Le due domande al centro della nostra memoria

Opinioni

di Stefano Levi Della Torre

Memoria e storia hanno modi  diversi. La ricerca storica intende ricostruire su documenti i fatti anche recenti ma in quanto passati; al contrario la memoria ( individuale o collettiva)  seleziona soggettivamente i fatti che – in qualunque tempo siano avvenuti – avvertiamo agire tuttora sul nostro presente e sulla nostra posizione nel mondo.

La memoria è lo spessore stratificato del nostro vissuto in atto. Ma poiché il nostro presente è orientato verso il futuro, che è intessuto di paure e di aspettative, queste retroagiscono sulla memoria, ne organizzano le evidenze e le rimozioni. La memoria seleziona ciò che vogliamo  ammettere riguardo a noi stessi e ciò che invece siamo indotti a rimuovere.  La memoria: è dunque una combinazione di tempi (di passato, presente e futuro) assai problematica. Non è di per sé una virtù. È virtù se costituisce una riflessione critica sull’esperienza accumulata, volta a superare errori e orrori del passato, ma può essere anche un vizio. Pregiudizi e stereotipi sono infatti memoria, ma congelata e cristallizzata. Egoismi, familismi, fondamentalismi e nazionalismi sono modi  che fanno della memoria una fissazione o un idolo.

Bene allora coltivare la memoria, meglio se accompagnata dalla critica della memoria.

Mi pongo questa domanda: quale funzione attribuiamo alla  memoria della Shoah? La Shoah è un fatto storico che dobbiamo difendere dalle falsificazioni semplicemente in nome della verità  oppure dobbiamo anche trarne qualche indicazione per il nostro agire? Perché, dunque, fare memoria  della Shoah? La risposta è diventata giustamente rituale: perché nulla di simile si ripeta. Perché non si ripeta per gli Ebrei, o perché nulla di simile  si ripeta,  né per gli Ebrei né per nessuno?  E se la Shoah, l’annientamento totale riservato agli Ebrei, è un estremo a cui nessun altro evento è ‘equiparabile’, ciò esclude forse che altre atrocità di massa siano con essa ‘confrontabili’? E confrontabili per mobilitare le coscienze e l’azione a prevenirli, o a contrastarli se in  atto, o a punirli se già compiuti.

Sulla questione, ascoltiamo Primo Levi, che afferma esplicitamente l’unicità della Shoah, e tuttavia si diffonde di continuo in comparazioni. Leggiamo nella prefazione a I sommersi e i salvati (Einaudi 1986):

Fino al momento in cui scrivo, e nonostante l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, la vergogna dei Gulag, l’inutile e sanguinosa campagna del Vietnam, l’autogenocidio cambogiano, gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci e stupide a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista rimane tuttavia un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione  di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà (pp 11-12).

Ma aggiunge:

Quanto del mondo concentrazionario è morto e non tornerà più […]? Quanto è tornato o sta tornando? Che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata? (p 11).

Qui Primo Levi dice che il confronto tra i campi nazisti di sterminio e altre atrocità di massa ha senso:

I Lager costituivano un sistema esteso, complesso, profondamente compenetrato con la vita quotidiana del paese; si è parlato con ragione di ‘univers concentrationnaire’, ma non era un universo chiuso. Società industriali grandi e piccole, aziende agricole, fabbriche di armamenti, traevano profitto dalla mano d’opera pressoché gratuita fornita dai campi. (p 7). Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori (p 27).[…] O se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale” (pp 27-28).

In nessun momento dunque  Primo Levi smentisce il fatto che Auschwitz sia un unicum, e tuttavia ne estende enormemente la confrontabilità con situazioni di tutt’altra gravità e persino a noi familiari e quotidiane.

