Rav Riccardo Di Segni: l’ebraismo su Clubhouse

Eventi

di Paolo Castellano

Lo scorso maggio, il Rabbino Capo di Roma Rav Di Segni ha partecipato a un’iniziativa interreligiosa organizzata sul neonato social network Clubhouse dal giornalista e conduttore radiofonico Giorgio Dell’Arti. In tale contesto, è stata aperta una room Clubhouse dove – uno alla volta – si sono ritrovati i rappresentanti del mondo cattolico, musulmano ed ebraico.

Mosaico – Bet Magazine ha intervistato Rav Di Segni per comprendere quanto sia efficace utilizzare gli strumenti digitali per promuovere il dialogo e in senso più ampio il dialogo interreligioso.

Come si è svolta l’iniziativa “interreligiosa” sul Clubhouse e qual è il suo giudizio in merito?
In senso generico l’iniziativa di Clubhouse può essere chiamata un evento di dialogo interreligioso. In realtà Clubhouse è una nuova forma emergente di social network, che si basa soltanto sulla voce, dentro cui si aprono delle stanze (room) per ospitare periodicamente degli incontri. Un formula nuova, molto interessante, che però deve essere capita nella sua struttura. Soprattutto è difficile identificare nella qualità e nella qualità gli ascoltatori presenti, che ogni tanto desiderano fare delle domande.
È certamente una forma di dialogo simile a quella che abbiamo con le persone nella quotidianità. Mentre per dialogo interreligioso di solito si tratta di un incontro tra rappresentanti religiosi – per esempio un rabbino e un prete che interagiscono – che si scambiano idee e opinioni su un tema religioso e così via.

L’iniziativa di Clubhouse alla quale ho partecipato non aveva nulla di ufficiale e non c’erano esponenti di altre religioni. Si è trattato semplicemente di un luogo in cui un rabbino presentava alcuni aspetti della sua tradizione e gli ascoltatori facevano domande e mettevano in discussione quello che era stato rappresentato. Quindi non è stata una forma di dialogo tra esponenti religiosi, ma un’interazione tra un esponente religioso e gente che ascoltava. Da quello che si è capito, la grande maggioranza dei partecipanti alla diretta audio non era uniforme, ma apparteneva a tutti gli schieramenti ideologici e culturali possibili; c’erano persone che erano semplicemente incuriosite dal fatto ebraico e altre che erano informate, che avevano fatto studi teologici poiché facevano domande molto precise.
L’argomento che mi è stato affidato è stato un argomento che mi ha un po’ sorpreso e preoccupato sin dall’inizio perché si trattava di parlare di D-o. Come gli ebrei sanno, noi parliamo poco di D-o e siamo cauti persino a nominarLo. Ho fatto presente che già la domanda iniziale aveva una sua complessità, come fosse stata elaborata in un’altra lingua culturale.

Ho partecipato a un ciclo di 5 incontri, ogni incontro aveva una durata di un’ora e si svolgeva alle 11.30 di mattina. Durante gli eventi su clubhouse, ho fatto un mio intervento per una mezzora, per lasciare spazio alla “pioggia” di domande che si riferivano a quello di cui avevo parlato o di altre cose che rappresentavano la curiosità degli ascoltatori. Il più delle volte ci si è soffermati su quello che avevo detto.
Durante il ciclo di incontri, ho parlato di come D-o compare nelle pagine della Torah e quindi ho raffrontato il doppio aspetto del D-o della creazione, e la spiegazione dei nomi di D-o. In tutto questo, ho scoperto che c’erano persone molto informate che facevano ulteriori domande. Poi ho approfondito i colloqui delle persone con D-o. Quindi ho parlato dei colloqui di Abramo e ho parlato dell’episodio del roveto ardente. E, poi ho citato l’episodio di Elia che fugge nella caverna e incontra D-o nel silenzio.
Loro volevano che parlassi di D-o e io di questo ho parlato, con tutte le difficoltà che noi ebrei abbiamo nell’affrontare questo argomento. Certamente sarebbe stato più semplice spiegare lo Shabbat o la Kasherut.

 

In base a questa sua esperienza, crede che gli strumenti i social media possano contribuire al rafforzamento e alla sensibilizzazione del dialogo interreligioso?
Questa esperienza specifica a cui ci riferiamo è quella di un rabbino che spiega a un pubblico di varia provenienza, di vario livello di informazione, alcuni aspetti dell’ebraismo. Quindi è una forma di conoscenza, di chiarimento e anche di scambio di esperienza perché ascoltando le domande, le perplessità e tutto quello che le persone dicono si capisce il mondo da cui provengono e le complessità di questo mondo – è stata anche una bella constatazione il fatto di sapere che intorno all’ebraismo esiste una grandissima curiosità.
Chiaramente non tutte le persone sono interessate all’ebraismo, ma molte persone lo sono e con sete bevono le informazioni che noi diamo. Quindi c’è un’importante attenzione al nostro mondo che va completamente al di fuori dell’attenzione politica e ideologica.
Quando noi facciamo informazione abbiamo proprio questo problema, soprattutto come rabbini, ci poniamo tale quesito: c’è una tale dispersione nel mondo ebraico che comunicare l’ebraismo agli ebrei è una norma fondamentale, ma affianco a questo c’è un grande interesse nel contesto non ebraico di grande rispetto. Almeno determinati discorsi potremmo condividerli col mondo in generale.

 

Quali sono gli aspetti su cui insistere per far crescere il dialogo interreligioso?
Innanzitutto esistono tante religioni – ciascuna con i suoi problemi e le sue sensibilità. Non esiste un unico dialogo religioso, ma esistono tanti dialoghi religiosi. Io ho avuto esperienza di tutti i forum possibili e immaginabili in cui si svolgono vari tipi di dialogo. Il tema principale è quello del rispetto reciproco, di abbassare le barriere dell’ostilità: tutte cose estremamente importanti. Con alcuni mondi religiosi è facile ottenerle, con altri è più difficile. Per esempio, non esiste nelle religioni una comunità unica. Come nella Chiesa cattolica dove è presente un significativo ventaglio di diversità. Lo stesso si può dire di altre confessioni protestanti in Italia. Per non parlare poi della complessità estrema del mondo islamico. Le grandi ammucchiate delle religioni che vengono fatte secondo alcuni modelli diventati oggi tradizionali non permettono di raggiungere significativi risultati concreti ma certamente servono per dare un segnale di vicinanza. Più che le cerimonie che servono per farci stare vicini e conoscerci, è più utile un dialogo specifico e personale.

 

Foto: Rav Riccardo Di Segni ( grazie a Shalom.it)