Dire e interdire: la censura come esercizio di potere

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Nel discorso pubblico decidere cosa sia accettabile, e cosa invece vada rifiutato, è anche – e soprattutto – un esercizio di potere. In quanto è fondamentale comprendere chi abbia la reale facoltà di definire quali siano i confini entro i quali sia lecito per tutti dire (ed eventualmente fare) qualcosa. Nonché denunciare, in immediato riflesso, quel che diventa da subito altrimenti inaccettabile.

Il vero potere, nel nostro tempo, è anche una capacità di interdizione. In quanto non corrisponde alla sola forza di realizzare qualcosa bensì alla possibilità di impedire ad altri di manifestare aspetti della propria identità. Un potere è quindi tale in quanto esprime anche un esercizio di inibizione. Al dunque: la potestà politica, civile, sociale ha molto spesso a che fare con quella cosa che chiamiamo (o crediamo di conoscere) con il nome di “censura”. Un termine che può assumere molti significati. Non si tratta di dire che tutte le cose che accompagnano il mondo degli umani si equivalgano. Lasciandole quindi a sé, senza porsi invece il problema strategico di condividere una gerarchia di significati e di criteri di giudizio. In assenza di questi ultimi, infatti, prolifera il pregiudizio. Che è una finzione di coscienza.

Proprio per questo il vero punto critico è il rimando alla ricerca del labile e mutevole confine tra libertà di espressione e, per l’appunto, legittimo divieto. Tutto ciò potrebbe sembrare qualcosa di facilmente identificabile e, quindi, immediatamente condivisibile. Tuttavia, così non è quasi mai. Sia perché le linee di separazione tra accettabile e inaccettabile, se si parla soprattutto di idee, possono mutare nel corso del tempo. Sia perché la censura, nei regimi non democratici, viene usata come un manganello per regolare le condotte pubbliche dei singoli individui. Non è un caso se i fondamentalisti di ogni genere e risma si richiamino ad un unico, ossessivo, maniacale modello di riferimento. Imponendo a tutti di uniformarsi ad esso. Nonché sostituendolo all’incerta – ma indispensabile – democrazia pluralista.

Per essere chiari: i “talebani” non stanno solo in Afghanistan. Sono semmai il calco estremo di un altrimenti ben più diffuso modello di uniformazione di opinioni e atteggiamenti, che si sostituisce alla varietà di giudizio, la quale dovrebbe altrimenti essere la vera forza propulsiva della nostra libertà. Alla base del totalitarismo c’è infatti l’interdizione verso qualsiasi idea, parola, comunicazione che non rientri dentro un asfissiante modello ideologico, imposto come un assoluto incontrovertibile. Tra i molti problemi del nostro tempo è quindi fondamentale il rimando a ciò che intercorre nei riguardi dell’irrisolto rapporto tra libertà di espressione e, per l’appunto, il ricorso alla censura come sanzione morale e civile insindacabile. Nel discorso pubblico, dove si pone la linea di separazione tra accettabile (ancorché esso si esprima nella sua manifesta e offensiva radicalità) e inaccettabile (quest’ultimo, un groviglio di insolenze tale da risultare insostenibile, in quanto basato sulla negazione di qualsivoglia idea di umanità)? Qual è quindi la soglia, varcata la quale, l’invettiva diventa insulto deliberato e, con ciò, distruzione dell’altrui dignità, come di ogni residua comunicazione, richiedendo pertanto la sua stigmatizzazione da parte di una qualche autorità, eventualmente chiamata a visionare e a filtrare il contenuto delle comunicazioni collettive? È un quesito in sé delicatissimo. Pronunciarsi sulla linea di una tale divisione è come passeggiare allegramente su di un campo minato. Si rischia – infatti – di saltare in aria. Anche facendo la maggiore attenzione possibile. Poiché i solchi di separazione tra certo, incerto e sicuramente falso, così come tra plausibile, irritante e deliberatamente offensivo, a volte possono diventare impercettibili. Più di quel che vorremmo invece poter credere.

In discussione non è un’astratta concezione di libertà democratica bensì i concreti spazi, e con essi le regole del gioco, per il tramite dei quali possiamo continuare a manifestare noi stessi. Accettando gli “altri”, posto che siano anche (se non soprattutto) irritanti. Ciò che definiamo come “umano”, e riteniamo il suo essere “accettabile”, muta infatti nel corso del tempo. In immediato riflesso, anche quello che consideriamo come plausibile e condivisibile, rispetto alla comunicazione pubblica; al pari di quanto reputiamo non solo sgradevole ma – soprattutto – inammissibile. Si rischia di nutrire un’idea ingenua di “vero”, così come di “verità” quando si pensa che ci sia un’immediata corrispondenza tra accadimenti storici e loro resoconti. Quindi, tra eventi e interpretazioni. Tanto più se quest’ultime sono espresse da protagonisti tra di loro diversi. La percezione della rilevanza e del significato di fatti ed eventi, del passato come del presente, cambia infatti a seconda di quale sia la posizione del testimone chiamato in causa. Ossia, rispetto al suo medesimo punto di vista. E ai suoi concreti interessi di parte in gioco. Dopo di che, per quale ragione farsi tante domande, quando invece parrebbe a certuni che tutto sia molto semplice, ossia divisibile con la spada di Damocle? Torniamo al dunque, quindi: il tema della censura rimanda non solo a ciò che è potenzialmente censurabile ma anche alle istituzioni, pubbliche come anche private, che hanno la forza, il mandato, la legittimazione per definire cosa sia assodato, veritiero, condivisibile dalla comunità umana.

Quest’ultimo passaggio è capitale, poiché non definisce aprioristicamente cosa sia “vero” ma, piuttosto, chi sia chiamato a decidere in tal senso. Vincolando, in tal modo, il resto della società. Con un’ulteriore integrazione: il puritanesimo di ritorno è la cornice di questa riflessione. Poiché la censura è sempre, e comunque, mascherata dal presentarsi come un esercizio di virtù. Tale in quanto afferma di volere ripristinare un qualcosa di interrotto, un senso comune che è stato nel mentre violato. Riducendo tuttavia la questione della grammatica delle libertà alla ripetizione asfissiante di articoli di una falsa fede civile, la convinzione che la dignità dell’individuo riposi nel suo omologarsi ad un regime di credenze che gli si impongono al pari di un bavaglio.