Il mio Venticinque Aprile

di Fiorella Nahum

Le origini
Sono nata a Tripoli di Libia, da una famiglia ebrea di padre e di madre, in pieno ventennio fascista, al quale mia madre sacrificò la fede nuziale contro le sanzioni, e mio padre dedicò la maggior parte della sua vita di lavoro presso il Ministero dell’Africa Italiana. Fino al 1938, quando venne messo a riposo per le leggi razziali.
Strana famiglia la nostra, piccolo borghese nel senso comune del termine, ma assai più insolita e complessa per le manifestazioni del vivere quotidiano che spaziavano ben oltre Tripoli , contribuendo ad allargare i nostri orizzonti e a rafforzare il nostro senso di resilienza ai drammatici eventi successivi. Mio padre, ultimo di 9 fratelli tutti maschi (tranne una zia Ester morta di polmonite a 20 anni), rimase scapolo fino a 36 anni, mancato genero di alcune famiglie ebraiche benpensanti di allora. Frequentò le scuole dell’allora impero Ottomano fino all’età di 15 anni, quando iniziò a lavorare e cercò poi di godersi la vita fra Tripoli e l’Italia, di cui chiese con orgoglio la cittadinanza fin dal 1925, il primo di tutta la sua famiglia. Fino al fatidico incontro a Venezia, con mia madre veneziana 21enne di buona famiglia, al Ponte delle Pignatte. Credo che scoppiasse allora il colpo di fulmine che portò alle nozze dei miei genitori l’anno dopo, e al formarsi di tutta la nostra famiglia.
Fu un evento denso di conseguenze, perché i genitori veneziani di mia madre, con la figlia minore, abbandonarono Venezia un anno dopo per seguire la figlia maggiore in Africa, dove cominciarono una nuova vita. Mio nonno era orefice, commerciava in pietre preziose viaggiando armato tra Venezia, Francoforte e Amburgo, amava la Germania e parlava tedesco. A Tripoli aprì un negozio di vetri di Murano (!) a Suk el Muscir, il quartiere arabo della città, in mezzo ai mercanti di pellami e ai bazar di souvenir locali.
Storia insolita anche per le abitudini che si radicarono in noi con naturalezza: a casa nostra si parlavano sia il veneziano sia l’arabo ( il dialetto tripolino, lingua originaria di mio padre, che lui parlava con tutta la sua famiglia) mentre a noi bambini era proibito parlare sia il dialetto veneziano che quello tripolino, ma dovevamo sempre esprimerci in un perfetto e rigoroso italiano, senza accenti.
Insolita perché, col caldo e il ghibli che soffiava spesso dal deserto, si mangiavano quasi quotidianamente le tagliatelle fatte in casa da mia nonna, “risi e bisi” e fegato alla veneziana con la polenta, tranne qualche rara volta il venerdì sera quando qualche zio paterno ci mandava a casa il cuscus alla tripolina, cucinato da una zia con due giorni di lavoro, per celebrare simbolicamente lo Shabbat con loro.
Così passarono gli anni, io ero la maggiore di 3: una sorella e un “fratellino” di cinque anni più giovane di me che nacque in casa, come tutti noi. Si prese la poliomielite, da cui guarì rimanendo lievemente claudicante, e fu molto amato da mio padre e da mia madre perché era il “maschio” tanto atteso. Oggi vive a Roma, come mia sorella, entrambi sposati e nonni da tempo.

