di Ilaria Myr
Hanno fra i 18 e i 35 anni. Alcuni hanno studiato alla scuola ebraica, altri nelle scuole pubbliche. Alcuni hanno frequentato l’Hashomer Hatzair o il Benè Akiva, altri nessun movimento giovanile. Alcuni sono religiosi, altri più tradizionalisti, altri ancora del tutto secolarizzati. Molti sono cresciuti con il “mito” del centro sociale ebraico Maurizio Levi, decantato dai loro genitori come luogo di aggregazione di tutti gli ebrei di Milano, ma in prima persona non ne hanno mai visto uno. Tutti, però, concordano su una cosa: scarseggiano le attività organizzate dalla Comunità ebraica di Milano per la fascia 18-35 anni, quell’età-limbo fra l’adolescenza e la vita adulta, in cui si comincia a dare una direzione concreta al proprio futuro, studiando o lavorando, pensando magari anche a mettere su famiglia.
Una volta finito il liceo e ormai fuori dai movimenti giovanili, i ragazzi ebrei a Milano si trovano così senza alcun polo aggregativo e attività – a parte quelle organizzate da diversi gruppi autonomi interni – dove potere conoscere anche altri coetanei, stringere belle amicizie e, magari, chissà, trovare anche l’anima gemella. Perché, sebbene la comunità non sia molto grande e fra di noi ci si dica che “ci conosciamo tutti”, in realtà non è poi così vero: chi ha studiato alla scuola ebraica vorrebbe conoscere “facce nuove”, mentre chi ha frequentato scuole esterne, ha contatti con ragazzi ebrei solo se ha alle spalle anche un’esperienza in un movimento giovanile, dove ha creato amicizie che spesso durano anche dopo, durante gli anni dell’università e nell’età più adulta. Chi poi ha avuto pochi legami con la comunità durante l’adolescenza, ha maggiori difficoltà a mettersi in contatto con altri ragazzi. Per non parlare poi degli ebrei di altre comunità o stranieri, israeliani in primis, che vengono a studiare a Milano, città sempre più attrattiva e internazionale: riuscire a intercettarli e coinvolgerli nella vita comunitaria sarebbe un arricchimento per tutti. (Vedi anche l’articolo All’ombra del Duomo: come vive uno studente israeliano a Milano, Bet Magazine luglio 2021, ndr).
Eccoci dunque nel merito di uno dei temi più attuali e urgenti della nostra comunità, che anche nell’ultima campagna elettorale è stato al centro delle proposte delle liste candidate, e che è uno dei grandi obiettivi della lista Beyahad e del neoeletto assessore ai giovani Ilan Boni (vedi intervista nelle pagine successive). Ma cosa vogliono davvero i giovani? Quanto davvero hanno voglia di conoscersi fra loro, andando al di là delle diversità di pensiero? O quanto, invece, riflettono fra loro la polarizzazione e la frammentazione che purtroppo caratterizzano questa comunità? Lo abbiamo chiesto ad alcuni di loro.
Al di là delle divisioni interne
«Fra noi giovani non c’è la “guerriglia” che c’è invece fra gli adulti in comunità. Sicuramente c’è molto più rispetto reciproco. Ho degli ottimi ricordi dei miei anni passati a scuola ebraica con i miei compagni, e con alcuni di loro mantengo ancora belle amicizie, anche se abbiamo opinioni e percorsi diversi. Quindi no, tra noi non si riverberano le divisioni interne, e anzi, ci piacerebbe superarle. Ma se fra gli adulti c’è un clima così divisivo e di scarso dialogo, certo questo non giova anche a noi, perché alla fine si creano pregiudizi reciproci». Daniele Panzieri, classe ’96, ha studiato per tutti gli ordini di studio alla Scuola ebraica, frequentando anche l’Hashomer Hatzair.
I suoi amici sono i suoi “chaverim” del movimento, ma è ancora molto legato ad altri compagni del Bené Akiva, e sarebbe interessato a partecipare, se ci fossero, a delle attività indirizzate a tutti i giovani della comunità.
La pensa così anche Marta Borsetti, anche lei 25enne, che usa parole ancora più dure, spingendosi anche più in là. «Purtroppo lo spettacolo a cui ci hanno abituato i politici negli ultimi anni è stato molto sconfortante: proprio chi dovrebbe indirizzarci alla convivenza e al rispetto reciproco dà invece un pessimo esempio, generando fra i giovani anche disinteresse nei confronti della vita comunitaria. Lo dimostrano anche le ultime elezioni: molti della mia cerchia non hanno votato, perché scoraggiati. “Tanto a cosa serve”, si sono detti. E questo è un vero peccato, anche perché in questa comunità noi ci viviamo e in un futuro vorremmo anche farci crescere i nostri figli».
