro tra gli scimpanzé abbiamo menzionato nella parashà di Korach di quest’anno, fa il punto con forza. Quasi tutta la moderna cultura occidentale, dice, è stata costruita sull’idea di individui autonomi e capaci di scegliere. Ma non è quello che siamo. Siamo persone con forti attaccamenti alla famiglia, agli amici, ai vicini, ai nostri alleati, correligionari e persone della stessa etnia. Lui continua: “Una morale esclusivamente attenta ai diritti individuali tende a ignorare i legami, i bisogni e le interdipendenze che hanno segnato la nostra esistenza fin dall’inizio. È una moralità fredda che mette spazio tra le persone, assegnando a ciascuno il suo piccolo angolo di universo. Come questa caricatura di una società sia sorta nella mente di eminenti pensatori è un mistero”.

Questo è esattamente il punto della Torà quando divide in due la storia delle figlie di Tzelofkhad. La prima parte, nella parashà di Pinchas, riguarda i diritti individuali, i diritti delle donne a una quota della terra. La seconda, alla fine del libro di Bamidbar, riguarda i diritti di gruppo, in questo caso il diritto della tribù di Menashe sul proprio territorio. La Torà afferma tutti e due i diritti, perché entrambi sono necessari a una società libera.

Molte delle questioni apparentemente più intrattabili nella vita ebraica contemporanea sono apparse perché gli ebrei, specialmente in Occidente, sono abituati a una cultura in cui i diritti individuali prevalgono su tutti gli altri. Dovremmo essere liberi di vivere come scegliamo, adorare cosa vogliamo e identificarci in quello che crediamo. Ma una cultura basata esclusivamente sui diritti individuali minerà la famiglie, la comunità, le tradizioni, la lealtà e i codici condivisi di rispetto e moderazione.

Nonostante la sua enorme enfasi sul valore dell’individuo, l’ebraismo insiste anche sul valore di quelle istituzioni che preservano e proteggono le nostre identità come membri dei gruppi che le compongono. Abbiamo diritti come individui, ma identità solo come membri di tribù. Onorare entrambi è delicato, difficile e necessario. Il libro di Bamidbar si conclude mostrandoci come farlo.

Di rav Jonathan Sacks zz”l

(Foto: stampa di Frederick Richard Pickersgill, Le figlie di Zelophehad. Fonte: Wikimedia Commons)