“La memoria ritrovata”. 1943: gli undici ebrei di Valmadrera

di Paola Fargion

È una calda domenica di maggio e ci stiamo dirigendo verso Tizzano sui colli bolognesi, nell’Azienda Agricola della famiglia Visconti di Modrone. Il luogo è magnifico, la vista impareggiabile e Villa Marescalchi, con i suoi filari ordinati a perdita d’occhio ed il parco curato nei dettagli sembra sospesa nel tempo.

 

Giuseppe Dell’Oro

Sono molte le persone che arriveranno oggi: da Milano, da Roma, da Lecco… Io e mio marito Meir Polacco dal lago di Como. L’obiettivo è importante ed ha a che fare con la Shoah. Già… Oggi è il giorno in cui si riallacceranno i fili di una Memoria perduta nel tempo e si incontreranno – per la prima volta – i discendenti di una vicenda di salvezza inedita, non divulgata e non condivisa fino ad oggi, in cui si intrecciano i destini di tre famiglie ebraiche in fuga da Milano – Besso, Levi e Moise – e di due famiglie che li hanno aiutati e nascosti – Visconti di Modrone di Milano e Dell’Oro di Valmadrera, allora in provincia di Como, ora di Lecco.

 

Ma partiamo dall’inizio, da quando cioè, nel paesino dove risiedo con mio marito veniamo contattati da un conoscente che ci racconta di un fatto accaduto durante la guerra e che ha a che fare con la famiglia del suo avvocato. Era il 2021. “Posso mettervi in contatto con lui?” ci domanda. “Vorrebbe il vostro aiuto per rintracciare gli undici ebrei nascosti a casa loro durante la Shoah”. Prendiamo la cosa molto sul serio ed io, con il piglio da investigatrice, inizio le ricerche partendo dall’unica traccia di cui dispongo: l’articolo pubblicato su La Provincia di Lecco oltre vent’anni prima, che riporta un racconto dettagliato, con nomi e particolari che può conoscere solo chi della vicenda è stato protagonista. E così inizio a leggere: “La signora Maria Grazia racconta… Undici ebrei residenti a Milano furono nascosti per un mese in una casa di Valmadrera in Via Fontana 11, confinante con la villa del Senatore Lodovico Gavazzi, dove si era insediato un reparto della Gendarmeria tedesca al comando del Colonnello Günther Hackenberg… C’era il dottor Besso, noto medico oculista con la consorte e…”

 

Moise Besso e Fanny Levi

Interrompo la lettura e mi assale l’emozione. Capisco che si tratta di una cosa assolutamente vera e prometto ai membri della famiglia Dell’Oro di occuparmene. Prima di tutto cerco proprio la famiglia Besso, nome assai noto a Milano, e trovo il telefono di Raffaele che mi conferma tutto: sì, il dottor Moise Besso, l’oculista con la moglie Fanny Levi di cui si racconta nell’articolo è proprio il suo prozio, ma aggiunge che della vicenda non ne sa nulla. Poi rivolgo l’attenzione ai quattro componenti della famiglia Moise di cui l’articolo però non riporta i nomi. Ricerca apparentemente impossibile… Ma la fortuna, il destino o chissà… il Cielo mi aiutano e alla fine arrivo a Valentina, figlia di Alfredo Moise, che mi mette in contatto con i cugini Guido e Sandro Carasso, figli di Yolanda Moise. E scopro finalmente i nomi dei quattro componenti della famiglia Moise nascosti in casa Dell’Oro.

L’articolo continua: “… C’erano anche Isacco Levi con la consorte Rosa, il figlio ingegner Giuseppe con la moglie Sofia e il piccolo Riccardo”. La faccenda si fa complessa: dove vado a cercare i Levi? Non demordo anche se mi sembra di cercare un ago nel pagliaio. Ed ecco che un contatto casuale si rivela quello giusto ed approdo al Keren Kayemet LeIsrael di Milano. È proprio Marisa Hazan a confermare: “Certo, Riccardo Levi è nostro delegato…” “Ma quanti anni ha?” domando incredula, sapendo che il Riccardo che cerco è del 1942. “Circa ottanta, se non sbaglio!” mi risponde, “ti do il suo numero di telefono.” Lo chiamo, mi risponde e conferma. Eccolo… È proprio lui il piccolo Riccardo in fuga per la salvezza, quel “Gesù Bambino” chiamato così dalle Suore del Convento di Asso perché piccino, biondo e riccioluto.

