Anime, oltre il tempo e lo spazio

Libri

di Esterina Dana

Roy Chen sarà a BookCity Milano 2022, al teatro Franco Parenti il 20 novembre (ore 11.00) e avrà un  secondo incontro, organizzato dalla  Associazione Italia-Israele di Milano e dall’Associazione Italiana Amici dell’Università di Gerusalemme, sempre domenica 20 novembre (ore 18.45) all’Hotel Milano Scala, via dell’Orso 7, Milano.

Teatrale, melodrammatico, potente, il nuovo romanzo di Roy Chen è un mix unico di storia e allegoria. Un’intervista all’autore

«Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira” (J.D. Salinger, Il giovane Holden). È il caso di Roy Chen con il suo Anime, pubblicato da Giuntina.
Nato a Tel Aviv nel 1980, Roy Chen è scrittore, traduttore e drammaturgo. Dal 2007 lavora stabilmente al Teatro Gesher di Jaffa. La sua famiglia paterna è arrivata in Eretz Israel nel 1492 a seguito dell’espulsione dalla Spagna, quella paterna dal Marocco dopo la fondazione dello Stato ebraico. Lasciata la scuola da giovane, Roy ha imparato da autodidatta varie lingue, tra cui il russo, diventando traduttore dall’ebraico di Puškin, Gogol’, Dostoevskij, Cechov, Bunin, Charms. In prosa ha scritto Susey dio, “Cavalli di inchiostro” (2005) e la raccolta di racconti Tel shel Aviv, “Storie di Tel Aviv” (2011). Anime è il suo primo romanzo pubblicato in Italia.

L’ho incontrato su zoom, ma il filtro dello schermo, anziché spegnerle, ha accentuato le sonorità dell’italiano in cui si è svolta la nostra conversazione. «L’ho imparato da solo a Venezia, una città ammaliante, e a Firenze».
«L’idea di questo romanzo è nata 17 anni fa – dice – quando mio figlio è venuto al mondo. Vedendolo, sono stato assalito da domande: da dove veniamo? Arriviamo sulla terra con un bagaglio o siamo tabula rasa? Così ho pensato alla reincarnazione, una visione ottimistica della vita e della morte, perché il pensiero che ‘Qualcuno’ guarda dal cielo e se sbagliamo nella nostra vita, abbiamo un’altra possibilità, non è poi così male». Ma non è Dio. Roy si dichiara ebreo ateo, non è praticante e non frequenta la sinagoga, tuttavia non rinnega tradizione e religione. Per lui il luogo della spiritualità è il teatro, ambito nel quale ha cominciato a lavorare a 19 anni. Il teatro, che lo ha salvato da un’adolescenza disordinata, è una comunità, uno spazio di dialogo e inclusione. La dimensione teatrale caratterizza tutta la prosa di Anime. «Lavoro con la prosa allo stesso modo che con il teatro: mi piace stare in sala con gli attori durante le prove; li ascolto e modifico il testo in corso d’opera con loro e per loro, perché la realizzazione di uno spettacolo è un work in progress collettivo. Quando scrivo è lo stesso: parlo a voce alta con i personaggi come fossero degli attori, li vedo e sento le loro voci».
Fin dalle prime pagine del romanzo emerge il tema della reincarnazione: menzogna o verità? «Quando insegno, spiego che il teatro è finzione, ma se menti con convinzione è verità; lo stesso vale per la narrativa».

