Il tempo e le parole

Opinioni

di Claudio Vercelli

Da questo tempo usciremo trasformati, ancorché un poco frastornati. La pandemia ci cambia, non solo poiché ci sottrae dallo scenario abituale (quello di un declino conclamato ma, non di meno, attenuato dal suo distribuirsi su un lungo periodo, quello di un’intera generazione) bensì in quanto ci consegna alla radicalizzazione di percorsi che, credevamo, potessero altrimenti essere invece diluiti in un lasso di tempo ben maggiore di quello che – purtroppo – stiamo vivendo. Quanto sta avvenendo non è qualcosa di “inedito” ma un sovrapporsi continuo di timori ad aspettative e incertezze. Dobbiamo ripetercelo: dalla fine degli anni Ottanta questa miscela è divenuta dominante. Poiché costituisce la vera natura di ciò che, in maniera altrimenti confusa, chiamiamo “globalizzazione”. La quale ha spezzato quell’idea di progresso intesa nel senso, letterale, di progressione, di accumulazione di sicurezze nel corso della storia, ossia di prevedibilità crescente. Precipitando invece molti di noi in un tempo dell’incertezza che, ne possiamo stare certi, durerà a lungo, forse accompagnandoci per il resto della nostra stessa esistenza. Nessun pessimismo gratuito, per cortesia. E neanche il canto dolente delle prefiche che vagheggiano «tramonti» (dell’Occidente, della ragione, dei Lumi e di cos’altro). Non si risponde al cambiamento rispolverando la nostalgia per un’idea di ciò che fu, come se il solo evocarla ci concedesse di tornare all’indietro. Quasi che il tempo “perduto” fosse invece quello dell’armonia e della concordanza totali. Basterebbe, a tale riguardo, spostarsi di qualche decina di anni nel passato e noi europei precipiteremmo di nuovo nel baratro del genocidio. Quindi, non cantiamo l’illusorio inganno di ciò che pensiamo di avere perduto. In realtà, non poca umanità sta, al tempo corrente, assai meglio di quanto non le fosse concesso anche solo nel recente passato. Non esclusivamente noi europei, non solo noi italiani. Anche se nutriamo il gusto perverso di pensare altrimenti. Semmai, riconosciamo che è intrinseco all’agire umano il senso del cambiamento. I nostri progenitori non si unirono in gruppi, poi comunità, infine società, per tenere la storia ai nastri di partenza. Così come non esiste nessuna storia dell’umanità che sia solo ed esclusivamente ricerca di una qualche forma di “eguaglianza”. Non c’è bisogno di scomodare il fiore degli studiosi per riconoscere che semmai fu la diseguaglianza (di risorse, cognizioni, competenze, opportunità e cos’altro) a dare corpo a molte delle organizzazioni sociali che, dai tempi trascorsi, per trasformazioni progressive e continui passaggi, hanno poi dato forma e sostanza alle nostre generazioni.

Nell’ebraismo, infatti, non si ragiona di storia, in senso stretto, bensì di «generazioni». Quindi, anche di continua trasmissione, del senso dell’esperienza. Non passiva bensì attiva. Essendone protagonisti. Si tratta di ciò che definiamo con le parole – altrimenti pericolosamente ambigue poiché inerti, ossia prive di senso della vita – che rimandano alla «tradizione» e all’«identità», essendo materia che si innerva proprio nel processo del cambiamento. Non sono, né debbono quindi divenire, cristalli inalterabili bensì materia plasmabile. Ben sapendo che si plasma ciò che è vita, altrimenti destinata a diventare simulacro e poi icona. Queste ultime, due vestali della morte.

Ciò che il tempo della difficoltà, dello spiazzamento, a volte della disillusione deve consegnarci non è il senso della rabbia e dell’impedimento, dell’impotenza e del rancore, bensì della possibilità. No, non si tratta di un facile risarcimento fatto di mere parole. Le parole possono essere vuote, come il fatuo tempo che le attraversa. Oppure possono raccontarci dell’orizzonte che verrà. Nessun messianismo, per cortesia. Nella storia ebraica si è spesso rivelato un’amara illusione. Mentre le parole ben spese, quelle che raccolgono lo sforzo di capire il senso di un’epoca, sono il punto da cui la storia, ogni storia, collettiva così come individuale, deve ripartire. Quando sapremo raccontarci questo tempo strano e altrimenti incomprensibile, allora avremo dato un senso non solo ad esso ma anche agli sforzi di ognuno di noi.