Post-Memoria. Dopo l’era del testimone, non resta che tornare alla Storia. L’inchiesta di marzo di Bet Magazine

a cura di Paolo Castellano, Ester Moscati, Ilaria Myr

Viaggi delle scolaresche ad Auschwitz, eventi, conferenze, film, videogiochi, targhe commemorative. Liliana Segre a cui sono state offerte ottomila cittadinanze onorarie…
Un bombardamento mediatico. Non sarà troppo?, si chiedono in molti. Un’overdose di Memoria? Con la “fine” dei Testimoni, che ne sarà del ricordo dell’Olocausto? La Shoah va studiata e compresa, non “sacralizzata” o celebrata come un rito laico, dicono gli storici. È allora giunto il tempo di affrontare lo studio dello sterminio come un qualsiasi evento della storia contemporanea? Un dibattito, a partire da un libro, Il mostro della memoria dell’israeliano Yishai Sarid, per molti aspetti sconvolgente

Sono in molti a chiederselo, da qualche anno, ogni 27 gennaio: non sarà troppo? Ancora parlare di Shoah? Giornali, tv, concerti, eventi, incontri, targhe commemorative, film, documentari, libri, viaggi. Parole, parole…, dette, scritte, cantate, gridate, sussurrate. Analisi, riflessioni, emozioni. La data sembra incombere minacciosamente con il suo carico di dolore e di domande. La sovraesposizione mediatica degli ultimi sopravvissuti, l’ipertrofico moltiplicarsi di eventi, l’enfasi istituzionale che circonda questo giorno, l’inevitabile dose di spettacolarizzazione, Liliana Segre il cui personaggio viene a volte manipolato e che rischia di diventare l’icona di una sorta di “religione del ricordo”… Non sarà troppo?, si domandano in tanti. Sì, è vero, gli ultimi testimoni se ne stanno andando e si ha il dovere di farli parlare finché hanno fiato. Per questo il Presidente Mattarella ha nominato Liliana Segre Senatore della Repubblica. Tuttavia… Qui e là, qualcuno borbotta, avverte una sensazione schizofrenica: noia, assuefazione, un malcelato fastidio, eppure, ogni anno, sempre più scuole, sempre più incontri, un profluvio di libri, spettacoli, recital… come se tutti volessero essere coinvolti in questa celebrazione che sembra diventare, sempre di più, un rito laico in cui “immolare” un Testimone al Mostro della Memoria, memoria come Gorgone contemporanea che impietrisce chi la guarda. E proprio Il mostro della memoria è il titolo di un libro dello scrittore israeliano Yishai Sarid che condensa, in 130 pagine, un insieme di spunti e straordinarie provocazioni che abbiamo voluto cogliere e rilanciare con un dibattito, una “tavola rotonda” organizzata dalla redazione di Bet Magazine con alcuni storici, insegnanti, esperti di didattica. Insomma, con chi di Memoria e di Storia dello sterminio nazista si occupa per lavoro o come volontario, al Memoriale della Shoah di Milano, al CDEC, come storico o guida didattica, o docente alla Scuola ebraica. I temi sono molti, intersecati tra loro, e non è facile proporli alla discussione in modo ordinato e consequenziale. Partiamo dai Viaggi della memoria: servono, non servono, sono utili o vanno aboliti, oppure concepiti diversamente? «Perché parte degli insegnanti e dei dirigenti di scuole e del Ministero dell’istruzione organizzano ‘Viaggi della memoria’ e non ‘Viaggi didattici o di istruzione’ ad Auschwitz-Birkenau? Cosa c’è che non va nell’organizzare per gli studenti iniziative con denominazione coerente con l’impianto e gli scopi di didattica, o di educazione, o di istruzione, o di conoscenza, o di approfondimento?» – si chiede Michele Sarfatti, per molti anni direttore del CDEC.
Pellegrinaggi, viaggi di conoscenza o di omaggio e rimembranza? Come preparare i ragazzi, superando la banalizzazione, arginando il trauma, contenendo l’autocelebrazione? Quando varca i cancelli di Auschwitz, che differenza c’è tra un liceale europeo e un liceale israeliano? Qual è il motivo per cui si va a visitare un campo di concentramento e sterminio? Che cos’è che si cerca nel luogo del Male?
Altro capitolo è poi quello dei testimoni, i sopravvissuti alla Shoah, il cui ruolo è stato fondamentale per la ricostruzione degli eventi. Voci di anziani che non parlano solo agli storici. Parlano al pubblico, incontrano i ragazzi delle scuole, accompagnano i viaggiatori nei lager. Rievocano quell’esperienza lontana ripetendola decine e decine di volte, col rischio inevitabile di venire usati, manipolati, prosciugati dai media. E la memoria degli eventi vissuti, è sempre attendibile? Scriveva Primo Levi ne I sommersi e i salvati: “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei”. Come confrontarsi quindi con le memorie dei testimoni?
Un altro tema che emerge con forza, quasi in modo violento, dalle pagine di questo libro epocale che è Il mostro della memoria è il confronto con il Male Assoluto espresso dal genocidio nazista. Paralisi, mutismo, vertigine emozionale, escandescenza emotiva… Alterazioni percettive, del comportamento, del linguaggio… Con reazioni a volte estreme e irrazionali. Alcuni poi, arrivano a dichiarare il fascino oscuro che la macchina di morte e il “pragmatismo” del sistema nazista esercitano su di loro. Perché la violenza e la morte sono state ritenute una soluzione nei confronti di chi si odia?
Altro tema clou: il ruolo dello storico. Come è possibile far convivere uno sguardo dolente e empatico con i freddi dati storici? Come tenere insieme l’umanità, il ricordo delle vite annientate e il resoconto degli eventi? Possibile che anche lo storico rischi una dissociazione dalla realtà tale da distorcerla, come accade con il revisionismo?
Chiunque sia andato in Polonia, in particolare a Cracovia e poi ad Auschwitz-Birkenau è stato sicuramente disturbato da un altro aspetto del problema: la mercificazione della Shoah. Tour operator e turisti stanno cambiando la percezione dei campi di concentramento. E anche lo sfruttamento polacco dei luoghi della Memoria, la vendita di “souvenir antisemiti” a Cracovia (portachiavi raffiguranti chassidim dal naso adunco), non aiutano. Come quindi viene oggi rivissuta l’esperienza della Shoah durante la visita nei campi? Auschwitz sta diventando un “non luogo”? Museo, memoriale, sito sacro, reliquiario? Senza contare che anche la tecnologia fa la sua parte: cinema, fotografia, ricostruzioni digitali, videogiochi di ruolo. Che permettono l’identificazione e di indossare i panni dei carnefici o delle vittime. Consentendoci di cambiare a nostro piacimento la narrazione della Storia e contribuendo a una possibile, futura manipolazione digitale che faccia pensare che sia tutto falso, inventato.
La sensazione è che rispetto alla trasmissione della Shoah si sia giunti a un punto di svolta. Lo si sente dire da ogni parte: dopo l’overdose di Memoria, che ha messo in ombra lo studio degli eventi, è urgente oggi ritornare alla Storia. Ne abbiamo parlato con Rav Alfonso Arbib, rabbino Capo di Milano (vedi articolo), Mino Chamla, docente di storia e filosofia, Marcello Pezzetti, storico della Shoah, Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC, Esterina Dana, vicepreside della Scuola Ebraica, Susanna Barki e Margherita Dana dell’Associazione Figli della Shoah, Pia Jarach del Memoriale della Shoah di Milano.