 

Sono proprio loro i Levi che cercavo, quelli che trovarono rifugio a Valmadrera presso i Dell’Oro e ad Asso presso le Suore di Maria Bambina con cui mantennero rapporti di affettuosa amicizia anche nel dopoguerra. Diana Hasbani, sorella di Riccardo, mi racconta che per Natale le Suore erano solite inviare loro qualche dono: centrini ricamati, tovaglie e tovaglioli, regali preziosi che la famiglia Levi conserva tuttora gelosamente. Vengo a sapere che anche con i Dell’Oro sono continuati i contatti nel tempo da parte dei Levi, in un rapporto di eterna gratitudine.

 

Giuseppe Levi

Avevo finalmente trovato le tre famiglie, ma andavano messi in ordine i nomi che la signora Maria Grazia aveva in parte confuso comprensibilmente dopo così tanti anni. Chi erano dunque quegli undici ebrei? Anzitutto Moise Besso, il prozio oculista di Raffaele (1884) con la moglie Fanny Levi Besso (1905); poi la famiglia Moise composta da Sam (1878), Efthimia (1892), Alfredo (1917) e Yolanda (1919); infine la famiglia Levi composta da Giuseppe (1868) e la moglie Rosa Jessula Levi (1880), Isacco (1907) con la moglie Serafina detta Sefy Vital Levi (1914) e il loro bambino Giuseppe Riccardo (22/7/1942).

 

E così – una volta trovati i protagonisti – posso iniziare a ricostruire una vicenda frammentata, con alcuni ricordi perduti nel tempo ed altri raccontati a metà. Emerge poi un’altra traccia importante: un tema sgrammaticato scritto nel 2000 da Filippo, figlio di Diana, che riporta i ricordi di nonna Sefy. Leggendo quel tema mi rendo subito conto che manca all’appello un protagonista determinante dell’intera vicenda, non citato nell’articolo di vent’anni prima: il Conte Raimondo Visconti di Modrone. “Hai mantenuto i contatti con la famiglia Visconti di Modrone?” domando un giorno a Riccardo Levi. “No, non li ho più sentiti” risponde raccontandomi del rapporto tra le due famiglie. Nel 1937 nonno Giuseppe Levi, suo padre Isacco con gli zii Moise e Raffaele avevano costituito una società, la S.A.I.T.A. Penelope (Società Anonima Industrie Tessili ed Affini). A seguito delle Leggi Razziali la società era stata ceduta fiduciariamente al Conte Raimondo Visconti di Modrone, socio e soprattutto amico di Isacco Levi, insieme ai tre negozi di telerie della famiglia Levi. La ditta era una tessitura di cotone con trecento telai e sede a Trecate in provincia di Novara.

 

Valmadrera negli anni ’50

A settembre 1943 il Conte Visconti di Modrone aveva consigliato ai Levi di lasciare Milano per cercare riparo in Svizzera, facilitandone la fuga mediante i Dell’Oro di Valmadrera. Chi erano i Dell’Oro e che rapporti avevano con i Visconti di Modrone? Durante le persecuzioni antiebraiche in casa Dell’Oro abitavano cinque dei sette figli di Natale e Giuditta, in particolare i tre fratelli Natale, Ambrogio e Giuseppe, generosi galantuomini dediti al commercio di bestiame, la cui parola e stretta di mano valeva più di qualunque contratto firmato. E poi le sorelle Brigida e Assunta. I tre fratelli avevano compiti differenti: Giuseppe era addetto alle stalle della proprietà a Valmadrera, nonché alla fienagione e alla transumanza del bestiame. Natale, il fratello maggiore, era di base a Maggio in Valsassina. Molto abile nel valutare i capi di bestiame, percorreva gli alpeggi a cavallo sconfinando nella vicina Valtellina. Mucche e vitelli avevano tutti un nome, spesso quello di attori e attrici famosi. Era un uomo severo che metteva soggezione, non sopportava l’ozio e rimproverava anche solo con uno sguardo. Ambrogio era invece elegante e di bell’aspetto, ciarliero e per questo la persona che si occupava dei mercati e delle fiere di Milano. Dalla voce imperiosa, nelle trattative il suo motto era:”Cè che vusa pù see, la vaca l’è sua!” cioè… “Chi grida di più la mucca è sua!” Era quasi impossibile non notarlo nei mercati di Milano.