Questo impatto tra la normalità e l’unicum di Auschwitz lo incontriamo accentuato nell’ultima pagina de I sommersi e i salvati, in un’affermazione che ci sorprende e ci spiazza. Parlando degli operatori del Lager, Primo Levi arriva a mettere tra virgolette la definizione di “aguzzini” perché lo ritiene “improprio” (sic, p. 166):  nei campi di sterminio, dice, tra i tedeschi i sadici erano una presenza trascurabile. Ciò che nel Lager è accaduto “fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni non erano mostri, avevano lo stesso nostro viso, ma erano stati educati male” (pp 166-167).

 

Che cosa ci saremmo aspettati? Che quell’atrocità organizzata su vasta scala e senza limiti non potesse venir condotta se non da esseri “disumani”. Questa era la nostra aspettativa “logica”. Un’aspettativa in un certo senso rassicurante: gente normale come noi non arriverebbe mai a fare simili cose; solo dei sadici patologici potrebbero spingersi a tanto, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Questo ci viene in mente, ed è un nostro meccanismo di riparo dall’orrore: spontaneamente cerchiamo un sollievo dall’angoscia pensando “logicamente” che, nel suo complesso, il personale del Lager fosse di una specie animale diversa da noi. Invece il Reich hitleriano e il sistema dei Lager erano la gigantesca e mostruosa organizzazione della normalità umana, la mobilitazione  ideologica verso obiettivi mostruosi della banalità che è in ognuno di noi.

L’affermazione di Primo Levi sulla normalità  dei funzionari del Lager (“erano fatti della nostra stessa stoffa; avevano lo stesso nostro viso”) non diminuisce l’orrore; al contrario lo aumenta, perché ci dice come la normalità, la nostra stessa normalità, possa trovare mille giustificazioni private che la rendano disponibile a far funzionare, ciascuno per la sua parte, un colossale sistema di distruzione dell’uomo e dell’ambiente.

Ora, consideriamo che quando viene avanti l’idea che la nostra vita o la nostra sicurezza possa valere mille volte la vita e la sicurezza degli altri; o quando in nome di una superiorità morale, civile o religiosa ci si abbandona ad atti che contraddicono e smentiscono proprio i principi di cui ci si vanta; o quando nella concorrenza per le risorse del pianeta si decide che alcuni gruppi umani hanno diritto alla libertà e al benessere  e si condannano altri alla fame, alla schiavitù e alla morte; allora Auschwitz non apparirà solo come un gigantesco crimine del passato, ma anche come una oscura profezia di qualcosa che è sempre possibile, se non in atto.

Al centro della memoria di Auschwitz sorgono due domande fondamentali, l’una guarda alle vittime, l’altra agli esecutori.

La prima è questa: per quali circostanze storiche e politiche che non avremo saputo arginare, e per quale isolamento nell’indifferenza altrui, potremmo diventare vittime di persecuzione e di strage?

La seconda domanda è questa: per quali circostanze storiche e politiche a cui non avessimo saputo o voluto trovare alternative, potremmo diventare carnefici, o collaboratori, attivi o passivi,  dei carnefici?  Che cosa ci può accomunare oggi, se non ai carnefici diretti, al conformismo consenziente o anche solo prudente, o indifferente al destino altrui, o al non voler sapere per evitare responsabilità o inquietudine, a tutti quegli atteggiamenti, insomma, individuali e sociali, che hanno permesso che Auschwitz avvenisse? O che una grave negazione d’altri, anche meno estrema di Auschwitz, possa prodursi?

Al di là della indignazione e memoria per le atrocità di massa, del necessario ricordo delle vittime,  la domanda  che si pone per la nostra attualità è questa: che ne è della nostra normalità e delle nostre assuefazioni, dove possono portare o essere portate? Come è successo che in una nazione di alta cultura e scienza (qual era la Germania), grandi masse siano state “educate male”, educate cioè al conformismo di regime, al risentimento, al nazionalismo, al vittimismo istigato alla rivalsa sul mondo, al narcisismo di “razza”,  a tal punto da generare un unicum eccezionale e mostruoso?  Queste sono le domande che ci impegnano oggi su come pensiamo e su cosa facciamo o non facciamo.