Marcello Pezzetti ad Auschwitz-Birkenau
Marcello Pezzetti ad Auschwitz-Birkenau

Viaggi di istruzione o della memoria?

Da vent’anni, per il 27 gennaio, si è bombardati di informazioni sulla Shoah, tanto che persino alcuni di noi dicono “basta, è troppo”. Che memoria stiamo costruendo? E come continuare a insegnare la Shoah?
Esterina Dana Sia fra i non ebrei sia tra gli ebrei stessi, sia da parte dei giovani sia dei docenti, oggi sembra prevalere una specie di saturazione nei confronti di questo argomento. E man mano che il Giorno della memoria andrà avanti negli anni, la situazione peggiorerà. Il punto sta nel trasmettere la conoscenza storica, unico antidoto contro il revisionismo e il negazionismo.
Margherita Dana Su questo fronte l’Associazione figli della Shoah organizza già dei seminari di aggiornamento per insegnanti: all’ultimo sono venuti in 400 solo dalla Lombardia. Quindi, l’interesse c’è e ci fa pensare che siamo sulla buona strada. C’è anche da dire che molti professori oggi ricettivi a questo argomento sono ex insegnanti della scuola ebraica, che ora portano in giro i loro studenti non ebrei.
Pia Jarach Sappiamo bene che l’aggiornamento degli insegnanti è del tutto volontario e che le proposte di seminari di formazione del CDEC, dell’Associazione Figli della Shoah, o di Yad Vashem sono fondamentali ma non raggiungono tutti. Il rischio di avere a che fare con insegnanti non preparati, o convinti di sapere già tutto, è che, per quanti sforzi noi si faccia al Memoriale, finiamo col seminare su un terreno non predisposto e che difficilmente darà frutti. Se, in più, le basi fornite agli studenti sono viziate in partenza, la nostra guida sarà inefficace se non addirittura controproducente.
Credo fermamente che luoghi e siti come i memoriali o addirittura i campi di concentramento (e ciò che resta di quelli di sterminio), possano avere solo un ruolo di potente conferma e sostegno a un precedente percorso in classe, articolato e complesso. Non possono, da soli, esaurire il percorso della Memoria. Senza rispettare questa premessa l’atto di portare gli studenti a visitare i luoghi del Male si riduce a una grottesca gita scolastica, fine a se stessa. Viene davvero un senso di vertigine quando ci si accorge che il nostro Memoriale o il campo di Auschwitz sono trattati come un parco a tema, anche se dell’orrore.
Gadi Luzzatto Voghera Come molti storici, ho guardato per molto tempo con sospetto al fenomeno dei viaggi della memoria. Ho poi accompagnato numerosi gruppi di studenti e di adulti visitando i lager nazisti in Polonia, in Germania, in Austria, in Croazia e in Francia e ho dovuto modificare in parte il mio giudizio. Si tratta ormai di un fenomeno di dimensioni consistenti. Solo dall’Italia ogni anno oltre centomila visitatori vanno ad Auschwitz, e sono numerosissimi quelli che visitano le altre centinaia di campi. È una dinamica complessa, che va interpretata e se possibile indirizzata e governata per rendere il più possibile utile ed efficace questa esperienza. I rischi sono molti: la commercializzazione della memoria, la sua “religiosizzazione”, la perdita di un effettivo senso storico che può essere addirittura controproducente. Non abbiamo dati convincenti, rilevazioni statistiche che ci indichino che la visita a un luogo che fu campo di concentramento o di sterminio abbia effetti durevoli nella formazione, nell’educazione dei ragazzi che compiono quell’esperienza. Ma d’altra parte moltissimi ragazzi tornano dicendo che quel viaggio li ha “cambiati”. Si tratta di un antidoto utile contro il riemergere di forme d’odio, di antisemitismo e di altre dinamiche negative nella nostra società contemporanea? A prima vista direi di no, a giudicare dai sondaggi a nostra disposizione. Sia i viaggi, sia più in generale le politiche della memoria non sembrano aver avuto effetti visibili sulla permanenza dei pregiudizi nella nostra società. Non mi sembra però un buon motivo per smettere di organizzare quei viaggi. In realtà quella dinamica ha spinto fortemente e in maniera positiva alla produzione di materiale originale e di grande interesse (ricerche, produzioni artistiche, testi), ha permesso a gruppi di giovani di vivere collettivamente esperienze emotive importanti, ha spinto le autorità governative europee a riflettere e ad agire per investire risorse nella conservazione dei luoghi della memoria e per la monumentalizzazione (che è azione di pensiero architettonico, storico, artistico, culturale e politico insieme). In tutto questo, i due temi all’ordine del giorno relativamente al futuro dei viaggi della memoria mi sembrano questi: da un lato la questione del “conflitto di memorie” (israeliani e europei di diversa provenienza geografica sono portatori di memorie nazionali molto articolate e per nulla simili relativamente ai luoghi dello sterminio). Su questo tema bisogna avere il coraggio di lavorare con forza, facendo dialogare soprattutto i giovani. In secondo luogo bisogna costruire meccanismi che aiutino i giovani visitatori a evitare la facile immedesimazione con le vittime (utile, ma consolatoria). La vera riflessione va attivata sulla possibilità di ciascuno di noi – se messo nelle condizioni – di diventare un potenziale persecutore. Se non si lavora su questi due cardini, i viaggi rischiano di ridursi a sterili pellegrinaggi.
Esterina Dana Sono d’accordo. Nelle mie due esperienze di accompagnamento dei ragazzi della Scuola ebraica, vent’anni fa, in compagnia di Rav Colombo ma senza la figura del testimone, i ragazzi si sentivano molto coinvolti da un approccio emotivo, basato sulla condivisione degli aspetti più religiosi e identitari rispetto a quelli storici. Oggi, invece, nei viaggi organizzati dalla Scuola ebraica si preferisce puntare sull’aspetto storico, per trasmettere ciò che è successo e per poter mettere gli studenti nella condizione di intervenire sulla realtà e sul mondo che li circonda. Certo, le emozioni coinvolgono, ma se non c’è una trasmissione di contenuti storici, facilmente vengono dimenticate. Mi faceva sempre effetto vedere ragazzi disperati che si sentivano in colpa perché non riuscivano a piangere. Ma l’obiettivo del Viaggio non deve essere questo.
Nel libro Il mostro della memoria mi ha colpito il fatto che il protagonista parla ai giovani con un linguaggio dettagliato, racconta gli orrori e per questo viene criticato dagli insegnanti che accompagnano i ragazzi. La sua freddezza diventa però, man mano, un meccanismo di difesa che non riesce più a controllare, fino al delirio e al collasso fisico. I ragazzi israeliani in visita ai lager si sentono forti, sicuri, vivono in Israele, combattono per Israele, a tal punto da dire, in modo terribile, “noi contro i terroristi dobbiamo essere come i nazisti”.
Un altro aspetto che il libro cita, e che è spesso oggetto di dibattito, è l’uso delle bandiere israeliane, in cui i ragazzi si avvolgono. Per i giovani della diaspora sono una sorta di protezione; li rassicura nell’angoscia inevitabile di ciò che potrebbe ancora accadere o di fronte a rigurgiti di antisemitismo.