Le tappe dell’anima del protagonista, Grisha, a Chorbitza, Venezia, Fez, Dachau, Giaffa non sono casuali; costituiscono la biografia di Roy. In Israele ci sono le sue radici letterarie, in particolare la letteratura russa di cui è traduttore; Chorbitza, epicentro del teatro ebraico, simboleggia la sua passione per il teatro, appunto. «Ho voluto partire dall’episodio biblico di Ester per creare la scena di Purim con un vero palcoscenico e degli spettatori». Venezia è un incantesimo con il suo ghetto, che nel Settecento non aveva funzione segregante; la storia del libro e le sue stamperie, il cimitero, l’acqua della laguna. Dal Marocco provengono le sue radici familiari, i profumi, i suoni, i colori. Ma le reincarnazioni di Grisha nello spazio e nel tempo sono anche una storia di immigrazioni e quindi c’è tutta la storia del popolo ebraico. In quanto tale non poteva mancare un capitolo sull’Olocausto. «Il problema era trovare una formula per parlarne senza dissacrarlo. Ho scelto un’immagine sintetica che ne esprimesse l’assurdo e per questo ho attinto al Dadaismo. A Londra ho visto un Circo delle pulci, un evento culturale nel Novecento. Così, l’ho immaginato in un campo di concentramento a Dachau in Germania nel 1942, dove all’uomo, privato di tutto, restano solo le pulci». Una soluzione surreale: il brevissimo e grottesco monologo di un impresario ebreo, forse Dio stesso; la sua mano è il palcoscenico su cui salta fino alla morte una pulce dall’antifrastico nome di Golia; l’alterazione grafica, la distribuzione e la progressiva evanescenza delle parole sulla pagina a simulare visivamente la sua esibizione e la sua morte.
A una prima lettura del libro, si ha l’impressione di una storia caotica per l’intreccio delle voci narranti e gli spostamenti spazio-temporali, nonché per il rimbalzo di affermazioni e confutazioni. «Scrivo per ordinare il caos. Quando un episodio tragico o spaventoso è vergato sulla carta, il caos si riduce solo a quello spazio; la complessità che caratterizza questo romanzo è limitata dai confini del libro: c’è un inizio, una fine e, in definitiva, una storia piccola, quella di Grisha e Marina, che vivono una vita reale, fatta di banale quotidianità».

L’autore rifugge dall’intellettualismo in nome di una scrittura dilettevole che coinvolga tutti i sensi. «Nella scena di sesso a Fez era importante capire come essere aperto e non volgare. Ho lavorato molto su piccole sfumature, perché il sesso non riguarda mai solo il corpo, che è un veicolo per esprimere qualcos’altro: la ricerca di libertà, la consolazione, la compassione, la morte (la petite mort)».
Sulla copertina del libro c’è un quadro di Pere Borrell del Caso, Huyendo de la critica (Fuga dalla critica). Rappresenta un ragazzo spaventato che cerca di uscire dalla cornice. Se tutto è metafora, allora quel ragazzo è Grisha; e Marina, sorvegliante di un museo, controlla che le pitture non escano dalla cornice, perché un conto è la fantasia, un conto è la vita. È quello che emerge nell’ultimo capitolo di Anime. «Appena ho cominciato a scriverlo sono stato chiamato dall’Ospedale psichiatrico Abarbanel di Bat Yam per realizzare uno spettacolo e ora lavoro con giovani tra i 12 e i 18 anni da più di due anni. Ho scritto un testo teatrale su di loro intitolato Someone like me che è andato in scena nel gennaio del 2020, proprio la settimana in cui Anime è stato pubblicato in Israele. Il clima dell’ospedale è lo sfondo emotivo di questo struggente capitolo. Grisha, sebbene quarantenne, è come quei ragazzi dolenti che giocano pericolosamente con la morte. Il suo monologo rispecchia le problematiche della mia adolescenza». Il suo disincanto sulla reincarnazione che, con disperazione, riconosce come metafora per esprimere la sua incapacità di accettare i cambiamenti, lo distrugge psicologicamente e vuole morire. La madre, che lo ama profondamente, lo accoglie e lo accompagna in tutte le sue peregrinazioni mentali, per insegnargli a vivere. «Vedi – gli dice – come inizia un nuovo giorno, e non sarà il tuo ultimo».