La guerra
Quando sopraggiunse la guerra, la subimmo come tutti, svegliandoci la notte con il suono della sirena per gli allarmi aerei, e scendendo a piedi le scale con le vetrate oscurate di blu (l’ascensore era proibito), fino al rifugio sotterraneo dove noi bimbi crollavamo dal sonno in pigiama, fino a quando un’altra sirena ci avvertiva che era tutto finito e potevamo rientrare in casa a dormire. A piedi, a fatica, fino al 3° piano.
A 6 anni, non ancora compiuti, avrei dovuto andare a scuola, ma la mia istruzione si ridusse a lezioni private con la Maestra Calò, assieme alla mia amica di una vita, Gaby, perché le leggi razziali ci impedivano l’accesso alle scuole pubbliche: la mia prima classe regolare fu la seconda media, dopo che, passati più esami di recupero e di ammissione frequentai il Marco Foscarini di Venezia tra il 1945 e il 1946, iniziando così, finalmente e miracolosamente, una carriera scolastica regolare alle scuole pubbliche, che proseguì poi a Tripoli, a Padova e negli Stati Uniti.
Ero riuscita a non perdere gli anni, grazie a mia madre, mia nonna, la maestra Zuin di Barbariga (frazione di Strà, Pd.), giusta fra i giusti, e soprattutto al mio secondo cugino Ferruccio, poi docente universitario. A tutti devo tantissimo ancora oggi.
Ma il cambiamento più drammatico nelle nostre vite avvenne a gennaio 1942 quando , per una decisione tanto dolorosa quanto imprevidente, per salvarci dai bombardamenti aerei e navali ininterrotti, che ci avevano obbligati a vivere per quasi due anni nel fortino abbandonato dagli italiani durate la guerra del 1911 a Sghedeida, ai bordi del deserto, mio padre e mia madre decisero di mandare donne e bambini a Venezia, città che nessuno avrebbe mai bombardato.
“Sarà solo per poco – dicevano – la guerra non durerà a lungo, e fra meno di un anno ci rivedremo, la Germania non potrà tirare ancora a lungo” . Mai previsione fu più disattesa. Ci separammo da mio padre che , rimasto a Tripoli, venne liberato dagli inglesi esattamente un anno dopo. E noi rimanemmo al di qua delle linee, sempre più in pericolo, per quattro anni che durarono un’eternità. E ci salvammo per miracolo dalla deportazione. Ma questa è un’altra storia, che ha un posto a parte.
So solo che passarono gli anni all’insegna di una perenne paura, precarietà e insicurezza che hanno segnato per sempre la mia vita. Oggi i miei nonni, i miei genitori, la mia generazione, sono quasi tutti scomparsi. Per ironia della sorte, i miei nonni materni, nati e cresciuti in Laguna, non hanno nemmeno una tomba: sono stati sepolti a Tripoli al cimitero ebraico, vicino al mare: quando è arrivato Gheddafi ha passato le ruspe su tutte le tombe, e lì dov’erano i morti, ha aperto un’autostrada.

Il mio 25 aprile 1945
Il 25 aprile 1945 avevo 11 anni, e fin dall’alba mi trovavo rannicchiata con la mamma, la nonna e i miei fratelli più piccoli, Sandra e Enzo, all’interno di una casupola diroccata e nascosta fra i boschi, a Barbariga, frazione di Strà nella campagna veneta fra Padova e Venezia. Con noi c’erano Stella e la sua famiglia (la Nora e Sandro) che ci avevano tenuti nascosti e salvati dai tedeschi e dai fascisti fin dal gennaio 1944.
Un sistematico cannoneggiamento lungo la linea del Brenta era cominciato da mesi, ma da alcuni giorni si era andato intensificando, e aveva raggiunto un ritmo parossistico nella notte. Eravamo terrorizzati e non sapevamo come si sarebbe concluso. Nel frattempo soldati tedeschi randagi qua e là attorno a noi razziavano dalle case dei contadini, sparse nei boschi , viveri, indumenti e soprattutto cavalli, anche cavalli da soma, abituati a tirare l’aratro o i carretti, per scappare più velocemente verso il Brennero e tornare a casa.

Il cielo era nuvoloso, cadeva qualche goccia di pioggia ed eravamo soli. Verso le 11.00 della mattinata all’improvviso tutto tacque: ogni rumore, cannoneggiamento, rumore di frasche calpestate, volo di uccelli: mi sentivo immersa in un mistero , quando Stella, unico uomo adulto con noi, ci disse con nostro grande sgomento: “E’ meglio che vada a vedere cosa succede. Vi lascio soli per poco e sarò molto prudente, fatevi coraggio e non abbiate paura. Torno presto”.
Cominciò un’altra attesa sospesa e piena d’ansia. Fu interrotta dopo circa mezz’ora da uno Stella urlante e trafelato che correva a perdifiato per tornare verso di noi ripetendo senza stancarsi con voce altissima e sempre più rauca” L’OTTAVA ARMATA E’ A STRA’, L’OTTAVA ARMATA E’ A STRA’, L’OTTAVA ARMATA E’ A STRA’”
Mia madre, mia nonna e tutti noi scoppiammo in un pianto dirotto, e passammo poi tutto il pomeriggio sullo stradone, assieme a tutta la popolazione e non più separati, a veder passare i carri armati di tutto il Commonwealth, gettando fiori, ricevendo cioccolata, e respirando la libertà.
È un film che non potrò mai dimenticare.
Questo fu il mio primo Venticinque Aprile, e dopo 77 anni oggi piango ancora riguardando quel film.

