Amazzoni ebree nella Parigi degli anni folli

Arte

di Viviana Kasam

Una straordinaria mostra a Parigi, al Musée du Luxembourg, “Pionnières. Artistes d’un nouveau genre dans le Paris des années folles” – espone le opere e racconta le vite delle artiste che animarono la Parigi degli anni folli, tra il 1918 e il 1931, donne che con la loro spregiudicatezza, il loro talento, il desiderio di sfidare le convenzioni, proposero modelli alternativi di femminilità. Alcune sono note al grande pubblico, come Natalia Gontcharova, Marie Laurencin, Sonia Delauney, Tamara de Lempicka, ma la maggior parte furono riconosciute solo nella ristretta cerchia in cui operavano e poi dimenticate.

Era ora che qualcuno le riscoprisse, perché siamo di fronte a grandi talenti, ma anche a personaggi che sembrano appartenere alla cultura femminista e transgender di oggi – a testimonianza che l’arte precede i cambiamenti socio-culturali.

Tra queste artiste, parecchie sono ebree, giunte a Parigi, che era allora la città più cosmopolita del mondo, da ogni parte d’Europa e d’America, alla ricerca di affermazione artistica ma anche di liberazione dalle rigide regole religiose. Amazzoni androgine e rivoluzionare, spesso vestite in abiti maschili, i capelli tagliati alla maschietta, alcune già si definivano “fluide” di genere, bisessuali, o addirittura assumevano nomi e identità maschili.

Uno dei pregi della mostra è di presentarle nel loro talento poliedrico, al di là dei generi artistici consolidati, esponendo quadri, disegni, sculture, ma anche opere di artigianato, film, marionette, bambole, fotografie, capi di moda. E non solo di artiste europee, ma anche provenienti dal Sudamerica, dall’Africa, dalle Indie.

La più trasgressiva è Claude Cahun, nata Lucy Schwob a Nantes, nipote dello scrittore Marcel Schwob, scrittrice, giornalista, fotografa, nota per i suoi provocatori autoritratti di identità sessuale indefinita, giocati sull’idea del doppio attraverso la riflessione in uno specchio. Il suo pseudonimo, Claude, in francese può essere sia maschile che femminile. Viveva a Montparnasse con la sua compagna Suzanne Malherbe che si faceva chiamare Marcel Moore.
Impegnata nella Resistenza, fu arrestata dalla Gestapo che distrusse buona parte dei suoi lavori. Sopravvisse alla guerra, ma fu a lungo dimenticata. È stata riscoperta negli ultimi decenni, come icona del femminismo più trasgressivo.

Gisèle Freund, figlia di un ricco collezionista berlinese, è nota per le sue fotografie dei grandi personaggi della cultura, da Virginia Wolf a James Joyce, da André Malraux a Marguerite Yourcenar, da Sartre a Aldous Huxley, Boris Pasternak… Impegnata nel partito comunista, scappò da Berlino a Parigi nel 1933. Dopo la guerra si traferì in Sud America, prima in Argentina, da dove dovette scappare per un clamoroso servizio su Evita Peròn e la sua passione per il lusso, poi in Uruguay.
Sospettata dagli americani di comunismo, fu costretta a lasciare l’agenzia Magnum, per la quale lavorava e proseguire come free lance. Tornata in Francia, le fu conferito il Grand Prix National des Arts nel 1980. Riposa ora, come molti artisti suoi amici, nel cimitero di Montparnasse.

Meno nota, ma altrettanto talentuosa, Alice Halicka, nata in una famiglia di professori universitari ebrei in Polonia e trasferitasi a Parigi per diventare artista. Frequenta Maurice Denis, Georges Braque, Max Ernst, Leonard Fujita e espone al Salone degli Indipendenti dove viene notata da Guillaume Apollinaire. Dopo una fase cubista, comincia a produrre opere in stoffa e passamaneria che vengono collezionate da Helena Rubinstein, Paul Poiret, Gertude Stein. Durante l’Occupazione tedesca è costretta a fuggire con il marito Louis Marcoussis, che muore nel 1941. Lei sopravvive fino al 1975, continuando a viaggiare in Estremo Oriente e America.