Birkenau: bandiere e canti in un cimitero?

Marcello Pezzetti Io invece non sopporto né le bandiere né i canti. Moltissimi, arrivando con le bandiere israeliane si mettono a cantare. In un cimitero – cosa che di fatto è Auschwitz – è qualche cosa di molto duro da sopportare. Ma questo riguarda un po’ gli studenti di tutti i Paesi. La verità è che non dovremmo stupirci se dovessero all’occorrenza entrare anche con le bandiere della Polonia, dell’Italia e addirittura con le bandiere della Germania: tutte le vittime tedesche del nazismo finite ad Auschwitz dove le mettiamo? Hanno pari dignità, no? Gli ebrei tedeschi sono forse diversi dagli ebrei polacchi? Sono vittime esattamente come loro. Si sentivano tedeschi prima di tutto. La loro prima identità era quella nazionale tedesca. È un discorso complicato. Io personalmente non farei entrare nessun tipo di simbologia. Visitando i lager, dovremmo tutti concentrarci sul sistema di deportazione e di messa a morte. Lasciare da parte le stratificazioni posteriori. Il mio vuole essere un approccio squisitamente storico.
Susanna Barki Secondo me, dall’Italia, chiunque volesse intraprendere un viaggio della memoria dovrebbe partire visitando un luogo italiano: il Memoriale di Milano, il campo di Fossoli o la Risiera di San Sabba, per non sdoganare la responsabilità degli italiani e fare capire che la Shoah non fu solo nazista e confinata alla Germania o alla Polonia, ma che avvenne anche qui da noi, anche per colpa degli italiani. Sono andata in Polonia due volte: la prima volta cinque anni fa con Marcello Pezzetti e con Sami Modiano e sua moglie Selma, a Cracovia e Auschwitz-Birkenau. Dopo tanti anni che lavoravo in questo ambito è stata la prima volta che mi sono sentita pronta. Ero talmente impietrita che non ho versato una lacrima: ero lì a toccare con mano quello che avevo letto e studiato. La cosa però che più mi ha scioccata di quel viaggio è stato trovare a Cracovia, città che vive di turismo ebraico collegato soprattutto ai campi di sterminio, souvenir antisemiti con lo stereotipo del rabbino col naso adunco, gli occhi sporgenti, la barba e i soldi in mano.
Il secondo viaggio l’ho fatto a Varsavia e Lublino con l’Adei Wizo lo scorso anno. Mentre Majdanek, campo dove quasi tutto è rimasto uguale ad allora (baracche, macchie del Zyklon B nelle camere a gas), mi è sembrato quasi un set cinematografico, perché tutto era troppo perfetto; quello che mi ha sconvolto è stato Treblinka: dominava una natura meravigliosa, con betulle ovunque, e solo queste pietre che ricordano le comunità ebraiche eliminate nella Shoah. Lì c’era già pochissimo all’epoca, perché gli ebrei venivano condotti lì e subito eliminati nelle camere a gas. In giorni di pioggia battente, emergono lì, come negli altri campi, resti di ossa, vestiti e oggetti: questo è davvero devastante.
Margherita Dana Personalmente ho un’esperienza opposta. Anch’io ho fatto entrambi i viaggi e per me Auschwitz è stata un po’ una “delusione”, perché era troppo evidente quanto fosse in realtà diventato una “macchina da soldi” per i polacchi: l’unica cosa che mi aveva colpito era l’immensità dei luoghi, mentre vedere come era esattamente strutturato un campo come a Majdanek mi ha colpito molto.

Guide polacche quale storia ci raccontano?

