L’infaticabile Spielberg si confida nel suo film più personale: Fabelmans. Una quasi-autobiografia in cui svela la sua identità

di Roberto Zadik
Nonostante sia uno dei principali registi contemporanei il vulcanico e riservato Steven Spielberg non ha quasi mai affrontato temi autobiografici e di lui e della sua vita privata non si sa poi molto. Per questo, a tre mesi dal suo 76esimo compleanno (18 dicembre), il cineasta statunitense ha deciso di raccontarsi nel suo nuovo film Fabelmans che si preannuncia “estremamente personale” come lo ha definito lo stesso Spielberg e “il suo film più ebraico assieme a Schindler’s list e Munich”, stando alla definizione fornita dal Times of Israel, in un interessante articolo firmato da Stephen Silver.
Di cosa tratta questa nuova fatica spielberghiana e quali sono le sue peculiarità nella vasta produzione di questo versatile regista capace di sfornare  pellicole di vari generi, dalla fantascienza, all’avventura al filone intimista? Presentato il 10 settembre al Toronto Film Festival, il film, prodotto dalla Universal Pictures e in uscita negli Stati Uniti a metà novembre, è un’ode alla sua mamma ebrea e una riflessione sul suo passato. Infatti il lungometraggio esplora, come mai prima d’ora, vari profili inediti della biografia del regista. Fra questi la sua infanzia, il rapporto con i suoi genitori di origini ucraine, Aaron e Leah Spielberg che, nella pellicola, vengono nascosti da due pseudonimi,  Burt Fabelman, interpretato da Paul Dano e, nei panni di sua moglie Mitzi, da una strabiliante Michelle Williams.
Nel film emergono fatti inediti sulla sua giovinezza e sugli inizi incerti della sua carriera cinematografica. Una semi autobiografia in cui realtà e fiction si mescolano e anche lo stesso Spielberg, con lo pseudonimo “Sammy”, è interpretato dall’attore esordiente canadese Gabriel Labelle. Stimolato verso il cinema da sua madre che gli disse “i film sono sogni che mai dimenticherai” come ben si vede in una delle prime scene, quando da piccolo si recò con lei a vedere il suo primo lungometraggio, Spielberg ne venne talmente influenzato che, da quel momento, decise di darsi al cinema per tutta la vita.
Questa pellicola è l’ennesima dimostrazione del suo talento, evidenziato da capolavori come il film del suo esordio Duel, più di mezzo secolo fa nel 1971, e dall’angoscioso Lo squalo così come dall’entusiasmante saga di Indiana Jones. Accolto trionfalmente al Festival del cinema canadese, con un pubblico adorante che si è alzato in piedi per una standing ovation di oltre due minuti, il regista ha introdotto il suo nuovo lavoro raccontando sul palco che la storia è  basata sulla sua vita e che “ci stavo pensando da molto tempo”. L’amministratore delegato della manifestazione Cameron Bailey ha ricordato che il film esplora il background famigliare di Spielberg che, “pur avendo vissuto spesso e volentieri in ambienti non ebraici, ha sviluppato comunque una identità in tal senso” e che, come ha evidenziato lo sceneggiatore Tony Kushner, “è profondamente radicata nella sua personalità”.
Oltre al lato ebraico del regista, con diverse sequenze che lo rappresentano, assieme alla famiglia, mentre intona  i canti di Shabbat, celebra la festività di Chanukkà o assaggia le tipiche ricette gastronomiche ashkenazite, come il kugel,  il film approfondisce svariati momenti della sua vita. Vengono infatti rievocati gli ostacoli che il giovane Spielberg ha dovuto affrontare; primo fra tutti l’antisemitismo oltre ai trasferimenti della famiglia, dal New Jersey all’Arizona alla California del Nord, in cui egli soffrì il bullismo, sbeffeggiato come ebreo da parte di alcuni compagni che lo chiamavano spregiativamente “bagelman“. Il regista ha comunque specificato come si trattasse solamente di due persone, sollevando la scuola da qualsiasi responsabilità e discolpando una ragazza, alla quale fu molto legato da adolescente, che pretendeva da lui che  si avvicinasse al cristianesimo. Fra le curiosità, vari riferimenti ai suoi genitori e alla sua infanzia; suo padre, proveniente da una famiglia ortodossa, si affermò come  uno dei primi ingegneri informatici mentre la madre era talentuosa pianista. Spielberg frequentò la scuola ebraica e fece il bar mitzva in Arizona, vivendo assieme alle tre sorelle più piccole e ai genitori fino al loro divorzio, avvenuto a metà degli anni ’60. Fu un vero trauma per lui che cercò nel cinema una via di fuga dalle sue problematiche come le asperità della separazione famigliare, l’assenza del padre e varie altre sofferenze che emergono anche in alcune delle sue pellicole.
L’articolo del Times of Israel svela inoltre come la realizzazione del film sia stata per Spielberg un lavoro di analisi psicanalitica in cui lo sceneggiatore Kushner “si è rivelato una sorta di terapista” diventando suo confidente, nel corso della sceneggiatura, soprattutto quando “durante la pandemia del Covid avevamo tutto il tempo di parlare lungamente”. La collaborazione fra Steven e il suo sceneggiatore non si è rivelata solamente un riuscito sodalizio professionale ed artistico ma qualcosa di assai più profondo che, come ha detto il regista, gli ha permesso di ripercorrere alcuni “nodi irrisolti” della sua storia personale, anche se ha specificato che “non si tratta di un canto del cigno prima del ritiro dalle scene” e che non intende fermarsi qui.
Un entusiasmante amarcord per il regista che ha cercato di ripercorrere, proustianamente, il suo passato non solo assieme allo sceneggiatore ma, secondo quanto mette in luce il Washington Post in un articolo di Jake Cole, con i protagonisti del film. Spinto dall’intento di raccontare “scene di vita vissuta”, il regista avrebbe condiviso assieme agli attori Paul Dano e Gabriel Labelle vecchie fotografie e filmati privati, lasciandoli generosamente entrare nella sua vita privata, come ha ricordato Dano, cercando di creare una sorta di immedesimazione collettiva. “Questo film – ha affermato Spielberg – è stata l’opportunità per riportare con me mia madre, mio padre e le mie sorelle, Annie, Sue e Nancy, riavvicinandole a me più di quanto pensassi”.