Marevna (il cui vero nome è Marie Vorobieff) è figlia di un aristocratico polacco e di una attrice ebrea russa. Cresce nel Caucaso, poi a Tbilissi e a Mosca. Nel 1911 incontra a Capri Maxime Gorki, che crea il suo nome d’arte, e ne sposa il figlio. Costretta a lavorare per mantenersi dopo la morte del padre, si afferma come ritrattista, con uno stile molto particolare che combina influssi cubisti e pointillisti, ma disegna anche sciarpe a motivi georgiani che mandano in visibilio il celebre sarto Poiret. Nel 1915 incontra Diego Rivera, il grande amore della sua vita, con il quale ha una figlia, che fu allieva di Isadora Duncan. Una vita da romanzo, che raccontò nella sua autobiografia, Mémoires d’une nomade, in cui evoca le difficoltà cui vanno incontro le artiste donne.

Mela Muter, polacca, famiglia della buona borghesia ebraica, conquista Montparnasse appena si trasferisce a Parigi, dove stringe amicizia con Romain Rolland, Albert Gleize, Georges Clemenceau, Erik Satie, Maurice Ravel, che posano per lei. E negli anni ’20 si lega sentimentalmente con il poeta Rainer Maria Rilke, di cui viene considerata la musa.

Più nota al grande pubblico e già acclamata in vita, Chana Orloff nasce in Ucraina da una famiglia ortodossa, che si rifugia in Palestina per sfuggire ai pogrom. Si mantiene come sarta, e un fratello l’aiuta a emigrare a Parigi, dove scopre la scultura. Espone al Salon d’Automne, nella celebre galleria Bernheim Jeune e si lega con il gruppo degli artisti ebrei presenti a Parigi. L’Occupazione nazista la costringe a scappare in Svizzera, e al ritorno in Francia, nel 1945, la sua scultura Le retour viene giudicata universalmente come la più sconvolgente immagine della Shoah. Nel 1949 si installa di Israele, dove diviene una celebrità, e contribuisce alla creazione del Museo di Tel Aviv, che le dedicherà una personale nel 1968. Ma Chana non riuscirà a vederla: viene a mancare pochi giorni prima dell’inaugurazione, a ottant’anni. La mostra del Luxemburg è costellata dalle sue meravigliose opere, molte della quali esplorano l’identità femminile ribelle alle convenzioni, simboleggiata dell’amazzone.

Ebrea ucraina era anche la celebre Sonia Delaunay, nata Sara Élievna Stern, che insieme al marito Robert Delaunay elaborò la teoria del simultaneismo, una corrente artistica basata sul potere costruttivo e dinamico del colore in forme astratte. Come spesso succede, in vita fu poco riconosciuta, in secondo piano rispetto alla celebrità del marito. Ma le sue bellissime opere, che nulla hanno da invidiare a quelle di Robert, sono state rivalutate e sono oggi esposte nei principali musei del mondo.

Molto esotica la vita di Amrit Sher-Gil, spesso ritratta in bellissimi sari. Nasce a Budapest da un padre aristocratico sikh, conoscitore del sanscrito e del persiano, e da una madre ebrea ungherese cantante d’opera, che era stata dama di compagnia di una principessa indiana. Vive tra Budapest, Parigi e l’India, dove si trasferisce definitivamente a metà degli anni ’30, per ritrovare le sue radici. Le sue opere spoglie, introspettive, influenzano generazioni di artisti indiani.

È interessante scoprire questa realtà femminile ebraica spesso misconosciuta. Ma la mostra, che rimarrà aperta fino al 20 luglio, vale la pena di essere vista ben al di là dell’appartenenza religiosa e culturale di molte delle protagoniste. Per la qualità straordinaria delle opere, la modernità dei temi, l’esistenza spericolata delle protagoniste, che ebbero il coraggio di sfidare le convenzioni, credere nel proprio talento e vivere secondo le proprie inclinazioni e convinzioni.

 

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Alice Halicka, Le baiser de la fée, setting for Act III, 1940, opaque watercolor, 47.7 x 55.5 cm, Fine Arts Museums of San Francisco, © ADAGP, Paris