Viaggi della memoria e guide polacche locali: accade sovente che vengano enfatizzate le sofferenze del popolo polacco a discapito di quelle altrui; durante le visite ai campi a volte accade che lo sterminio ebraico venga “ridimensionato” e ricollocato all’interno della moltitudine delle vittime della barbarie nazista. Insomma, come viene svolto il lavoro delle guide in musei e memoriali ebraici?
Margherita Dana Questo è un punto davvero dolente. Ad Auschwitz, così come al Museo Polin a Varsavia, ti assegnano una guida di default, è obbligatorio entrarci accompagnati, ed è capitato che alcune fossero antisemite; e per soprammercato, quelle che vengono dall’Italia ad accompagnare il gruppo, anche se preparatissime, non possono intervenire né dire nulla.
Marcello Pezzetti Il discorso sulle guide è complicato. Intanto non è detto che una guida polacca sia per forza ideologizzata e un’altra no. Anche un’italiana può esserlo. Per quanti anni, come italiani, non abbiamo sentito alcuna responsabilità rispetto alla deportazione degli ebrei! Il problema è il tipo di preparazione che deve possedere una guida. Una preparazione il più approfondita possibile. Non deve soffermarsi sui dettagli, che non servono a niente. Non è un museo degli orrori. È la nostra storia. La storia di tutti. Qualcosa di molto più profondo e che merita più dignità. Le guide propongono visite brevi perché più ce ne sono e più guadagnano. Questo è folle. Quel che non capisco è il non saper restituire un quadro storico che sia il più corretto possibile. Spesso ci si ferma a “lì c’era il crematorio e lì c’erano le latrine e lì c’erano le baracche…”. La gente non capisce perché e come, in questo caso, gli ebrei siano rimasti là, selezionati e così via. Il problema grosso è il ruolo che ha avuto Auschwitz. Auschwitz ha avuto più ruoli. Occorre spiegarne la complessità, che è una delle cose più difficili da fare. Ma se noi non spieghiamo questo non riusciamo a far capire il luogo e la storia ai nostri interlocutori. Ad Auschwitz possiamo anche fare una visita cercando di capire cosa sia successo, ad esempio, all’opposizione politica polacca. In fondo le guide polacche, quando si rivolgono ai polacchi, parlano del loro vissuto, della loro storia, del loro luogo di martirio e hanno tutto il diritto di farlo, è ovvio. Ma il problema è che non vengano scambiati i ruoli. Che non si metta tutto sullo stesso piano. È qui che bisogna lavorare. Guai a puntare sull’emotività: se facciamo un lavoro di carattere emotivo il tutto sfuma. Dovremmo collaborare di più con le guide locali e con quelli che fanno formazione prima e dopo i viaggi. Io ho fatto quattro corsi qui in Italia per le guide polacche ad Auschwitz. Nei luoghi della Memoria bisognerebbe mettere in piedi un’organizzazione europea non solo per Auschwitz ma per tutti i luoghi della Memoria. È incredibile quanto poco ti spieghino e quanto poco le guide in loco sappiano della storia del Paese di provenienza dei visitatori.
Bisognerebbe approfondire. Le guide dovrebbero fare degli stage soprattutto nei luoghi da cui provengono i loro visitatori. Quelle italofone devono lavorare sulla storia delle persone deportate dall’Italia. Ebrei e non ebrei.
Pia Jarach Essere guida al Memoriale della Shoah per me è una sfida continua, quotidiana. Non posso pensare di diventare un disco rotto. Mi devo saper misurare con ogni singolo gruppo, capire in pochissimi minuti come entrare in contatto con i suoi partecipanti e come costruire il viaggio che di lì a poco affronteremo insieme. Ogni gruppo va analizzato e compreso prima di essere ingaggiato a compiere un percorso che non può ridursi a una semplice spiegazione.
La visita guidata deve riuscire ad armonizzare un ordito fatto di storia, di fatti, di date, di testimonianze, con una trama fatta di riflessioni, di significati, d’incursioni nel presente per confrontarle con il passato.
Fra l’altro per me è molto importante riuscire a fondere tutti questi elementi più astratti con la concretezza del luogo e con le scelte architettoniche, mai casuali, che hanno trasformato l’area in un Memoriale.
Parlare di didattica in un approccio alla Shoah estemporaneo e veloce è pressoché impossibile. Il problema si pone invece per gli insegnanti che accompagnano i propri studenti, e a noi guide basta poco per capire come li hanno preparati. Esiste una differenza abissale tra un approccio al tema della Shoah didattico, educativo e olistico e invece quello del “dovere della Memoria” un po’ morboso o, al contrario, usa e getta.
Molto è stato fatto negli ultimi anni e, per fortuna questa non è la regola. Sono tantissimi i docenti seri e preparati, oltre che profondamente convinti del valore inestimabile dell’insegnamento della Shoah e consapevoli del ruolo unico che hanno i siti storici.

I testimoni: usati, prosciugati, manipolati?