 

Vi presento Grisha, uomo dalle mille vite

Anime di Roy Chen non è un romanzo come tutti gli altri. Eppure, contiene tutti gli ingredienti basilari perché un romanzo sia tale: una storia, un protagonista e un antagonista, una voce narrante, un tema di fondo. Ma l’uso che ne fa l’autore lo rende singolare. La storia si svolge, o sembra svolgersi, nell’arco temporale di quattrocento anni; il protagonista è uno, ma si replica nell’arco della narrazione; la voce narrante si sdoppia tra la prima e la terza persona; il tema di fondo, focalizzato sulla solitudine e la disperazione di chi, smarrito, è alla ricerca della propria identità, si espande a onde concentriche che suscitano domande più complesse sui concetti di menzogna e verità, morte e vita, reincarnazione. A raccontare la storia è Grisha, trentanovenne disoccupato e obeso, fumatore incallito indolente e asociale, incapace di riconoscersi nella realtà che lo circonda. Vive con la madre Marina in una modesta casa di Jaffa, convinto di aver vissuto più vite. All’inizio del XVII secolo è a Chorbitza, una cittadina tra Polonia e Lituania che rimanda all’atmosfera degli shtetel di chagalliana memoria: il suo nome è Ghetz. Nel 1720 è nella lagunare Repubblica di Venezia: si chiama Ghedalia. Nel 1856 a Fez, nella calura dei vicoli della mellah (quartiere ebraico), è Gimol. A Dachau, in Germania, nel 1942, è una pulce, Golia. Parallelamente, però, leggiamo il racconto di Marina che, insinuandosi clandestinamente tra le pagine del libro di Grisha, ci propone una narrativa diversa. Immigrata russa non ebrea, con il suo stentato ebraico decodifica per il lettore i fatti che ispirano la fervida fantasia del figlio, sfatandone la reincarnazione. “A volte – dice, – il nostro corpo mantiene con forza, dentro, cose che erano di prima”, perché “di vita ce n’è una sola, tutto il resto è una metafora”. La sua versione realistica dei fatti diventa pretesto per raccontare l’esperienza traumatica dell’emigrazione. “Emigrare è forse la cosa più simile a quello che Grisha chiama ‘reincarnazione’”, dice. Il conflitto tra madre e figlio, due anime in pena che si contendono l’attenzione dei lettori, innesca il dubbio. Forse quello di Grisha è un viaggio allegorico di stampo dantesco finalizzato alla redenzione. Forse, la reincarnazione simboleggia il passaggio da una fase all’altra della vita: dall’infanzia all’adolescenza all’età adulta, in una successione di morte e rinascita, resa plausibile dall’associazione con la parola hayim, “vita” – in ebraico, maschile plurale – che avvia il romanzo. I Maestri, infatti, parlano di gilgul neshamot, ovvero trasmigrazione delle anime, volto al tikkun, la riparazione delle lacune dell’anima originaria. L’intreccio del romanzo è un rutilante giro di giostra che trascina il lettore in luoghi topici della storia ebraica; forse il gilgul di Grisha simboleggia il destino dell’ebreo errante alla ricerca di una identità. La struttura del testo è geniale. Versatile e sofisticata nel suo percorrere stili e generi diversi su cui prevale indiscusso l’aspetto teatrale, impedisce un inquadramento definitivo del romanzo che è insieme storico e allegorico, surreale e onirico, teatrale e melodrammatico. In questo trambusto, anche emotivo, domina il gusto raffinato e ludico per la parola. L’autore la plasma adattandola ai diversi contesti narrativi usando più lingue, come il russo, lo yiddish, il tedesco, il veneziano, l’arabo, e introducendovi citazioni bibliche e talmudiche. Il romanzo di Roy Chen rimescola la tradizionale forma del testo narrativo e irretisce il pubblico dei lettori, catturandolo nell’alternarsi di realismo e surrealismo, che si negano reciprocamente in un ripetuto effetto di straniamento.
Ma Anime offre al lettore anche una riflessione sulla funzione del narrare. Il continuo passaggio di testimone delle voci narranti; il loro alternato dialogo con i lettori; l’irruzione nel racconto con digressioni, espressioni ironiche, talora caustiche, sono espedienti così espressivi della ricchezza dell’animo umano, che è impossibile abbandonare la lettura di questo poliedrico e affascinante romanzo, dove il mistero si nasconde perfino nell’indice, anzi due, che scansiona le narrazioni dei due protagonisti, ritmandone gli ingressi “in scena”. (E. D.)
Roy Chen, Anime, trad. Shulim Vogelmann e Bianca Ambrosio, Giuntina, pp. 336, euro 19,00.