 

Giuseppe Dell’Oro e Briosca

Ai discendenti Dell’Oro non è rimasta chiara memoria di come avvennero i contatti con la famiglia Visconti di Modrone ma una cosa è certa: le due famiglie si conoscevano ed avevano rapporti d’affari. Sui Dell’Oro il Conte Raimondo avrebbe potuto contare anche perché – in un tempo di miseria e razionamenti – in casa loro c’erano provviste a sufficienza per sfamare altre undici persone: latte, formaggi, uova, carne… Per gli standard dell’epoca i Dell’Oro erano una famiglia benestante, rispettata e sempre pronta ad aiutare chi bussasse alla sua porta. Proprio come gli undici ebrei fuggiaschi…

 

Quando i tedeschi si insediarono di fronte a casa Dell’Oro requisirono anche una loro stalla e portarono i cavalli a pascolare nell’ampio giardino della famiglia. Lo stalliere era un ucraino, preso prigioniero dai nazisti e costretto a collaborare con loro, un uomo alto e dalle guance rosse che vedeva tutto e niente, per fortuna, dall’alto della torretta di Villa Gavazzi proprio di fronte ai Dell’Oro.

 

Fu deciso che gli undici ebrei arrivassero a piccoli gruppi nella stazione “La Piccola” di Lecco, dove Ambrogio Dell’Oro li attendeva col biroccio. Fingevano di essere interessati all’acquisto di bestiame ed il ritrovo era presso i vagoni merci fermi in un’area della stazione. Nelle stalle dei Dell’Oro viveva Briosca, lo splendido cavallo di cui andava fiera la famiglia che, con un’elegante carrozza, era condotta orgogliosamente al trotto per le vie di Lecco. Giuseppe Dell’Oro era solito dire: “La mia Briosca sa di essere un bel cavallo!” quando la vedeva girare la testa a destra e a sinistra, ondeggiando la criniera per farsi ammirare dai passanti meravigliati. La famiglia Dell’Oro correva un grande rischio nel nascondere quegli undici ebrei e così, per evitare di dare troppo nell’occhio, preferì trasferirli in alcune delle loro stanze meno in vista spostandosi a vivere nelle stalle. La famiglia ricorda che per il ristoro tutti si ritrovavano nella sala grande e Assunta, detta zia Vivì, era l’addetta alla cucina. I piatti erano abbondanti grazie ai collegamenti con il mondo agricolo e alle risorse dei Dell’Oro. Si era creato un sodalizio tra gli undici fuggiaschi e la famiglia, stretto quanto quello che univa i Levi a Raimondo Visconti di Modrone, un rapporto commerciale fondato su stima e rispetto, amicizia e correttezza che, nel momento più drammatico per la sopravvivenza dei suoi amici ebrei, si era tramutato in aiuto concreto.

 

Nonna Rosa Jessula Levi

Raimondo Visconti di Modrone non aveva esitato a cercare una via di fuga per gli amici in pericolo, legando così il suo destino di Salvatore a quello della coraggiosa famiglia di Valmadrera. Così come non esitò a restituire quanto si era intestato fiduciariamente una volta rientrati i Levi dalla Svizzera, continuando poi a lavorare in collaborazione con Isacco Levi per tanti anni ancora. Quest’ultimo condivise il suo piano di fuga, avvenuto sotto la protezione di Raimondo Visconti di Modrone, con i cugini Besso e Moise, in modo da tentare poi l’espatrio verso la Svizzera. I ricordi di Sefy Levi affidati al nipotino Filippo parlano del “…signore di Valmadrera che in auto la accompagnò ad Asso dalle suore per ritirare un busto confezionato da loro in cui erano state nascoste alcune monete d’oro. Il busto pesava e Sefy era costretta a tenerlo addosso tutto il giorno…” Da Asso, sempre con il signore di Valmadrera, Sefy ed il figlio Riccardo furono trasferiti in casa di uno scultore che si trovava vicino al confine svizzero, dove trascorsero la notte. La mattina seguente, dopo la ronda dei tedeschi, Sefy e Riccardo seguirono la moglie dello scultore fino ad un passaggio sicuro costituito da un buco nella rete di confine. A un certo punto la donna disse a Sefy di passarle Riccardo: per evitare che il piccolo piangesse e che le guardie di confine lo sentissero ella gli premette la mano sulla bocca. Sefy fu presa dal terrore che lo soffocasse, ma tutto andò bene e riuscirono a passare in Svizzera. Il piccolo Riccardo non aveva neanche due anni. Il giorno dopo sopraggiunsero Giuseppe e Rosa Levi.