Esterina Dana La questione dei testimoni è sempre molto delicata. Per molti è una grande fatica rivivere quei momenti. Alcuni di loro hanno però bisogno di parlare: per Liliana Segre, Nedo Fiano, Sami Modiano, parlare è stata ed è ancora un’esigenza, un’urgenza dell’anima. Questo emerge anche nel libro Il mostro della memoria: c’è il testimone che quando porta i gruppi ad Auschwitz coinvolge i ragazzi, e c’è quello che invece soccombe al dolore.
Del resto, per i sopravvissuti, dimenticare quello che hanno vissuto è impossibile, torna nella vita di tutti i giorni – pelare le patate, andare a una stazione ferroviaria, vedere cani che abbaiano -; cominciare a raccontare vuol dire per loro uscire da quello stato di depressione.
Mino Chamla Io penso che la testimonianza non dovrebbe mai essere “esemplare”. Piuttosto, un racconto che mette in moto qualcosa dentro di noi. Paradossalmente, attraverso la figura del testimone, siamo arrivati ad una sorta di anonimato generalizzante; il testimone, alla fine, non possiede quasi più un nome proprio, rappresenta una vicenda all’interno di un insieme di vicende, ha il valore di un rito espiatorio. Il dramma è che le politiche della memoria si sono svolte tutte all’insegna di una società della rappresentazione, dello spettacolo, della parola dichiarata e della credenza nei poteri salvifici di queste cose, appunto riti espiatori che ovviamente non hanno cambiato nulla. La testimonianza avrebbe dovuto essere funzionale alla ricostruzione storica, quindi una testimonianza restituita e consegnata allo storico, non al pubblico. Magari anche al pubblico, ma dopo, in un secondo momento; in tutta onestà, non me la sento di dire che la presenza del testimone in carne e ossa sia stata un’esperienza negativa. Ma negativa è stata la gestione della testimonianza, la ripetizione, l’avere delegato tutto a loro. Sono esseri umani, sono anziani, hanno debolezze e sofferenze. Fatalmente, invece, in una situazione del genere i testimoni vengono caricati di significati. Frasi ormai fatidiche che ripetiamo come un mantra: che cosa accadrà dopo l’era del testimone?, implicano il non avere alcuna fiducia nella Storia e nessuna fiducia nel valore stesso della “testimonianza del testimone”. Perché ci si affida al suo corpo, alla sua fisicità, invece che alle sue parole, che sono già “registrate” e affidate al futuro. Che non si perderanno. Abbiamo proiettato Anne Frank Vite Parallele. Alla fine, finita la proiezione, ho detto ai ragazzi che il problema non è passare il testimone. Ho detto “voi non siete tenuti in quanto ragazzi ebrei a diventare storici provetti né testimoni della totalità. L’unica cosa che vi si chiede: prendetevene cura”. Prendersene cura vuol dire cavarne un significato universale, senza distorsioni. La Shoah c’è stata, vai e studia. L’unico messaggio è “prendetevene cura, ognuno secondo quel che può”. Per il resto, lasciate lavorare gli storici. Tutto il resto alla fine si ritorcerà contro.
Pia Jarach L’ammirazione per i testimoni può presentare risvolti un po’ inquietanti. Mi capita spesso di essere fermata al termine di una visita guidata da persone che chiedono, anzi, quasi pretendono, un incontro privato, un libro, un autografo, una testimonianza esclusiva per la propria classe con la Senatrice Liliana Segre, come se fosse l’inevitabile gioco delle parti, tra una star e i suoi fan. Se gentilmente si fa loro presente che ormai la Senatrice non ha proprio più tempo, superato il disappunto iniziale, eccoli pronti a chiedermi se “ce n’è un altro” da chiamare. I testimoni vengono a volte considerati come un mezzo intercambiabile sulla strada del ricordo. Sono più di trent’anni che i nostri testimoni si sottopongono pubblicamente alla tremenda fatica del ricordo, hanno dato tutto quello che era umanamente possibile dare. Ora hanno bisogno di un po’ di pace, del silenzio, di provare solo pietà per quelle ragazzine e per quei giovani che sono stati, travolti prima dalla Shoah e poi dal dovere della Memoria. Come si può non capire che la testimonianza non è una chiacchierata qualsiasi, né un favore che ti è in qualche modo dovuto? Ne parlavo diversi anni fa anche con Goti Bauer: il dovere della testimonianza, che i sopravvissuti come lei si sono assunti con coraggio, non è solo emotivamente e psicologicamente logorante, ma può diventare anche molto frustrante. Quando si tratta di esperienze così impossibili da raccontare e da comprendere, così devastanti e uniche, qualsiasi sforzo tu faccia per trasformarle in un racconto decifrabile e storicamente attendibile, ti lascerà nell’anima un senso d’incompiutezza.
Al termine di una testimonianza rimane la sensazione di aver probabilmente omesso qualcosa di fondamentale, di non aver detto tutto quello che si sarebbe potuto dire, di non aver reso abbastanza giustizia ai fatti, alla storia, alla memoria. Per non parlare del dolore amaro che immagino assalga i testimoni nel confronto con la realtà e con la cronaca: sapere di essersi votati alla costruzione di una coscienza condivisa capace di fronteggiare il Male e vederlo invece riemergere, con tanta banale normalità. Come se loro non avessero parlato né raccontato. Come se la storia non fosse stata documentata.
Margherita Dana Il problema è che sono gli stessi adulti che pretendono che ci sia il sopravvissuto, negli eventi come nei viaggi, senza considerare che stiamo parlando di persone che sono molto in là con gli anni, per i quali queste sono esperienze sfinenti e scioccanti. Allo stesso tempo, però, finché si può affiancare l’approccio storico con la testimonianza del sopravvissuto, è giusto dare un’esperienza davvero completa. Sono infatti convinta che anche l’emotività lasci tracce durature e importanti, sulle quali poi si può costruire e consolidare nel tempo la conoscenza dei fatti. Le testimonianze di Arianna Szorenyi o di Nedo Fiano che ascoltai da ragazza mi hanno segnato per la vita. Storia e testimonianza devono andare insieme. Poi è chiaro che il futuro della didattica della Shoah va ripensato in modo diverso perché quando non ci saranno più i sopravvissuti dovremo cercare una nuova strada.

L’emozione non basta; come tornare alla storia?

