Bulimia di informazione e strumentalizzazione politica: il Giorno della Memoria è diventato anche questo

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Bulimia di informazione e strumentalizzazione politica: il Giorno della Memoria è diventato anche questo.
Ma la memoria deve aiutare a costruire un’etica comune

Che un dispositivo rivolto a preservare e a diffondere il ricordo del passato, quale quello inserito nella legge 211 del 2000 che istituiva il Giorno della Memoria, a vent’anni dalla sua approvazione, possa essere fatto oggetto di un’analisi e di una valutazione critica, di per sé non deve sorprendere. Poiché, se non muta l’esigenza civile di socializzare la conoscenza del passato per aiutare a costruire la cognizione del presente, è non meno vero che le stagioni culturali e, con esse, le priorità nel discorso pubblico, possono invece cambiare.

La cornice alla quale riferirsi, quindi, non è necessariamente polemica. Semmai deve assumere la problematicità come opportunità e non in quanto esclusivo vincolo e costrizione. In altre parole, cercare di capire cosa va messo a punto, per poi procedere oltre. Tuttavia, l’affaticamento è un dato di fatto, del quale si va discorrendo non da oggi. Riscontro in tal senso è il fatto che le indagini e le rilevazioni statistiche ci segnalino come l’antisemitismo non sia per nulla venuto meno, conoscendo semmai una nuova stagione che si alimenta di tanti fattori. Così come per il razzismo e la xenofobia.

Parlare della Shoah, quindi, non costituisce da sé un antidoto al male. Perché, allora? Misuriamo senz’altro un’inflazione di comunicazioni al riguardo. Le quali non aiutano a comprendere, semmai saturando lo spazio pubblico di stimoli e sollecitazioni a volte molto disordinate, quasi sempre disorientanti. Toccare ripetutamente il tasto dell’identificazione emotiva, quello delle “povere vittime”, alla ricerca di un facile consenso sulla base dell’empatia del momento, può rivelarsi decisamente controproducente. Si è poi sviluppato un settore produttivo, che spesso diventa puro merchandising, il quale in prossimità della ricorrenza civile sforna libri, film, opere teatrali e quant’altro, nella prevedibile attesa di poterle commercializzare. D’altro canto, in una società dove la radice di buona parte delle relazioni sociali è lo scambio economico, la mercificazione di una parte del discorso sulla Shoah può risultare poco o nulla gradevole, ma non può neanche essere cancellata con un solo colpo di penna o con un mero atto di autorità.

In questi anni si sono poi viste all’opera, insieme a molte persone competenti ed esperte, anche tante figure inverosimili, sedicenti specialisti che hanno purtroppo contribuito a intorbidire le acque. E così via. La sazietà, in questo caso, non è quindi indice di completezza e soddisfazione. Semmai denuncia una bulimia, che appesantisce, senza di certo rendere più forti e agili coloro che se ne sentono in qualche modo afflitti.

C’è tuttavia ancora dell’altro da prendere in considerazione. Senza ombra di dubbio siamo alla definitiva conclusione di quella che Annette Wieviorka ha definito come l’«età del testimone». Se dagli anni Ottanta in poi i sopravvissuti, così come quanti ebbero cognizione di ciò che succedeva, hanno svolto un ruolo importante nel ricostruire il passato, oggi ci confrontiamo con la loro oramai definitiva scomparsa. Si tratta di un avvicendamento anagrafico che segna però anche una transizione generazionale. Non sono solo i protagonisti del tempo trascorso a venire a mancare, ma sono anche i destinatari della comunicazione pubblica a cambiare. Parlare della Shoah nelle scuole, terreno elettivo della medesima legge 211, implica il rivolgersi a uditori che sono nati dopo il 2000, ovvero nel nuovo millennio. La percezione che una grande parte di essi ha nei riguardi del passato recente non è poi troppo diversa da quella che coltiva rispetto a quello lontanissimo dell’antichità. Non si colma peraltro un tale divario con le prediche di circostanza: parlare di Shoah non vuole dire fare la morale a chi ci ascolta, ma cercare di fare intendere quali siano i fondamenti di un’etica comune, nel nome di quel bene supremo che è la coesione sociale. Ben altra cosa da certi approcci raffazzonati, artificiosi non meno che presuntuosi, ovvero prescrittivi e assertivi, di chi ritiene di avere una qualche verità in tasca. Fare memoria implica inoltre la capacità di trasmettere significati condivisibili che, come tali, debbono confrontarsi con i linguaggi, i sistemi di pensiero e di comunicazioni che accompagnano le generazioni più giovani. La trasmissione, infatti, non è mai la consegna meccanica di una consapevolezza statica e irrigidita, bensì il raccordo del passato con le esigenze e i bisogni di chi è venuto dopo i fatti che sono in tale modo ricostruiti e narrati.

Si è protagonisti di memoria quando ci si sente parte di essa, pur non avendola vissuta in prima persona. La memoria stessa, peraltro, non è terreno di parificazioni né, tanto meno, di pacificazioni. Collabora nel costruire un terreno di intesa civile, trasfondendosi in quei valori che sono parte della solidarietà e della giustizia sociale. Non deve creare fittizie unioni, come neanche rivestirsi dei panni di quei giudici che prendono parte a un tribunale convocato in perenne appello. Funziona quindi se attiva il pensiero critico, non le sovrapposizioni, le omologazioni, le associazioni tra storie diverse, alimentando una sorta di oscena competizione tra le vittime, come se un crimine compensasse l’altro e trasformando la storia dell’umanità in un’eterna carrellata di tragedie, del tutto incomprensibili nella loro singolarità. Una parte della politica, invece, la pensa in maniera molto diversa. Poiché ritiene che la piegatura che deve essere data all’uso pubblico della memoria (e della storia) del passato sia funzionale alla conquista del senso comune nel presente, manipolandolo a proprio beneficio e capitalizzandolo immediatamente in consenso rispetto alle proprie posizioni. Anche di ciò non ci può stupire oltre misura; non per questo, tuttavia, si deve assentire. Perché altrimenti facendo, si lascia libero campo a chi ritiene che le cose trascorse possano essere combinate a proprio piacimento, come si fa con i mattoncini del Lego, cambiandone disposizione e ordine di volta in volta, secondo i calcoli del momento.
Nell’età del web, dove il confine tra reale e virtuale tende a cancellarsi, e il rifiuto della sospettosità cospirazionista e paranoide attraverso la ricerca della verità si fa sempre più difficile, lavorare sulla memoria implica muoversi verso due grandi orizzonti problematici: l’hate speech e le fake news. Sono i due estremi di un unico universo mentale, che partecipa della messa in mora della democrazia. Il problema, allora, non è il Giorno della Memoria, ma il fare sì che la memoria non sia questione di una sola giornata.