Yisrael Aumann: «Nella cultura ebraica nulla è più importante dello studio»

di David Zebuloni

Sembra un rabbino, ma è un matematico e un razionalista convinto. Però dice anche che lo studio del Talmud ha portato gli ebrei alla ricerca, alla speculazione intellettuale. E quindi al Nobel. Fede e scienza, dice, hanno lo stesso scopo: aiutarci a capire la realtà circostante. Un’intervista esclusiva

Nell’immaginario collettivo, i premi Nobel sono personaggi leggendari, dalla spiccata intelligenza e nobiltà d’animo. Uomini e donne innegabilmente superiori alla media, circondati da un’aura di intellettualità indiscussa. Poi vi è Yisrael Robert John Aumann, premio Nobel per l’Economia nel 2005: a tratti personaggio epico, a tratti fin troppo umano. Nato a Francoforte nel 1930 e trasferitosi prima negli Stati Uniti e poi in Israele, Aumann è uno dei più illustri matematici della nostra epoca. Lo incontro nel suo ufficio nella Hebrew University a Gerusalemme: una stanza piccola, una lavagna da parete coperta di calcoli matematici, la scrivania nascosta da fogli e libri, la tazza di caffè pericolosamente appoggiata sulla tastiera del computer. Con la sua grossa kippah in testa e la lunga barba bianca, Aumann sembra più un rabbino che un matematico, nonostante sia noto come razionalista convinto. Una delle tante contraddizioni che rende il personaggio ancora più affascinante. Nella libreria ci sono più libri talmudici che libri di matematica e quando gli domando dove si trovi il tanto agognato Premio Nobel, indica in alto, verso il grosso armadio di legno. “Lì, da qualche parte”. Dice di non amare le conversazioni troppo intime e personali, ma al termine dell’incontro ringrazia per avergli dato l’opportunità di parlare di sé e non solo di numeri. Ciò che più caratterizza Yisrael Aumann, tuttavia, è il sorriso, benevolo e giocoso, che non abbandona il suo viso saggio nemmeno per un istante. Cosa rara, per gli intellettuali della nostra epoca.

Professor Aumann, perché crede vi sia sempre tanto entusiasmo attorno a voi Premi Nobel?
Ma no, solo un po’ d’importanza e di prestigio. Nulla di più.

Forse venite reputati più intelligenti rispetto alla media; lei si sente così?
Non posso dimostrarlo, ma nemmeno escluderlo. Se mi sento così? Che domanda strana, non saprei come rispondere. Facciamo allora che ti racconto una storia. Un giorno camminavo per Gerusalemme, ero particolarmente di fretta, facevo tardi a lavoro, quando un ragazzo mi fermò e mi chiese di farci una foto insieme. Essendo in ritardo, dovetti rifiutare. Lui protestò dicendo che era un turista dalla Francia e che non gli sarebbe più capitato di incontrarmi, ma io risposi che non ero affatto un turista e che facevo tardi a lavoro. Capisci cosa voglio dire?

Temo di no Professore.
Voglio dire che sono un uomo come tutti. Certo intelligente, ma assolutamente nella norma. Corro anch’io per andare al lavoro.

Vincere il Nobel non è certo da tutti. Mi riporta al momento in cui le annunciarono la nomina?
Ero seduto in questa stanza nella quale siamo seduti qui oggi. Stavo lavorando ad un articolo accademico che dovevo consegnare con urgenza, quando mi chiamarono dalla Svezia e mi dissero che ero stato nominato vincitore del Premio Nobel per l’Economia. Mi dissero anche che entro venti minuti avrebbero rilasciato la notizia ai media internazionali. Io ringraziai, corsi a chiudere la porta dell’ufficio a chiave e trascorsi quei pochi ultimi istanti di anonimato a concludere l’articolo. Venti minuti esatti dopo, cominciarono le telefonate da tutto il mondo e davanti alla porta del mio ufficio si formò una folla.

Cosa provò in quel momento?
Immagino di essermi un po’ emozionato, nulla di più.

Non le piace parlare di emozioni?
Non sempre è necessario.

Insisto, Professore.
Credevo volessi parlare di mate­matica.

Presto parleremo anche di matematica, intanto vorrei che mi raccontasse un momento particolarmente significativo del suo viaggio in Svezia.
Quando arrivai a Stoccolma per la consegna del premio, alloggiai in un bellissimo albergo insieme alla mia famiglia. Mi dissero che potevo portare solo sedici persone, ma io portai tutti i miei quarantadue nipoti. Quando uscimmo dall’albergo per partecipare alla cerimonia, uno dei miei nipoti mi disse di guardare in alto. Sul tetto dell’albergo sventolavano due bandiere: la bandiera della Svezia e quella d’Israele. In quel momento, a vederle così vicine, provai un’emozione profonda.