Marcello Pezzetti Da storico della Shoah, posso dire che la domanda non è ‘perché’ si inizia a lavorare su questo tema, ma come si faccia a non entrare in questo campo. Se uno studia storia contemporanea, per varie ragioni che possono essere ricerca di radici personali o altro, si trova davanti a questo grande buco nero della storia del mondo. La Shoah. Uno Stato, la Germania, nel pieno delle sue funzioni, che mette a disposizione tutte le sue energie e tutte le sue risorse per eliminare una parte di sé. Una cosa mai vista. Tremenda. Il problema è: come non si fa ad entrarci. Dal momento in cui si entra, il vero ed enorme problema è come uscirne. Bisogna cercare di mantenere una distanza. Sempre, cercare di farlo, anche se spesso non è facile e ogni tanto uno si rende conto che suo malgrado viene colto dall’emozione. Ma una delle cose che uno storico deve fare è dare un impronta più razionale possibile, più vicina al fatto storico. La maggior parte della gente affronta la Shoah da un punto di vista emotivo, emozionale. Lo storico deve fare l’esatto contrario. Per esempio, a livello scolastico, un insegnante che da un punto di vista didattico offra un approccio emotivo, sbaglia completamente. Molti insegnanti hanno un approccio che è rigoroso e onesto. Altri hanno un approccio veramente troppo emotivo. L’emotività porta a commettere errori grossolani. Anche in questo campo. Faccio un esempio, negli anni Sessanta uno dei primissimi show radiofonici su questo tema presentava qualche cosa di orrendo: una comparazione – come adesso si fa con le Foibe – fra un famigliare di una persona scomparsa nella Shoah e la mamma di un ragazzo di Salò che ha fatto la scelta repubblichina e che era stato ucciso. Il tutto era basato veramente solo sui sentimenti, l’emozione, così via. La più credibile, che destava più empatia, era la mamma di quel disgraziato. Se si rimane su questo livello è chiaro che manca il rapporto con la storia e con la verità dei fatti, non si capisce più qual è l’approccio corretto. Il problema vero oggi di Auschwitz è che c’è così tanta gente che vuole visitare quel luogo che si perde la dimensione storica. Auschwitz sta diventando un luogo diverso. Un luogo di attrazione turistica e questo va assolutamente evitato. È un bene che un numero altissimo lo vada a visitare ma a questo punto bisogna che sia rigorosa la visita. Io abolirei tutte le visite brevi. Non ci permettono di comprendere ciò che è avvenuto. Le visite brevi sono quelle di massimo tre ore. Uno dovrebbe visitare Auschwitz standoci tutto il giorno, visitando assolutamente Birkenau che è fondamentale per capire la Shoah. Stare poco significa non capire nulla. Forse è qui che bisogna lavorare per capire come fare una visita che ci permetta di comprendere.
Gadi Luzzatto Voghera La ricerca storica sulle dinamiche dello sterminio non si è mai interrotta. Negli ultimi anni si è anzi arricchita notevolmente giovandosi di nuove fonti rinvenute in archivi dell’Europa orientale e di altre fonti de-secretate grazie allo scorrere del tempo che le hanno rese accessibili. Ultimo in ordine di tempo, l’archivio del Vaticano relativo agli anni del pontificato di Pio XII, disponibile agli studiosi dal 2 marzo 2020. In qualche misura, si può affermare che le numerosissime testimonianze che abbiamo a disposizione a partire dagli anni Novanta hanno aiutato la ricerca storica fornendo elementi in precedenza sconosciuti e ignoti e aprendo nuove prospettive di indagine. È peraltro vero che nel discorso pubblico sulla Memoria ha finito con il prevalere (probabilmente per la drammaticità dei racconti e per la loro umanità) la dimensione della Testimonianza rispetto a quella della ricerca storica. Se non si può parlare – a mio giudizio – di un contrasto assoluto fra Storia e Memoria, ci sono stati e ci sono dei momenti di criticità fra le due dinamiche. Una certa tendenza alla testimonianza-spettacolo ha portato a volte a sottovalutare la necessaria adesione rigorosa alla documentazione storica che è l’unica dimensione che ci può restituire la vicenda dello sterminio nella sua complessità. Personalmente, da storico, trovo pericolosa qualsiasi tentazione di manipolare la vicenda storica (tutte le vicende storiche) piegandola a interessi politici di parte. Chi vive nel presente si deve assumere la responsabilità di guardare con sguardo non ideologico la storia passata (anche recente) creando gli spazi pubblici per raccontarla e discuterla. C’è invece oggi la tendenza a considerare la storia – e in particolare quella del fascismo, del nazismo e delle persecuzione antiebraica – come un campo di battaglia su cui esercitare la propria dialettica politica, sacrificando troppo spesso un’adesione rigorosa alle fonti e a quello che ci raccontano. Viviamo tuttavia il momento – sempre paventato – in cui anche gli ultimi testimoni ci hanno lasciato o hanno smesso di raccontare. In questo senso, e solo in questo senso, si può usare l’espressione “tornare alla storia”. Ma è un “ritorno” che continuerà a confrontarsi con la testimonianza, con la memoria. La Fondazione CDEC e altre istituzioni nel mondo, hanno in questi decenni compiuto uno sforzo straordinario raccogliendo le testimonianze e organizzandole con rigore scientifico. Si tratta di fonti di storia orale che si aggiungono alle ricchissime serie archivistiche. Bisogna spingere gli studenti, ma anche i ricercatori, a scoprire queste fonti e a lavorarci con la dovuta passione. Mi sembra sia un buon modo per affrontare la sfida che ci attende “dopo l’ultimo testimone”. Bisogna peraltro dire con chiarezza che attorno al binomio storia/memoria si muovono ormai da tempo discipline scientifiche che su tutto ciò hanno dimostrato di avere molto da dire: la pedagogia, la psicologia sociale e in genere le scienze cognitive, la sociologia, l’antropologia, l’archeologia. Per non parlare delle arti applicate, che da anni vedono schiere di artisti e performers, di scrittori e poeti, esercitarsi in riflessioni pubbliche sulla storia e sulla memoria dello sterminio.
Susanna Barki A oggi però il problema è che prima di parlare di Shoah nelle scuole si dovrebbe far capire come si sono svolti i fatti, almeno dagli anni Trenta, come si è arrivati a questo: dalla Germania, poi dal 1938 in Italia, e tutti i fatti che culminano nella Shoah, senza i quali non sarebbe stata possibile. Ma nella scuola italiana l’insegnamento della storia è un grande punto debole: molti insegnanti sono poco preparati.
Mino Chamla Vorrei fare una precisazione forse più filosofica che storica, nel senso che vorrei ampliare l’interpretazione dei fenomeni. La storia è certo la base, perché è la ricostruzione complessa dei fatti, di tutti i fatti e esperienze possibili. Ad esempio proprio sulla questione testimonianza e storia, o meglio memoria e storia, andrebbe ricordata un po’ di “storia della storiografia” della Shoah. Lo storico Raul Hilberg, per esempio, nutriva verso le testimonianze una totale sfiducia. Le considerava sin dagli albori, sin dall’inizio dell’Era del Testimone, come la chiamava Annette Wieviorka, una cosa che rischiava di essere molto negativa. Hilberg polemizzò aspramente con Elie Wiesel, perché diceva che ne La notte aveva raccontato cose inesistenti, che lui da storico aveva ricostruito. In epoca molto più recente Saul Friedländer era arrivato a dire attenzione, “L’unica storia possibile è una storia integrata”, in cui sono i testimoni che devono essere integrati nella storia generale e non viceversa. Secondo me, due sono stati i peccati capitali commessi, non da parte dei testimoni, evidentemente, ma con i testimoni. Il primo è avergli delegato praticamente la storia della Shoah come fonte principale per il mondo. Il secondo è quello di aver così vanificato il valore storico primario delle loro testimonianze perché praticamente poi si è giocato tutto sulla ripetitività e la rappresentabilità di qualcosa e non sul valore, se vogliamo, storico assoluto e di testimonianza che corroborava anche negli aspetti emotivi. Come ha scritto Liliana Picciotto, “la storia e la ricerca storica sono la siepe intorno alla memoria”, è ciò che assicura anche la “vita” della memoria, alla fine. In ultima istanza, la parola spetta alla storia e la storia non può che essere “complessificazione” continua. Invece, un problema che emerge nel libro Il mostro della memoria è quello a cui si può andare incontro quando la storia è asservita ai meccanismi della “memoria celebrata”. Laddove appunto tutto si semplifica e diventa un “pacchetto”. Nel libro spesse volte il protagonista dice: “gli tiro fuori il discorso di cui sono molto fiero e che avevo costruito nel tempo”. Siamo paralizzati dalla paura perché ci sono i negazionisti. È la storia l’argine contro il negazionismo, molto più della testimonianza.

