di Nathan Greppi
Il disagio psichico: un tema difficile da affrontare. C’è la paura di essere derisi perché ritenuti deboli o “difettosi”; oppure quella di essere compatiti, che può essere vissuto come un’umiliazione. Ma come si affronta la malattia psicologica e psichiatrica in ambito ebraico? Un viaggio tra Israele, dove si curano anche i traumi dovuti alla guerra e il disturbo post-traumatico, e Stati Uniti.
La prima volta che il figlio di 21 anni Jonathan ha cercato di togliersi la vita, fu anche il giorno in cui Ruth Tepler Roth, ebrea del New Jersey che ha lavorato nel marketing, capì che suo figlio soffriva di un grave problema psichico. Inizialmente decisero su richiesta di lui di tenere nascosto l’accaduto ma, così facendo, egli rimase da solo a combattere il suo male interiore. Cinque mesi dopo, Jonathan tentò nuovamente il suicidio, ma questa volta la madre lo trovò quand’era ormai troppo tardi per salvarlo. Dopo questo evento traumatico, avvenuto nel 2012, la Roth ha deciso di non tenere più nascosta la verità sul figlio. Da allora, si è impegnata pubblicamente per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle malattie mentali, soprattutto attraverso articoli apparsi su diverse testate e blog.
Questa storia serve a ricordare come i disturbi psichici siano ancora oggi un tema difficile da affrontare. Molte persone fanno fatica a parlarne apertamente, per paura dei giudizi altrui; la paura di essere derisi perché ritenuti deboli o “difettosi”; oppure, al contrario, la paura di essere eccessivamente compatiti, il che può essere vissuto come un’umiliazione. Così facendo, però, a forza di tenersi tutto dentro può diventare un peso troppo grande da sopportare, con il rischio di arrivare a compiere gesti irreparabili. A questo punto, vale la pena di chiedersi che cosa dice la tradizione ebraica sull’argomento, e che ruolo possono avere le comunità ebraiche nell’affrontare il problema quando si manifesta tra i loro membri.
Non sono molti nel Tanakh i riferimenti alle malattie mentali, quantomeno per come vengono intese oggi. Spesso, la pazzia veniva indicata come una forma di punizione; nel libro di Devarim, il termine shigaon, dal quale deriva il più noto meshuggah, indica coloro che non hanno prestato ascolto alla parola di Dio.
In vari passaggi del Talmud, diversi rabbini affrontano la questione chiedendosi se chi è mentalmente stabile è esentato o meno dall’osservare i precetti. Per molti di loro, il shoteh (“vagabondo”), come veniva chiamato chi era ritenuto incapace di intendere e di volere, è esentato da molti obblighi religiosi, e non può sposarsi né testimoniare in un processo. Secondo Rael Strous, docente di Psichiatria all’Università di Tel Aviv e direttore del reparto psichiatrico del Centro Medico Mayanei Hayeshua di Bnei Brak, la definizione di shoteh presente nei testi biblici si riferisce essenzialmente a persone psicotiche.
Studi e ricerche
La maggior parte degli studi pubblicati sul tema in ambito ebraico riguarda prevalentemente i due paesi con la maggiore popolazione ebraica, ossia Israele e gli Stati Uniti. Secondo il sito My Jewish Learning, tra la popolazione ebraica statunitense l’incidenza di certi disturbi, quali il disturbo bipolare, quello ossessivo-compulsivo e l’agorafobia, non differisce dalla media generale della popolazione americana. In questi dati, vengono indicate come malattie mentali anche le dipendenze patologiche.
Stando ai dati pubblicati nel 2018 dal NAMI (National Alliance on Mental Illness), su circa 7,2 milioni di ebrei americani, poco più di un milione soffriva di una qualche malattia mentale. Inoltre, 330.000 erano dipendenti dall’alcol e 440.000 da sostanze stupefacenti; una dipendenza, quest’ultima, tale per cui in un anno erano morti di overdose 1.545 ebrei americani (più di 4 al giorno). E per finire, 220.000 ebrei erano affetti da una dipendenza patologica dal gioco d’azzardo.
Nel novembre 2013, la rivista scientifica Nature Communications riportava i risultati di una ricerca condotta da ricercatori americani e israeliani, secondo la quale negli ashkenaziti sarebbe presente un gene che aumenta del 40% il rischio di sviluppare la schizofrenia. Un’altra rivista peer-review, il Biological Psychiatry, nell’agosto 2015 ha pubblicato i risultati di uno studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale Mount Sinai di New York. Lo studio sosteneva che i traumi di chi ha vissuto esperienze particolarmente terribili, come ad esempio dei sopravvissuti alla Shoah, possono avere delle ricadute tali da modificare i loro geni, al punto che i loro figli ne ereditano gli effetti.