Un centro sociale in stile Maurizio Levi?
Appurato, dunque, che la volontà di conoscere e frequentarsi fra giovani ebrei è forte e va al di là di qualsiasi differenza, è importante capire quale sia la formula giusta per rispondere alle loro esigenze. Una possibile è sicuramente quella di un luogo d’inconttro fisico, una sorta di centro sociale nello stile di quello che fu il Maurizio Levi, in cui tutti i giovani ebrei di Milano potevano recarsi per attività culturali, giocare a carte, fare sport, ballare, giocare a calcetto, mangiare un falafel, guardare film, festeggiare un compleanno o un bar-mitzvà, studiare o semplicemente passare del tempo insieme. «Mi piacerebbe molto che ci fosse un luogo fisico dove incontrarsi – spiega Julian Etessami, classe ’99, studente di medicina al quarto anno, ex B.A. -. Si dovrebbe però cercare di coinvolgere più gente possibile a frequentarlo, senza che diventi solo punto di riferimento per gruppi ristretti. Ci vorrebbe qualcuno che faccia in modo di garantire l’eterogeneità nella frequentazione, con attività diverse che siano attrattive per tutti. Iniziative digitali? No, meglio quelle reali».
La pensa così anche la sua coetanea Micol Sioni, che però, per la propria fascia di età, è molto disillusa. «Quello che manca per i giovani è un centro sociale, qualcosa che li riunisca tutti, come succedeva ai tempi dei miei genitori. Ma penso che dalla mia età ci sia poco da fare: molti sono andati all’estero a studiare, e quelli che ci sono difficilmente parteciperebbero alle attività…».
Dagli anni gloriosi del Maurizio Levi, però, di acqua ne è passata sotto i ponti: la comunità è cambiata e la vita di tutti è profondamente diversa. E, ça va sans dire, i giovani in primis sono profondamente differenti dai loro coetanei di 40 anni fa: molto meno politicizzati e contrapposti fra loro, sempre connessi grazie alle tecnologie e aperti al mondo.
Per questo c’è chi vorrebbe, accanto a un luogo fisico, anche eventi organizzati in diversi luoghi della città. «Sarebbe un’occasione per conoscere anche altri locali, per fare feste o aperitivi – commenta Sara Galante, classe 2000 – con altri ragazzi ebrei della Comunità e anche stranieri che vivono a Milano».
Ma c’è anche chi considera che l’opzione “centro sociale” non sia adatta ai reali bisogni dei giovani e che non sarebbe un investimento utile da parte della Comunità. «Abbiamo ritmi di vita troppo serrati fra studio e lavoro, e ormai, essendo in molti usciti dalla casa dei genitori, siamo molto più di prima sparsi nelle diverse zone della città – spiega Marta Borsetti –. Penso quindi che sarebbe più utile e stimolante organizzare di volta in volta attività in altri luoghi, anziché sempre nello stesso, così conosceremmo anche posti diversi».
Il ruolo centrale della CEM
Indipendentemente dalla formula – centro sociale o eventi in città – un fatto è certo: devono essere organizzate delle iniziative che possano aggregare le diverse anime giovanili ebraiche, al di là delle differenze, e che siano vicine al loro mondo.
Ben vengano dunque tornei sportivi, eventi di cucina, gite fuori porta, trekking, e anche appuntamenti culturali, certo, in cui però si favorisca lo scambio reciproco. A organizzarli dovrebbe essere qualcuno, delegato dalla Comunità, che sia trainante, che conosca bene le esigenze di questa variegata fascia di età e che prenda spunto dalle loro idee, magari coinvolgendoli direttamente anche nella creazione.
Ma non solo. «La comunità ebraica dovrebbe fare percepire ai giovani l’importanza e i benefici di vivere in comunità, anche fornendo supporto nella costruzione del loro futuro, che molti vedono incerto, e questo oggi non avviene – spiega Davide Fiano (classe ’97) -. Ad esempio, fornendo strumenti per lavorare su queste incertezze, con incontri con professionisti o corsi di tecnologia. Solo così la Comunità si affermerebbe come polo che fornisce reali opportunità in cui un giovane può crescere».