 

Uso politico della memoria? È ora di finirla

Margherita Dana Certamente c’è una speculazione politica e salta agli occhi anche nei confronti di Liliana Segre, alla quale sono state offerte negli ultimi mesi ottomila cittadinanze onorarie… Il fatto poi che sia diventata Senatrice l’ha posta al centro dell’arena mediatica, trasformandola in un’icona. C’è senza dubbio in questo un aspetto positivo, perché dalla sua nomina si parla sempre più di Shoah. Però rischia di essere davvero troppo.
Marcello Pezzetti Secondo me però, il vero rischio oggi sta nei paragoni con altri etnocidi o genocidi. Paragoni che sono dettati da un uso politico della memoria, come nel caso delle Foibe. Lo storico deve mantenere una distanza soprattutto quando parla a un pubblico giovane.
Mino Chamla Ne Il mostro della memoria c’è anche una critica allo Yad Vashem, alle politiche nazionali e soprattutto alle loro responsabilità. C’è la critica all’ente ufficiale e all’uso politico della Shoah. E anche la Polonia… ripeto da anni che non dovremmo più andare in Polonia… Ovviamente i polacchi, malati di vittimismo, diranno che sono gli ebrei a ‘perseguitarli’ e che sono tornati al loro vecchio antipolonismo. Tantissimi anni fa uno scrittore polacco che era presidente dell’Associazione amicizia Polonia-Israele, uno famoso scrittore, Andrzej Szczypiorski, scrisse che i polacchi dovevano smetterla una buona volta con l’antisemitismo…, ma che anche gli ebrei dovevano finirla con l’antipolonismo! Ed era un amico! Io non andrei in Polonia anche perché oggi stanno abolendo lo stato di diritto.

Tra fiction e docu-film: quale Shoah al cinema?

Susanna Barki Sono dell’avviso che tutta la fiction sulla Shoah non abbia alcun valore storico. L’unica eccezione è il film Il figlio di Saul, che dà un’idea molto realistica di quello che ci è stato raccontato: i rumori, l’atmosfera, mancano solo gli odori. Nel contempo, sono anche validi i film che portano a una riflessione come, ad esempio, Io sono qui, che ha trattato in modo molto intelligente – e terrificante nelle parti della candid camera di saluti entusiastici al “Mussolini ritornato” – il pericolo del ritorno del fascismo.
Margherita Dana Uno strumento molto utile sono i docu-film, ad esempio Kinderbloch sulla storia delle sorelle Bucci. È una buona soluzione per una didattica del futuro piuttosto che il film “finto”.
Esterina Dana Ci sono tuttavia alcuni film che non funzionano storicamente, ma che fanno comunque conoscere a un ampio pubblico storie inedite, piantando così il seme per un interesse futuro. Penso ad esempio a Jona che visse nella balena, di Roberto Faenza, tratto dal libro Anni d’infanzia. Certo, ci vuole comunque la conoscenza storica basata sui documenti.
Ma se pensiamo alla manipolazione, c’è un passaggio nel libro Il mostro della memoria davvero inquietante; è quando si narra di israeliani che vogliono girare un film nel campo, con un set totalmente ricostruito in cui gli ebrei poi vincono. Così come viene realizzato un videogioco su Auschwitz a cui il protagonista è chiamato a partecipare come consulente storico. Questo può portare alla manipolazione della storia e al negazionismo? Purtroppo sì e sta già accadendo oggi. Gli strumenti tecnologici sono deperibili e ci sarà chi porrà in dubbio la veridicità dei fatti.
Susanna Barki Io non sono d’accordo con Esterina. La Shoah è l’evento storico più documentato al mondo, sia dalle vittime sia dai carnefici, nelle meticolose relazioni naziste. Certo, forse nella ricostruzione storica fatta fino a oggi, in cui il punto di vista delle vittime è stato sviscerato al massimo, quello dei carnefici è stato molto ridotto. I libri scritti dai nazisti non mancano.
Margherita Dana Io punterei di più sull’utilizzo di un linguaggio che parli direttamente ai giovani: ad esempio come era stato fatto con il progetto Eva’s story su Instagram, che utilizzava il social per raccontare la storia di una bambina durante la Shoah, come se fosse un alter ego moderno di Anne Frank. Si deve ragionare sul modo migliore per arrivare al cuore dei ragazzi, anche utilizzando la tecnologia. Penso che sia utile perché quello è linguaggio dei giovani.
Susanna Barki Penso ad esempio a La vita è bella. Racconta cose che non sono plausibili con la realtà storica che conosciamo. Però… c’è un però enorme, bisogna rendergli atto che ha fatto conoscere quel pezzo di storia all’uomo medio italiano, quello della strada.
Marcello Pezzetti L’approccio filmico è un approccio complesso. È duplice, ha un punto di vista documentaristico e di fiction. La fiction è fiction. Molti film possono produrre una banalizzazione e secondo me il 70% delle fiction semplificano e banalizzano. Ma il film ha una potenza enorme e per questo ha anche una grossa responsabilità. Ma è chiaro che se uno fa fiction, il suo obiettivo non è la verità storica ma è arrivare a più persone possibili. La fiction è un mezzo fantastico per affrontare un tema storico ma dovrebbe farlo in un modo corretto e approfondito. Ci si deve preparare e spesso non avviene questo lavoro di approfondimento preventivo. Ci sono però moltissime opere che possono essere usate. Un film polacco di 12 minuti degli anni Sessanta, Ambulans, di Januz Morgenstern, fa capire molto di più di moltissimi testi sulla realtà dei gaswagen di cui non c’è molta documentazione.
Un’opera d’arte stupefacente che ha un contenuto storico di altissimo livello. Il problema è che la gente ma soprattutto gli insegnanti non conoscono questa letteratura. Queste opere, questo capitolo. Conoscono solo i titoli che arrivano così, all’ultimo momento. Quelli che hanno successo soprattutto. Si dovrebbero analizzare solo sul tema della Shoah almeno oltre 1000 opere.

Giorno della Memoria,  vent’anni dopo, quale bilancio?