Per quanto riguarda lo stigma verso i malati mentali, uno studio pubblicato nell’aprile 2012 sul Journal of Religion and Health evidenziava come negli USA, perlomeno nella fascia più anziana della popolazione, gli ebrei fossero statisticamente più propensi, in caso di necessità, ad andare in terapia da uno psicologo rispetto ai neri e ai bianchi non ebrei.
In Italia l’unica associazione in parte incentrata anche su questi problemi dal punto di vista ebraico è l’AME (Associazione Medica Ebraica). Mentre nel marzo 2020, quando iniziarono le chiusure e l’isolamento forzato dovuti alla pandemia da coronavirus, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha inaugurato uno sportello telefonico per fornire sostegno psicologico agli iscritti che ne avessero bisogno.
In altri paesi, dove le comunità ebraiche sono più numerose, vi è tutta una galassia di organizzazioni benefiche che si occupano di aiutare chi soffre di disturbi mentali, senza contare i servizi sociali delle singole comunità. Una delle più note è NEFESH International, rete globale che mette insieme terapeuti, psicologi e psichiatri ebrei ortodossi; fondata nel 1992 con sede a New York, conta centinaia di membri sparsi in diversi paesi. Nello stesso ambito rientra Refuat Hanefesh (“La cura dell’anima”), che attraverso incontri educativi e la raccolta di testimonianze cerca di combattere la stigmatizzazione del-le disabilità mentali all’interno delle comunità ebraiche ortodosse.
Nato nel 2012 come gruppo di discussione online, Refa’enu (“Curaci”) ha ottenuto lo status di organizzazione no profit nel 2014 con sede a Teaneck, nel New Jersey. Si occupa di offrire sostegno alle famiglie ebraiche dove sono presenti persone affette da disturbi mentali, e organizza incontri educativi nelle scuole ebraiche per creare sensibilizzazione su queste tematiche. Tra i fondatori dell’organizzazione vi è anche la già citata Ruth Roth, che fa parte del loro direttivo.
Più incentrato sul pubblico femminile è Chazkeinu (“Dacci la forza”), che permette alle donne ebree di parlare con qualcuno del loro disturbo mentale o di quello di un loro familiare. Con sede a Pikesville, nel Maryland, è strutturata in modo tale da creare gruppi online in cui discuterne e avere qualcuno con cui confrontarsi, anche proteggendone l’anonimato.
Un’altra organizzazione che cerca di affrontare il tema nelle comunità ebraiche americane è la Blue Dove Foundation, con sede ad Atlanta, che organizza varie attività: eventi, dibattiti, programmi educativi. Rimanendo negli Stati Uniti, altri enti ebraici con ruoli simili sono: BaMidbar (“Nel deserto”), che svolge attività educative rivolte soprattutto ai giovani adulti; BeWell, iniziativa per la salute mentale creata dalla Federazione Ebraica del Nord America; JProactive; MASK (Mothers and Fathers Aligned Saving Kids); OKclarity, piattaforma online che riunisce terapeuti ebrei e li rende reperibili per chi ne ha bisogno.
Ci sono anche quelle specializzate nell’affrontare problemi più specifici: come CCSA (Communities Confronting Substance Abuse), che combatte la tossicodipendenza tra gli ebrei; STF (Shalom Task Force), dedita ad affrontare e prevenire la violenza domestica nelle famiglie ebraiche; e ZA’AKAH, che combatte la pedofilia nel mondo ebraico ortodosso. Non a caso Asher Lovy, dal 2016 direttore di ZA’AKAH, è stato lui stesso vittima di abusi da bambino, e dal 2012 è un’attivista contro la pedofilia.
Non è solo negli USA che sono presenti organizzazioni no profit di questo tipo: tra quelle israeliane spicca ad esempio Natal, fondata nel 1998 a Tel Aviv, primo centro in Israele ad occuparsi di chi ha riportato traumi dovuti alla guerra, come i veterani affetti da PTSD (disturbo post-traumatico). Mentre Get Help Israel aiuta soprattutto i nuovi immigrati ebrei che soffrono di disturbi mentali, e che non parlano ancora abbastanza bene l’ebraico.
Anche in altri paesi anglofoni sono presenti enti simili: come JAMI, che fornisce servizi di sostegno psicologico nelle comunità ebraiche del Regno Unito. Discorso simile vale anche per il Canada, dove una delle associazioni più attive è il JCFS (Jewish Child and Family Service) a Winnipeg, che offre servizi analoghi alle famiglie ebraiche nella provincia canadese del Manitoba, della quale Winnipeg è il capoluogo.
Per concludere, vi sono diverse iniziative nel mondo ebraico per sensibilizzare l’opinione pubblica su come affrontare i disturbi mentali. Ma la strada da fare è ancora lunga, poiché finché le persone affette da disturbi mentali non avranno il coraggio di affrontare apertamente il problema, altre madri piangeranno i loro figli. Come è successo a Ruth Roth per suo figlio Jonathan.
Immagini: Ruth Roth e il figlio Jonathan; Rael Strous.