Einstein diceva che se non sai spiegare qualcosa ad un bambino di sei anni, significa che non lo hai capito nemmeno tu. Ecco, mi spiegherebbe in modo semplice qual è stato il suo contributo al mondo dell’economia?
Semplicissimo. Il mio campo di ricerca è la Teoria dei Giochi, una teoria matematica che studia le scelte razionali che compiono dei giocatori che hanno interessi contrapposti, e devono interagire tra loro strategicamente con il fine di vincere. Un po’ come in una partita di scacchi, ma in altri settori, come l’economia o la politica. Io ho sviluppato lo studio del gioco ripetuto, ovvero quello che ricerca i motivi per i quali due giocatori ripetono la stessa partita molte e molte volte. La risposta è semplice, quasi banale: tra i due si instaura un rapporto di fiducia reciproca. Tuttavia, tradurre la fiducia in termini matematici, non è affatto semplice. Il mio contributo è stato dunque quello di dimostrare che anche quando i due giocatori hanno interessi contrapposti, conviene sempre collaborare, scendere a compromessi, sviluppare una strategia comune o più semplicemente fidarsi l’uno dell’altro. Non lo dico io, lo dicono i numeri. Ottimista, vero?

Vero. Parliamo dunque di numeri Professore. Il 22,4% dei vincitori del Nobel sono ebrei, nonostante costituiscano solo il 0,2% della popolazione mondiale. Come spiega questo fenomeno?
Credo che lo studio sia da sempre la priorità assoluta del popolo ebraico. Mi dispiace per chi pensa che non vi sia espressione più religiosa di rispettare le norme dello shabbat o di “amare il prossimo come se stessi”, ma io penso che nella cultura ebraica nulla sia più importante dello studio. Nel mondo accademico si acquisisce prestigio pubblicando quanti più libri e articoli, anche se di fatto nessuno si scomoda a leggerli. Dio invece ci ha dato un solo libro, ma pretende che questo venga sempre studiato. Non parliamo dunque di uno dei tanti valori dell’ebraismo, bensì del suo valore cardine. Il più importante in assoluto. Lo studio del Talmud si poi è tradotto in un’occupazione intellettuale più ampia, che è sfociata nella ricerca, che si manifesta oggi in premi Nobel di ogni tipo.

E quanta politica crede che ci sia dietro la nomina dei vincitori?
Dipende dal premio. Dietro al Nobel per la Pace, molta. Dietro a quello per l’Economia, alcuna.

Professor Aumann, lei è uno dei grandi razionalisti della nostra epoca, ma anche un uomo di fede. Non vive in perenne conflitto interiore, tra scienza e religione?

Fede e scienza hanno lo stesso scopo: aiutarci a capire la realtà circostante. Come? Attraverso strumenti diversi. Se Rembrandt e Van Gogh disegnassero lo stesso bicchiere, non otterrebbero mai lo stesso risultato, poiché adoperano tecniche diverse. Non esiste dunque una verità assoluta, siamo noi a dare significato alla realtà circostante attraverso gli strumenti con i quali la osserviamo. Persino la forza di gravità non esisterebbe se noi non sapessimo riconoscerla e definirla tale. Così facciamo anche con la religione, quando diamo un nome a ciò che ci circonda e a ciò che ci capita. Sono strumenti, ed ogni strumento è legittimo e merita di essere utilizzato.

E quando si trova ad un bivio, quale strumento preferisce adoperare? Preferisce essere un uomo di fede o un uomo di scienza?
Ma perché vuoi farmi scegliere per forza?

Perché vi sono momenti in cui le due realtà si contraddicono e non posso coesistere.
Quando mangi una bistecca quali posate usi? La forchetta e il coltello. Quando mangi il gelato invece? Il cucchiaio. Ecco, così come ogni alimento richiede una posata diversa, ogni realtà richiede uno strumento di ricerca adatto. Scienza e religione mi permettono di guardare il mondo e la vita da prospettive diverse.

Torniamo a parlare di matematica. Milioni di persone nel mondo non la sopportano. Perché crede che i numeri incutano tanto timore?
Ti confesso che io a scuola non ero particolarmente brillante in matematica e ancora oggi non sono molto bravo a fare i calcoli. Il mio approccio è cambiato quando ho capito che la matematica non è altro che pura e semplice logica. La bellezza di questa materia non è definita dai numeri, bensì dalla possibilità di adoperare il proprio cervello per trovare una risposta precisa ai nostri dubbi così imprecisi. I numeri sono solo un mezzo che ci permette di dimostrare la validità delle nostre ipotesi, nulla di più. Chi teme la matematica deve smettere di preoccuparsi dei calcoli e cominciare a ragionare in modo logico ed efficace.

Professor Aumann, la ascolto e mi domando: le fa paura la vecchiaia? La sua arma più potente è la sua mente. Le fa paura l’idea di non riuscire ad utilizzarla al meglio?
Come faccio a temere una cosa che già sto vivendo? Ho 92 anni, sono già vecchio. La memoria la sto perdendo, ma spero di avere ancora qualche anno di lucidità davanti.

Non teme di perdere le sue capacità intellettive?
È una domanda molto personale questa, ma ti rispondo comunque. Proprio ieri ho ricevuto la mail di uno studente che voleva avere la mia opinione circa un articolo accademico molto approfondito. Ecco, per la prima volta da quando insegno ho dovuto rispondere dicendo che la mia testa piena di capelli bianchi non è più in grado di comprendere dei processi matematici tanto complessi. Sì, esiste in me il timore di perdere le mie capacità intellettive. Spero soprattutto di non diventare demente, ma per ora non posso fare altro che accettare quest’ultima fase della vita con il sorriso.