 

Fu un giorno fortunato perché le guardie svizzere aprirono l’accesso di confine impietosite davanti a loro. Sefy li stava attendendo davanti al cancello, tremante e preoccupata perché non li vedeva arrivare. Per i due sarebbe stato molto difficile arrivare in Svizzera attraverso l’angusto passaggio da cui erano passati loro il giorno prima… Sia lo scultore che il signore di Valmadrera – uno dei fratelli Dell’Oro – non accettarono alcuna ricompensa perché entrambi odiavano i tedeschi. Purtroppo nessuno è riuscito sinora a ritrovare la casa e la famiglia di questo coraggioso scultore che salvò la vita a tanti altri ebrei in fuga verso la Svizzera.

 

I Dell’Oro ricordano che gli undici ebrei – o forse una parte – furono trasferiti da Valmadrera fino al confine su ambulanze, bendati come se fossero feriti o degenti dell’ospedale psichiatrico di Como, con la collaborazione di altre persone che si prodigarono per salvarli a rischio della loro stessa vita: Don Arturo Pozzi, parroco di Valmadrera, Don Antonio Redaelli, suo collaboratore e il dottor Binda, organizzatore dei trasferimenti che avvenivano in piena notte. Tutti o quasi i protagonisti di questa incredibile pagina di storia non ci sono più.

 

Ci sono però figli, nipoti e pronipoti dei salvati e dei salvatori. Di quei giorni l’unico testimone vivente è Riccardo Levi, il piccolo bambino trafugato in Svizzera come un pacchetto, oggi l’uomo che insieme agli altri discendenti ha voluto rendere omaggio al coraggio di chi ha permesso ad undici ebrei di sopravvivere. Riccardo era seduto al tavolo con Luca, uno dei figli del Conte Raimondo, amico e socio del suo papà. Hanno trascorso ore a raccontare, a ricordare, a guardarsi negli occhi. E con loro e tutti noi gli altri figli di Raimondo: Matilde, discreta ed elegante; Leonardo, l’Ambasciatore, e sua moglie Anna; infine Raimondo, figlio del primogenito Guido, purtroppo scomparso anni fa, diventato nostro caro amico in questi mesi di condivisione ed attesa per questo magico incontro.

 

Si respirava emozione e commozione nel viale agghindato a festa, tra i tavoli arricchiti dai vini pregiati prodotti in azienda, mentre tutti degustavano squisite lasagne agli asparagi e deliziose fragole con gelato. Luca Visconti ha raccontato che a due giorni dalla Liberazione gli alleati bombardarono la proprietà danneggiando inesorabilmente la villa e il parco. Eppure non ci credevo, non mi sembrava vero che quegli alberi avessero poco più di settant’anni: giganti maestosi ed imponenti che ci facevano ombra quasi a voler proteggere e custodire la sacralità di quell’incontro.

 

Sono diciotto gli ulivi del Keren Kayemet LeIsrael piantati in Israele in segno di riconoscenza a favore dei Salvatori. Diciotto… numero non casuale, numero che indica la Vita. Gli invitati mi chiedono una breve sintesi degli eventi, di come io sia riuscita a ricomporre pezzi di memoria e riunire cinque famiglie. Mi siedo con tutti intorno e racconto. Poi verso le sedici ci accomiatiamo a piccoli gruppi per fare ritorno alle nostre case: Alessandro Dell’Oro e famiglia, i Carasso, Valentina Moise e famiglia, Raffaele e Laura Besso, Diana e Dodi Hasbani, Riccardo Levi, alcuni nipoti Visconti di Modrone. Io e mio marito restiamo ancora un poco… Vorremmo che quel momento non terminasse. E poi ci salutiamo pronti a partire: una stretta di mano a Ferdinando, primogenito di Luca Visconti e a sua moglie, con la promessa di rivedersi presto e con ringraziamenti reciproci.

 

Ed è allora che succede qualcosa di inaspettato. Sento una vocina che richiama la mia attenzione. Abbasso gli occhi e vedo Giuseppe, il loro ultimogenito di neanche quattro anni, il più piccolo di tutti i presenti, con la manina allungata verso di me in un saluto e un grande sorriso. Ci guardiamo, mi chino verso di lui e il piccolo Giuseppe mi dice: “Grazie signora… Sai, è stato un bellissimo racconto!” Resto senza parole, gli stringo la mano e gli rispondo: “Grazie a te, tesoro. Sai, il racconto continua… e tu sarai invitato anche la prossima volta!” Lasciamo Tizzano con il cuore leggero e la certezza che la Memoria continuerà a camminare…

 

 

Foto in alto: Isacco, G. Riccardo e Sefy Levi