di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Siamo tutti disorientati. Ebrei e non ebrei. Nel nostro costituire comunque comuni parti delle società a “sviluppo avanzato”. Che, come tali, si pensavano, dal 1945 in poi, nel loro essere definitivamente imperiture, quindi immunizzate dal virus bellico. Ossia, destinate a non vivere più la guerra. Sul proprio suolo. Delegandola semmai ad altri. Quindi, al Sud-Est asiatico, ai Balcani, come allo stesso Caucaso, ovvero, ai nostri giorni, al confronto tra Mosca e le sue regioni meridionali (Cecenia e così via). Ed in immediato riflesso, con l’Ucraina orientale. Per la quale fingevamo, dal 1941 in poi, una nostra estraneità. Proprio in quanto “europei”. Tali in quanto appartenenti all’Europa occidentale.Quella che, per l’ebraismo contemporaneo, corrisponde con il perimetro delle emancipazioni giuridiche. Dal XIX a seguire. Pensavamo infatti che una tale condizione fosse destinata, nel corso del tempo, a espandersi e trionfare. Così, invece, non è stato. A conti fatti, si trattava infatti di un’illusione. Ad oggi, abbiamo scoperto che non potrebbe non essere per i tempi a venire. Attraverso la ferita aperta di Kyiv e di quel che da ciò ne conseguirebbe: con la Polonia, gli Stati baltici e altro ancora in gioco.
Non ci interessa, in queste scarne parole, qualsivoglia rimando ad un Risiko geopolitico. Non stiamo giocando con delle pedine bensì ragionando rispetto a noi stessi. Come donne e uomini che aspirano, come tali, ad una qualche libertà. Posto che il confronto in atto è tra autocrazie di ritorno e democrazie pencolanti. Nessuna apocalisse si dà rispetto al tempo a venire, bensì la consapevolezza che il mutamento del mondo ci chiama comunque in causa. Nella nostra sostanziale inettitudine, imperizia, insipienza, incompetenza. Tale poiché nessuna identità di gruppo, tanto più se minoritaria, è un balsamo rispetto al travaglio che stiamo vivendo. Quindi, nella nostra incapacità (in quanto cittadini del tempo corrente) di rispondere a ciò che avviene, nel suo materiale sopravvenire. Poiché “il tutto” del nostro tempo potrebbe altrimenti corrispondere al pari di quell’illusione collettiva, in ciò manifestatasi nel 1914.
Quando gli europei, nel loro medesimo sonnambulismo, si credevano semmai al riparo dalle fosche tragedie a trascorrere, quelle nel mentre dettate da un tracollo continentale, consumatosi definitivamente entro cinque anni dopo, nel 1918. La lezione che ci deriva dal quel tempo, per ognuno di noi, ha a che fare con il riscontro che nessun “nuovo ordine”, liberal-democratico o autoritario-oligarchico che sia, a conti fatti, ci mette al riparo da una repentina caduta negli inferi. La condizione delle “minoranze”, così come quella della “donne” (il virgolettato, in questi casi, è d’obbligo: si può essere esponenti del sesso femminile, così come di qualsivoglia minorità, senza per questo rappresentare altro che non sia un mero esercizio di potere) non è garanzia di alcunché.
Questa, in fondo, è la sgradevole sensazione, nonché in sé la medesima consapevolezza, che stiamo un po’ tutti vivendo. Posto che le minoranze ebraiche, e non solo esse, sono come quei canarini che i minatori, nel tempo che fu, usavano per propria sopravvivenza: infatti, li tenevano con sé in quanto molto sensibili al metano e al monossido di carbonio. In un tale contesto, erano essenziali per capire se c’erano delle fughe di gas. Poiché erano i primi a morire. Ciò facendo, indicavano agli umani la necessità di fuggire. Anche senza sapere come, dove e con quali risultati. Posto che quando si scappa da un qualcosa, senza conoscere la possibile meta, il risultato è solo una calca. Nella quale quei tutti, da sé più forti, nel tentativo di sopravvivere, si impongono e sovrastano gli altri.
È infatti la logica belluina dei più potenti. Quelli che trasformano il diritto in forza e, poi, in prevaricazione. Detto ciò: noi medesimi siamo a un tal punto? Siamo pertanto tornati al Seicento, così come descritto da Alessandro Manzoni e dal fior fiore dei letterati? Laddove il privilegio arbitrario si sostituisce al diritto universale, quindi il feudalesimo discrezionale all’universalismo dei diritti? Forse no. Probabilmente sì. Per più ragioni.
Stiamo comunque vivendo un trapasso. Non solo generazionale ma universale. Beninteso: nessun discorso sui tempi a venire potrà ridursi alla finzione di un’eclissi collettiva. Non è infatti questo il passaggio problematico. Non stiamo morendo come umanità bensì ci stiamo trasformando in quanto società. Posto che il tempo corrente è comunque quello dei mutamenti radicali, senza qualsivoglia indirizzo imprescindibile, come tale da subito immediatamente comprensibile. Non abbiamo quindi certezze. Anche per questo, in fondo, viviamo uno spaesamento, ossia uno spiazzamento, in sé totali. Sappiamo cosa siamo stati da sempre. Non conosciamo invece quello che potremmo divenire. In ciò che sta avvenendo, in qual è il “senso” oscuro del tempo corrente, si registra soprattutto il nostro comune disorientamento. Che deriva dalla consapevolezza dell’impotenza che ci accompagna. L’impotenza politica. Ma non solo essa. Quella per cui cerchiamo cause (le cosiddette “colpe”) invece trovando solo effetti, a nostro esclusivo carico. Sui quali, a conti fatti, non possiamo interagire. In tutto ciò, ancora una volta, le minoranze, nella loro stessa evoluzione, sono anche – e soprattutto – specchio di una maggioranza spiaggiata. Questa ultima, nelle società odierne, si rivela nel suo essere impedita, poiché senza un orizzonte condiviso. Soprattutto, in assenza di una panoramica di speranza. In fondo, storicamente, le minoranze sono state tali anche perché, ognuna a modo suo proprio, coltivavano e preservano un presupposto di alternativa. Al pari di una sorta di àncora di salvataggio, ultima speranza di salvezza per tutti. Ad oggi, invece, così non è più. Prendiamone atto e ripartiamo anche da ciò. Il resto è solo una finzione che si finge come “innovazione”.