La condizione pandemica: siamo confinati e immobili, ma intorno tutto cambia. Lavoro, ruoli sociali. Come ne usciremo?

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Viviamo tempi d’incertezza poiché il registro che connota la nostra contemporaneità è il mutamento continuo. In una condizione paradossale, poiché siamo inchiodati ad una sorta di involontario immobilismo, quello impostoci dalla pandemia, nel mentre il mondo sembra invece scorrere liberamente sotto i nostri piedi.

Alle trasformazioni, più o meno prevedibili, si sta ora infatti sommando una loro radicalizzazione e una velocizzazione che non hanno eguali rispetto al nostro recente passato. Si radicalizza ciò che cambia in maniera sempre più netta; si velocizza quanto si realizza in tempi sempre più brevi. Un processo del quale non cogliamo ancora bene i lineamenti ma che percepiamo nel suo essere in corso e, quindi, nella sua capacità di influenzarci, direttamente o indirettamente. Pertanto, nel suo riflettersi immediatamente sulle nostre esistenze.

Un solo esempio tra i tanti possibili: chi avrebbe pensato, anche solo all’inizio di quest’anno, che l’emergenza sanitaria si sarebbe tradotta in una serie di rilevanti limitazioni delle nostre libertà quotidiane, incidendo sulla qualità della vita, dal recarci a scuola al prendere un mezzo di trasporto pubblico, dal potere consumare un caffè in un locale pubblico al poterci spostare per andare a visitare i nostri cari? Si illude chi dovesse pensare che la pandemia che stiamo attraversando (e che ci sta attraversando, colpendo le nostre società non solo dal punto di vista sanitario ma anche sociale e civile) sia un fatto transitorio. Ovvero, se l’auspicio è che la brutta traiettoria del male possa concludersi in tempi ragionevolmente rapidi, è non meno chiaro che quanto si era prima di entrare in questo tunnel non è per nulla detto che venga preservato quando ne dovessimo definitivamente uscire.

Il cambiamento riguarda il mondo che ci circonda così come noi stessi, le nostre persone, le relazioni che intratteniamo con gli altri e che costituiscono una parte fondamentale di ciò che appelliamo con il nome di “identità”. Già abbiamo scritto su queste pagine, anche a più riprese, che l’identità non è mai un monolito astorico, un’essenza che non si confronta con il fluire del tempo. Semmai coniuga il retaggio della tradizione, trasmessa di generazioni in generazione, con l’adattamento a quelle circostanze che l’esistenza, di volta in volta, ci consegna e ci impone. Non si adegua il corpo della tradizione in sé, semmai si trasformano i modi in cui si leggono i testi e si interpreta la sapienza che deriva dalla conoscenza.

Le società nelle quali siamo entrati segnano una vera e propria discontinuità storica con il recente passato. Stiamo transitando da un’economia industriale, all’ombra della quale siamo cresciuti e abbiamo costruito la nostra vita, a un tipo di comunità umana basata sia sull’accentuata digitalizzazione sia sull’economia della conoscenza e dell’informazione.

Se ciò comporta per certuni opportunità e nuovi orizzonti, per molti altri invece segna il declino o comunque la repentina trasformazione del loro ruolo sociale. A partire dall’identità che gli deriva dal lavoro e dal ruolo sociale che ad esso è attribuito. La pandemia, per l’appunto, non fa altro che accelerare questo processo globale, tale poiché coinvolge l’intero pianeta. Anche per questa ragione le circostanze nelle quali ci troviamo a vivere rilanciano il tema della capacità di continuare a distinguere il vero dal falso o, quanto meno, il plausibile dai lucidi deliri.

Le mistificazioni, le manipolazioni ma anche le confusioni non intenzionali subentrano quando quegli individui che vivono in uno stato di profonda incertezza, non trovando risposte al loro disagio, si rifugiano nel bisogno di una qualche pietosa e rassicurante menzogna. I fondamentalismi, ad esempio, rispondono a questa devianza. Spesso collettiva. Ed allora, il ricorso alla tradizione, non come ad un rigido sistema di vincoli mentali bensì nel suo essere un patrimonio aperto, tale poiché disposto ad essere interpretato, è forse un primo, indispensabile antidoto al declino dell’intelligenza collettiva. Nessuna società ipertecnologica altrimenti ci salverà. Non da sola. L’interpretazione della tradizione è coscienza, il resto rischia di essere solo arida scienza. L’una cosa non può esistere senza l’altra, beninteso. Ma per l’appunto, senza un’alleanza il rischio di consegnarci alla subalternità dettataci dalle condizioni date, rischia di sopraffarci.