Il marranesimo della nostra età: l’adattamento, di generazione in generazione, è il senso della vita

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Affezionati come siamo ad una certa idea di passato, molto spesso perlopiù idealizzato, comunque mai vissuto sulla nostra pelle, non riusciamo più a comprendere il presente che ci appartiene. Se si adottano schemi rigidi, inevitabilmente si cade nella trappola che ci si tende da soli, quella per cui ciò che si dà nell’oggi viene interpretato esclusivamente con quello che fu una volta, poi mai più replicato.

È una propensione umana comprensibile. Ma non per questo giustificata. Poiché quanto si manifesta nel momento in cui viviamo non si adatta alle categorie di ciò che fu. Lo stesso Shakespeare, nel suo Amleto, faceva recitare ad un certo punto: «ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia». Si tratta di un suggello letterario che sancisce il riscontro per il quale la vita, e con essa ciò che la genera e la fa concludere, sono assai più ampie delle nostre facoltà razionali. Quindi, della nostra capacità di racchiuderle in un pensiero di senso compiuto. Un piccolo bagno di umiltà, pertanto, ci appartiene.

Per il credente, il disegno superiore è parte della sua esistenza; per il non credente, a contare è il caso, il fato, l’accidente o cos’altro. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, quanto fa la differenza non è mai la volontà umana, bensì qualcosa che la sovrasta. Riconosciuto ciò, si viene al resto, ossia alle cose di questo mondo. Nei grandi transiti che accompagnano la storia dell’umanità, le intelligenze, come anche gli umori collettivi, spesso si smarriscono. Ovvero, non riescono a tessere la tela dei significati di ciò che stanno vivendo. Non interpretano più la traiettoria comune: da essa, infatti, si sentono come espulsi. Non è una novità, se non altro per un ovvio riscontro, ossia che la storia è soprattutto il racconto del cambiamento e di come esso macini passi e persone, cose e relazioni. Parlare dell’ebraismo, ad esempio, serve a tutti – qualora ci si liberi dei pregiudizi – per capire cosa sia la trasformazione collettiva: il mutamento non è mai la cancellazione del passato ma un suo adattamento ai tempi correnti. Nell’ebraismo storico, questo elemento è fondamentale poiché indica quali siano le strategie attraverso le quali non si rimane sempre eguali a se stessi (fatto in sé impossibile) bensì fedeli ad un’idea di continuità nella trasformazione collettiva.

Ciò che evochiamo con la parola identità, in fondo, indica un tale stato di cose: seguire il proprio tempo, assecondarlo, farsi trasportare senza per questo smarrirsi una volta per sempre. La parola adattamento è peraltro fondamentale. Esistono infatti traiettorie marrane che, per preservare il nucleo pulsante della propria identità, si sono confrontate con la realtà dei fatti quand’essa sia soverchiante, senza annullarsi o annichilirsi. Ed è soverchiante ciò che, con le nostre forze, non possiamo controllare, semmai dominandoci e fagocitandoci. A volte, per non tradirsi, necessita preservarsi. La preservazione – beninteso, ogni vita deve essere cara e mai sacrificata nel nome di un’istanza ideologica (come invece postula il radicalismo islamista, tanto per fare un esempio tra i diversi possibili) – consiste nel tramandare qualcosa, quand’anche ciò sia fatto senza che gli sguardi altrui si intromettano.

Un esempio? Non esiste rinnovamento senza la trasmissione di un nucleo profondo, che ci comunica, di generazione in generazione, il senso della vita dando ad essa dei significati che travalicano l’esistenza medesima in quanto tale. Tutte queste parole, a cosa servono rispetto al tempo che stiamo vivendo, ossia all’ordine di considerazioni che ci angoscia, alle agende che compiliamo come famiglie e persone, salvo poi doverle rivedere, di passo in passo, quando la mutevole e sfuggente realtà si impone sulla nostra volontà? Il tempo nostro, quello che viviamo, in questo spicchio di mondo, non è quello della catastrofe. Chi ci ha preceduti l’ha invece sperimentata sulla sua pelle. Catastrofe vuole molte cose: una di esse, tra le altre, è anche il non trovare interlocutori disposti ad ascoltarci. Soprattutto, è la cifra dell’indifferenza definitiva, una condanna che può uccidere quanto il vero assassinio. Noi, in franchezza, non stiamo vivendo quell’età. Malgrado tutto. Dopo di che, siamo senz’altro condizionati da un senso di spaesamento che ci accompagna giorno dopo giorno. Fatichiamo a interpretare quel che muta intorno a noi con gli strumenti dei quali siamo provvisti. Poiché sono questi ultimi a risultare inadeguati. Le cose, infatti, si trasformano più velocemente del pensiero che le accompagna. Non per una tale ragione quest’ultimo è necessariamente obsoleto. Mentre invece ciò che la storia dovrebbe insegnarci, per così dire, è la necessità di fare a meno dei tanti messia che, puntualmente, si presentano sul suo proscenio. La parola «secolarizzazione» indica anche questo stato di cose: la sobrietà e la modestia di chi non si ubriaca ascoltando gli ingannevoli richiami dei semplificatori. La realtà di ogni giorno è complessa, ognuno di noi vive un’identità complessa, tale poiché irriducibile ad un solo paradigma. Ripartiamo da questo, facendo a meno del bisogno di avere paura del tempo a venire e non arrendendoci a chi banalizza la vita.