Venticinque aprile 2022
Perché, dopo quello che è successo allora, vi è stato un progressivo sbiadimento e travisamento dei valori e dei significati originari? La libertà individuale e nazionale, una riconquistata dignità umana e sociale, l’uguaglianza dei diritti per tutti i cittadini il rispetto dell’altro da te, la solidarietà per chi soffre, l’accettazione di diritti e doveri per ricostruire un Paese che fosse la casa di tutti, con le finestre aperte per imparare dagli altri e guardare fuori. Oggi è come se, assieme a me, il Paese fosse invecchiato e avesse perso la Memoria. Peggio, è come se al posto di quelle emozioni, quelle paure, quegli slanci, oggi ci fosse un corpaccio bloccato e irrigidito da nuove malattie che non sono certo meno gravi di quelle di allora. Il nuovo non è riuscito a eliminare i rigurgiti persistenti di alcuni, finora marginali, ma molto preoccupanti.

Sono convinta che il significato del 25 aprile non sia quello di ravvivare un’antitesi politica tra fascisti e comunisti: la storia non si ripete mai. Il nazifascismo è morto. Ma sempre più, nel corso degli anni, si è creata nella gente una grande confusione mentale tra categorie concettuali profondamente distanti e diverse e, soprattutto dopo la pandemia di COVID, tutt’altro che finita, il clima sociale sembra ormai inquinato dai postumi di una permanente apatia e incertezza che oscilla tra il reale e il virtuale: come un Long Covid. Ma anche questa è un’altra storia da esplorare e raccontare. La mia vuole essere solo la testimonianza di un vissuto e di un percorso.

Da quando sono venuta a Milano nel 1970, ogni anno per me e i miei amici , ricordare il 25 Aprile ha significato, anno dopo anno, un appuntamento collettivo con i cittadini milanesi alla fermata della metropolitana di San Babila, per unirci alla sfilata proveniente da Loreto, con le Autorità nazionali e lombarde, ai gonfaloni comunali, ai tristi cartelli neri che riportavano i nomi di tutti i campi di concentramento e di sterminio che hanno devastato l’umanità, a tutte le persone che avevano voluto e saputo imparare dai vissuti delle generazioni precedenti: era un omaggio alla Storia e alla Memoria affinchè ciò che è successo non si ripeta mai più.

Poi, dagli anni ’90, cominciarono le provocazioni.
Perché e da chi? ci si può chiedere. Non certo da parte delle vittime e dei morti, ma a causa della profonda ignoranza di quanti non avevano mai voluto sapere. E si bruciarono le bandiere statunitensi e israeliane; si insultò la Brigata Ebraica, morta e sepolta in un cimitero in Romagna, per liberare gli italiani dalle sofferenze e dalla guerra; si offesero, quasi al limite dell’aggressione fisica, i partecipanti al corteo; si bestemmiò contro il “comunismo”…
Vi fu chi, allora a capo del governo, non partecipò mai alla ricorrenza del 25 aprile, per motivi “ideologici”, e questo, oltre alle nuove prospettive globalizzate del Paese e del mondo, al clima cambiato, contribuì fortemente ad attribuirle il significato di festa “di una sola parte” inquinandone e distorcendone in modo definitivo il significato nei confronti di crescenti segmenti della popolazione.
Non so cosa succederà in futuro, ma, per quanto mi resta, ho giurato a me stessa che dopo quest’anno, non andrò mai più alla Ricorrenza del 25 Aprile, anche se è stato uno dei momenti di svolta più determinanti e significativi della mia vita.
Fiorella Nahum
Milano 26 agosto 2022