Quando i segreti di famiglia possono rovinarci la vita: intervista a Elisabeth Åsbrink

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di Michael Soncin

Libri / Un passato traumatico, le radici ebraiche nascoste. viaggio alla ricerca dell’identità. parla Elisabeth Åsbrink

Siamo nella Londra degli anni ’30 del secolo scorso. E sulle pagine vediamo scorrere una storia d’amore che inizia con uno scambio di lettere. «È l’incontro tra Vidal, un bellissimo uomo di 38 anni, ebreo sefardita proveniente da Salonicco, e Rita un’immigrata tedesca di origini umilissime, di una decina d’anni più giovane di lui, abbandonata dal padre, un ebreo ungherese sopravvissuto alla Shoah. Tutto comincia quando i due s’incontrano e scoprono che le autorità britanniche si sono sbagliate nello scrivere il loro nome: Vidal diventa Vital, Rita cambia in Rida. Così lui suggerisce ironicamente di fare uno scambio delle due lettere – d e t -, per rimediare agli errori dei burocrati».

 

Da quell’istante scatterà la scintilla che, unendoli, darà alla luce Sally, la madre dell’autrice. A raccontarlo a Mosaico Bet Magazine è la scrittrice svedese Elisabeth Åsbrink, che nel suo ultimo romanzo, Abbandono, tesse le intricate vicende della sua famiglia, indagando sui buchi neri e le zone grigie che la circondano. Un’investigazione che ha avuto inizio trent’anni fa. «Questo libro è diviso in tre parti: inizia a Londra, con mia nonna, l’incontro con Vidal e un matrimonio fra loro impensabile, viste le rigide regole famigliari sefardite di lui; poi Stoccolma, con mia mamma che fugge dall’angosciante clima antisemita londinese; e infine Salonicco, alla ricerca delle antiche radici di mio nonno Vidal».

Radici che affondano nella Spagna medievale del XIV secolo, con l’espulsione degli ebrei. Da quel nefasto anno, il 1492, passando per altre nefandezze, quelle della Shoah, arrivando fino ai giorni odierni, si snoda la saga di questi personaggi. Ma nonostante la narrazione tripartita, Elisabeth sottolinea: «Io la vedo come un cerchio. Nella mia mente, quando si arriva alla fine del libro, si può anche ricominciare. La concezione del tempo non è lineare, ma circolare».

Al centro del romanzo, ambientato nella capitale scandinava, c’è una bambina – la scrittrice stessa – che è una sorta di “guardiana delle parole”, attenta a mai pronunciare termini-tabù onde non scatenare la collera tempestosa della madre. «Sono cresciuta con una mamma molto angosciata per quanto riguarda la mia identità ebraica. Più volte mi disse che non avrei dovuto dire mai e poi mai a nessuno che ero ebrea. Era un segreto, qualcosa di sporco e vergognoso». Un atteggiamento, retaggio di esperienze traumatiche, di violenze fasciste e antisemite. «È di questo che parlo nel mio libro. Sono cresciuta vergognandomi della mia identità. La volevo nascondere. Volevo essere bionda come le ragazze degli Abba, non volevo essere io, ma qualcun altro. Passo dopo passo, poco alla volta, ad essermi d’aiuto è stato uno dei miei amici gay, che ha fatto notare quanto il mio percorso fosse simile al suo. Ho così fatto coming out, dal nascondimento alla rivelazione della mia identità ebraica. Avevo paura, non ero sicura che sarei stata la benvenuta. Oggi in Svezia c’è molto antisemitismo, ci sono neonazisti che manifestano per le strade, immigrati che sono cresciuti in Medio Oriente e che hanno portato l’antisemitismo arabo qui. Ma sai, ho deciso che questa è una parte che mi rappresenta, che non me ne vergognerò più e nessuno mi spaventerà».

La scrittura di Åsbrink trascina. Un romanzo in cui confluiscono diverse fonti d’ispirazione. «Non lo dico perché siamo in Italia, ma considero Primo Levi uno scrittore importante per me. Mi ha ispirata fino da quando avevo 15 anni, per il suo modo di essere sensibile, ma non sentimentale. Ci sono poi anche poeti svedesi come Gunnar Ekelöf (1907-1968) e più recentemente la poetessa polacca Wisława Szymborska».

Quanto all’identità, sebbene secondo l’ebraismo ortodosso lei non possa considerarsi ebrea (sua nonna non lo era ma lo erano il nonno e il bisnonno materni), lei non esita a sentirsi tale. È la sua appartenenza che lei stessa si è scelta, dopo un lungo percorso. «Mia madre lo era solo per metà, io non dovrei esserlo, e tuttavia secondo la logica di Hitler, io sarei considerata ebrea al 75% e di conseguenza sarei stata uccisa, come i nazisti hanno ucciso diversi membri della mia famiglia in Ungheria. Perciò questo è quello che sono io oggi. È una sorta di dichiarazione». Conclude citando le parole del rabbino Menachem Mendel a cui viene attribuito il detto “Niente è più intatto di un cuore spezzato”. «Non sarò io a dare la spiegazione di questa frase, ma lì è contenuta l’essenza della mia risposta. E comunque sì, sono ebrea e sono molto orgogliosa di esserlo».

