I bambini di Haretz in fuga dalla Shoah. Un libro ispirato a una storia vera

Libri

di Marina Gersony
Soli, terrorizzati, innocenti e pieni di coraggio: sono i bambini di Haretz e la loro incredibile storia di sopravvivenza nei boschi e nel bel mezzo dell’inverno, esposti al gelo, all’ignoto, inseguiti dai nazisti e i loro cani. Un libro fresco di stampa racconta il viaggio inimmaginabile di un gruppo di bambini in fuga dalla Shoah. Ispirato a una storia vera raccontata da Rosa Ventrella.

(I bambini di HaretzEditore Mondadori. Collana Omnibus italiani. Pagg. 252. € 18,00).


È una bambina, si chiama Margit, Margit Langer, e ha 12 anni. Vive a Blansko, una tranquilla cittadina cecoslovacca adagiata sulle rive Svitava, fiume dell’odierna Repubblica Ceca che attraversa la Regione di Pardubice e la Moravia Meridionale. La sua è una famiglia come tante, unita e serena. Il padre Joseph è un orafo, la moglie Rivka una madre amorevole. Margit ama giocare con il fratellino minore János, pattinare sul ghiaccio, ascoltare musica, dipingere, sognare. La bottega dei Langer è da generazioni il simbolo dell’artigianato ebraico nella città. Ma un giorno l’incanto si spezza, i nazisti invadono Praga e la loro presenza si fa sempre più vicina e minacciosa. Iniziano le persecuzioni contro gli ebrei in un crescendo incalzante: i bambini devono trasferirsi in altre scuole, si vedono le prime stelle gialle spuntare sui cappotti, le vetrine distrutte, i negozi incendiati, i primi rastrellamenti, le svastiche sulle botteghe. Anche quella di Joseph viene marchiata.

I Langer capiscono fin troppo bene quanto sta accadendo, non c’è tempo da perdere. Prima di essere catturati riescono a nascondere i figli dai vicini, i signori Roth. Ma anche quella si rivela una soluzione temporanea: proteggere gli ebrei è proibito, «Verboten», chiunque viene sorpreso ad aiutarli rischia la vita, la fucilazione. È così che i signori Roth, con animo lacerato, sono costretti a lasciare andare i due bambini e consegnarli all’ignoto nel bel mezzo dell’inverno. «Andate verso Ovest, la Svizzera, dovete raggiungere la Svizzera». Margit – l’io narrante nel romanzo – non ha certo idea di dove sia la Svizzera, l’ha vista solo una volta a scuola, un minuscolo puntino sulla carta geografica.

Immaginate due fratellini soli in quella situazione da incubo, costretti a vagare per i campi e le foreste della Boemia. Margit è spaesata, terrorizzata. E poi deve proteggere il fratellino, rassicurarlo. I due piccoli superano la strada e si tuffano nel fitto dell’erba. È buio, si alza il vento, un vento sferzante e gelido. Come difendersi dagli animali notturni o accendere un fuoco per non morire congelati? Da dove vengono quei suoni spaventosi di cani abbaianti? E quelle torce sempre più vicine che fendono il buio? Cosa sono quelle grida incomprensibili? Così dure e gutturali? Sono loro, i terribili nazisti, che pattugliano la strada con i loro cani spaventosi? Quanto sarebbe passato prima di riuscire a scappare da quel branco di mostri pronti ad agguantarli?

Il lettore ricorderà forse un’altra storia per alcuni versi simile, evocata in diversi romanzi da Aharon Appelfeld, il grande scrittore israeliano scomparso nel 2018.  Nato in Bucovina del Nord, allora in Romania, sopravvissuto all’Olocausto in cui perse la madre e i nonni, Appelfeld ha raccontato l’esperienza traumatica di lui bambino costretto a vagare da solo per tre anni nei boschi, sopravvivendo e mangiando quel che gli offriva la natura, con il terrore di essere acciuffato in quanto ebreo, in preda agli incubi, a gentaglia e a criminali che aveva definito «la mia seconda scuola». («Lì ho imparato la generosità, l’odio, la brutalità, tutti i sensi dell’essere umano»).

Una storia, quella dei bambini di Haretz, sotto alcuni aspetti simile a quella di Appelfeld, dicevamo. Ma con un colpo di scena inaspettato, ossia quando Margit e János incontreranno altri piccoli orfani come loro, determinati ad attraversare l’Europa alla ricerca della salvezza. Si forma di così un gruppetto capitanato dal quindicenne Frantz, cuore grande e carisma da capobranco: è l’inizio di un viaggio che durerà diversi anni, durante i quali i sei ragazzini impareranno a cacciare, a fabbricarsi ripari di fortuna e a proteggersi reciprocamente, proprio come una vera famiglia. Un cammino destinato a concludersi in Italia, in una dimora sulle Alpi bergamasche, a Selvino, dove un gruppo di militanti della Brigata ebraica sta accogliendo centinaia di bambini sopravvissuti alla guerra e ai campi di sterminio, per restituire loro l’infanzia perduta e traghettarli verso Haaretz Israel.

«Affidare il racconto alla giovane Margit mi è sembrata la scelta più ovvia – osserva Rosa Ventrella – tanto che a un certo punto sentivo davvero che questa ragazzina cecoslovacca rimasta sola al mondo a badare al suo fratellino János guidasse la mia penna. Ho scoperto questa storia per caso leggendo un giornale locale, ma ho capito immediatamente che si trattava di una storia straordinaria, perlopiù abbastanza sconosciuta. Ho voluto saperne di più e con l’aiuto di amici giornalisti mi sono mobilitata per capire da dove poter iniziare per raccogliere testimonianze. Scrivere questo romanzo è stato un lavoro lungo, complesso in termini di ricostruzione storica, straziante, ma nello stesso tempo la definirei l’esperienza più entusiasmante che abbia mai vissuto come scrittrice».

(Intervista integrale: https://www.mondadori.it/voce-all-autore-mondadori/scrivere-i-bambini-di-haretz-rosa-ventrella/).