Esterina Dana Difficile fare un bilancio. Davanti alla nascita di innumerevoli Giorni della memoria (per le vittime della mafia, delle foibe…) e di numerose strumentalizzazioni a cui assistiamo oggi mi verrebbe provocatoriamente voglia di abolire qualsiasi celebrazione, per non mettere tutto sullo stesso piano e creare confusioni inutili. Il problema è la ritualità condensata in un periodo, mentre se ne dovrebbe parlare in modo diluito nel tempo.
Margherita Dana Noi dell’Associazione siamo riusciti a portare le nostre mostre nelle scuole durante tutto l’anno scolastico, nonostante la prima richiesta sia sempre quella di gennaio.
Susanna Barki Il punto è che siamo un paese strano se per ricordarci delle tragedie abbiamo bisogno di istituire giorni specifici che diventano rituali! Ricordiamo però che quando è stato istituito il Giorno della Memoria, si voleva che ad approvarlo fosse il Parlamento a maggioranza, così come era accaduto per l’approvazione delle Leggi razziali nel ’38. Inoltre, come spiegò il promotore dell’iniziativa Furio Colombo all’epoca, si voleva colmare la totale mancanza dello studio di quel capitolo della storia che all’ultimo anno del liceo non si riusciva mai ad affrontare.
Il problema è che oggi al Giorno della Memoria, il 27 gennaio, si sono aggiunti giorni e giorni di celebratività ridondante, quasi un mese intero… In teoria, noi ebrei avremmo già Yom Hashoah in cui ricordiamo i nomi delle vittime secondo la tradizione ebraica. Fa quindi male vedere molti correligionari che si mobilitano per il 27 gennaio e disertano il Tempio centrale a Yom Hashoah, solo perché dà loro più visibilità!
Per quanto riguarda il Memoriale della Shoah di Milano, in cinque anni di vita le visite sono cresciute esponenzialmente e, anno dopo anno, aumentano i visitatori, soprattutto ragazzi. Molti vengono preparati da insegnanti volonterosi e motivati, ma c’è anche una parte che arriva senza sapere nulla, e spesso abbiamo l’impressione di fare la visita più a beneficio dei docenti che dei ragazzi… Per ciò che concerne le fasce di età, sicuramente i più interessati e i più preparati sono i bambini di quinta elementare: a quell’età non hanno freni inibitori e fanno domande che, quando sono più grandi, non hanno il coraggio di porre. La fascia più problematica è quella delle medie, età già di per sé difficile, che devono essere coinvolte in un dialogo e un rapporto umano.
Infine, per i licei, abbiamo un problema enorme su Milano. Mentre vengono in visita licei e istituti da tutta Italia, così come molti istituti tecnici milanesi, i grandi licei della città, classici o scientifici, non ne sentono la necessità, per la presunzione che “sappiamo già tutto”. Un esempio? Un ragazzo della Comunità ebraica che frequentava il Manzoni aveva dovuto organizzare, con i suoi compagni, una visita extra scolastica perché la docente si era rifiutata di “perdere ore” ad accompagnarli.
Non dimentichiamoci che il Memoriale è un luogo molto evocativo, buio, con il rumore dei treni che passano, emozionale, certamente inadatto a bambini troppo piccoli. Per contro, abbiamo anche incontrato casi didattici estremi: l’insegnante di danza che per il giorno della memoria ha fatto ballare le sue allieve con la stella di David sul tutù o, ancora, una classe che ha messo in scena la vita quotidiana ad Auschwitz, con i ragazzi vestiti da deportati con i pigiami a righe… Non mettiamo in dubbio la buona volontà, ma certo sono progetti che ci lasciano perplessi e che pongono al mondo della didattica della Shoah diverse domande su dove stiamo andando.
Pia Jarach Ci siamo illusi che quel “mai più” ripetuto come un mantra avrebbe protetto e salvato la Memoria. Dove abbiamo sbagliato? Penso che l’errore più grave sia stato quello di non concentrarci sull’elaborazione, di non esserci battuti perché fossero fatti i conti con la nostra storia. L’abbiamo sempre spostata più in là, oltre i nostri confini geografici e interiori. Abbiamo riempito la Memoria di pietre s’inciampo, di targhe, di discorsi, di siti, d’interviste, di mappe, di numeri e di statistiche, di ricerche, archivi e l’abbiamo lasciata lì, fuori da noi. Solo i testimoni non hanno mai smesso d’invitarci a entrare e di riportarci dove la Memoria è viva e c’interroga. Mi sembra che la stessa Liliana Segre stia cercando di mandarci dei segnali molto precisi e forti, sia col suo lavoro in Senato, sia in ogni altra occasione possibile. Ci indica che la Memoria della Shoah deve tornare dentro di noi per poterne elaborare i valori e i disvalori etici di cui è portatrice. Non possiamo più maneggiare le parole malate, misurarci con la vergogna per il Male altrui, con la paura, con l’indifferenza e l’opportunismo senza sporcarci le mani, senza confrontarci con ciò che siamo oggi.
L’elaborazione profonda della Memoria potrebbe aiutarci finalmente a compiere scelte più mature, a tornare a parlare dei nostri diritti, ma soprattutto dei nostri doveri di esseri umani e di cittadini. Come si può far capire oggi il valore della resistenza, della disobbedienza civile, del prezzo che può costare la difesa di un ideale? Come si fa a spiegare che conquiste come la libertà e la democrazia rischiano d’appassire nuovamente se non impariamo a nutrirle e che non basta un click su una piattaforma web per conservarle? Come si fa a spiegare che non è tutto bianco o nero, che la zona grigia di cui parlava Primo Levi ne I sommersi e i salvati è la realtà con cui dobbiamo fare i conti più spesso?
Non credo sia la contiguità col Male assoluto che ci deve preoccupare, quanto il fatto di averlo indagato, studiato, raccontato più come catastrofe storica che non umana. L’approccio scientifico è fondamentale ma sono gli uomini che fanno la storia.

 

Il libro: Il mostro della memoria

Il protagonista è una guida ai lager nazisti, arrivato allo studio della Shoah quasi per caso. Man mano che si legge Il mostro della memoria ci si rende conto che il vero mostro è quello nato dal ricordo dell’orrore nazista, con cui il protagonista ha a che fare quotidianamente per lavoro, e che si presenta nel libro sotto diverse forme: una cerimonia dell’esercito israeliano totalmente fittizia e artificiale nei campi di sterminio, i gruppi di studenti israeliani che visitano Auschwitz, avvolti nelle loro bandiere e cantando canti strappalacrime e l’inno nazionale, ma anche il ministro israeliano che visita Chelmno solo per farsi vedere nelle fotografie nei luoghi dell’orrore. E poi il regista tedesco che, nelle ultime pagine, predilige gli aspetti morbosi della barbarie nazista. Un mostro, quello della memoria, che il protagonista non solo non riesce a sconfiggere, ma che anzi ha la meglio su di lui, risucchiandolo in una spirale di malessere e squilibrio. Un libro molto potente, inquietante e sconvolgente, che fa riflettere sulla strumentalizzazione e banalizzazione della Memoria nella società contemporanea israeliana e non solo. I. M.
Yishai Sarid, Il mostro della memoria, trad. Alessandra Shomroni, edizioni e/o, pp. 135, euro 15,00.