 

Una delle scrittrici più note di Svezia

Elisabeth Katherine Åsbrink, questo il suo nome per intero, è una tra le penne di lingua svedese più apprezzate. Nata a Göteborg, vive e lavora oggi tra Stoccolma e Copenaghen. Oltre al ruolo di scrittrice, è una nota giornalista, affermatasi anche all’estero per le sue inchieste letterarie di carattere storico e sociale, scrivendo, in particolare in qualità di critica letteraria, per il quotidiano svedese Dagens Nyheter e per il settimanale danese Weekend Avisen.

Riflettendo su quanto già annunciato, uno degli aspetti interessanti di Abbandono è per come è stato strutturato, come lei stessa ha detto, poiché è concepito in un certo senso come la Torah, con una concezione del tempo circolare. Come sappiamo nell’ebraismo è duplice, sia lineare sia circolare. Per certi aspetti il tempo è come se non esistesse come se presente e futuro fosse un tutt’uno. Elena Loewenthal nel saggio Dieci, in cui viene fornita una spiegazione ai famosi comandamenti, scrive: “Secondo la tradizione ebraica, infatti, tutte le anime dei figli d’Israele presenti e future erano al Sinai, ad ascoltare la voce di Dio che dal cielo dettava la Legge. Tutti erano e tutti saranno lì”. Per intenderci meglio aggiunge poi: “La tradizione dice ancora che se il mondo restasse in perfetto mutismo anche solo per un istante, riuscirebbe a sentire l’eco della voce dà la Legge, lassù al Sinai”. Che il tempo non esista o sia in un certo qual modo infinito o una concezione mentale, sebbene i testi antichi ce lo suggeriscano già, ci è stato detto anche dalla fisica.

Albert Einstein con la sua teoria della relatività ha cercato di spiegarcelo, affermando che il tempo è un concetto relativo: “La distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente. Spazio è tempo non sono condizioni in cui viviamo ma modi in cui pensiamo”. Quindi il tempo è un’illusione.

Ma dopo questa divagazione sul tempo, è opportuno mettere in chiaro che questo libro parla delle identità. E quale luogo non le incarna se non Salonicco? Luogo simbolo della multiculturalità, dove la sua storia è stata distrutta per cancellarne il passato. Ricordiamo che durante la II Guerra Mondiale venne distrutto il cimitero ebraico, col fine di cancellare ogni traccia della presenza degli ebrei. «A Salonicco non c’è più nulla, non è rimasta alcuna traccia di tutta la cultura, di tutta la presenza degli ebrei spagnoli, della musica, del cibo, della lingua, della convivenza con musulmani e cristiani. Niente. Era una città bellissima che ha cercato in tutti i modi di cancellare il suo passato. Come la lingua che parlava mio nonno, il ladino, la lingua della sua infanzia, oggi è totalmente sparita, sparita al punto che oggi non ci ricordiamo nemmeno di averla dimenticata, ed è per questo che ho voluto scrivere la terza parte del libro».

«La memoria e i ricordi ci sono anche quanto tentiamo di cancellarli, anche quando tentiamo di sopprimere le parole e la lingua. Il trauma attraversa le generazioni, come anche succede con i bei ricordi, ma il dolore viene trasmesso senza le parole, senza il linguaggio, e quindi quando si tenta di mettere le parole in questi spazi vuoti, quando si tenta di riempirli, allora significa diventare una scrittrice, o perlomeno questo è stato il mio modo per diventare una scrittrice».

La memoria è perciò un tema fondamentale, un tratto caratteristico della sua narrazione, come in un altro libro pubblicato sempre da Iperborea – casa editrice specializzata nella letteratura scandinava – dal titolo 1947, il primo ad essere tradotto in Italia, in cui anche qui storia e vicende famigliari si fondono, portandoci in un anno cruciale del XX secolo: il ’47 l’anno in cui scoppia la Guerra Fredda, l’ONU riconosce lo Stato di Israele, viene redatta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quando viene coniato il termine genocidio.

Un’opera intensa, sublime, che le ha fatto ottenere premi prestigiosi come l’August e un altro riconoscimento dall’Accademia reale svedese delle scienze, il Letterstedska Författar.

Ed infine, per chi volesse conoscere il tessuto sociale e storico dell’affascinante terra nordica, con Made in Sweden. Le parole che hanno fatto la Svezia, Åsbrink unisce il suo talento di scrittrice e giornalista per guidarci da Linneo a Ibrahimović, passando per Pippi Calzelunghe, lungo un racconto in 50 storie senza trascurarne gli aspetti critici: «Amo il paese in cui mi è capitato di nascere, ma non ciecamente».

Elisabeth Åsbrink, Abbandono, trad. Alessandra Scali, Iperborea, pp. 320, € 18,50