Africa: dieci comunità ebraiche unite per combattere la fame

di Sonia Colombo
A Mbale, in Uganda, la comunità ebraica di Abayudala ha dato vita ad un progetto innovativo di agricoltura data-driven: un’agricoltura guidata basata su dati scientificamente provati, con l’intento di salvare gli ebrei dell’Africa subsahariana dalla fame e renderli indipendenti dagli aiuti umanitari, restituendo loro la dignità. Al momento fanno parte di questo progetto le comunità ebraiche di 10 paesi africani; tutte insieme si riuniscono all’interno della Sub-Saharan African Jewish Alliance (SAJA), condividono sistemi di coltivazione all’avanguardia e cercano di sopperire ai fabbisogni alimentari della popolazione.

L’innovativo progetto agricolo della comunità ebraica Abayudaya

Tutto inizia nel 2021 in Uganda, con un allevamento pilota di pollame: l’AMC Pilot Broiler Farm, Quell’anno viene acquistato dalla comunità ebraica un terreno di 6 ettari, dove i pulcini sono seguiti nei loro movimenti dal loro primo giorno di vita e tutte le loro attività vengono inserite in un foglio di calcolo. Dopo soli due anni, grazie a questo progetto pilota, le condizioni di vita e di sostentamento della comunità sono notevolmente migliorate, anche perchè circa il 10% del pollame viene donato ai bisognosi. Inoltre sono progredite le tecniche di coltura all’interno dei terreni coltivabili della AMC farm, con l’intento ultimo di creare una fattoria commercialmente redditizia.

Secondo una recente indagine del 2023 sulla povertà globale, operata dalle Nazioni Unite, 534 milioni su 1,1 miliardi di persone che vivono in in una drammatica condizione di povertà, provengono dall’Africa Subsahariana e naturalmente anche le comunità ebraiche che vivono in quell’area del globo non ne sono immuni. L’innovativo progetto agricolo nato in Uganda grazie all’intuito della comunità ebraica Abayudaya ha perciò incuriosito la redazione di Time of Israel che si è recata sul luogo per saperne di più.

Gli artefici dell’allevamento pilota: Sam Muwalani e Allan Zilaba hanno dichiarato a questo proposito:  “Ispirandoci ai valori ebraici, mettiamo in grado le persone in condizioni di povertà di essere più autonome e autosufficienti”. Secondo i due ideatori infatti, ogni comunità ebraica africana ha una storia unica e deve affrontare problemi di diverso genere: dalla persecuzione alla mancanza d’istruzione, ma tutte condividono la necessità di sopperire alla malnutrizione. A questo proposito Modreck Maeresra della comunità ebraica dello Zimbabwe ha dichiarato in una recente videochiamata al Time of Israel “ Volevamo quindi condividere le nostre esperienze con l’idea di unirci, assisterci a vicenda e sviluppare comunità ebraiche africane più forti, ma poi abbiamo riscontrato che l’altro problema dell’Africa subsahariana è quello della scarsità di cibo“.

Mark Gelfand: mecenate del progetto

Ma come potevano le comunità ebraiche subsahariane farcela da sole? Avevano bisogno di qualcuno che credesse nel loro progetto e hanno trovato il loro mecenate in un fisico ed imprenditore sociale ebreo di Boston, ormai in pensione: Mark Gelfand, il quale ha rivelato a Times of Israel di voler aiutare le comunità ebraiche perché potessero diventare autosufficienti e connesse tra loro, quindi unite per combattere un problema che le accomuna. Gelfand aveva già maturato un’esperienza a carattere agricolo in Etiopia, purtroppo fallita in parte a causa del Covid. Il visionario imprenditore e filantropo ha incitato il SAJA, quindi la Sub-Saharan African Jewish Alliance, con le seguenti incisive parole: “Iniziate con il cibo. Fate in modo che tutti non abbiano fame. Cominciate da lì. E poi metteremo una mezuzah nella fattoria. Da lì cresceremo”.

E grazie all’aiuto di Gelfand le 10 comunità ebraiche del SAJA (Madagascar, Camerun, Nigeria, Etiopia, Gabon, Costa d’Avorio, Zimbabwe, Kenya, Tanzania e Uganda) sono cresciute. Quattro di loro hanno iniziato a realizzare degli importanti progetti agricoli e l’Uganda è già alla fase 2 dell’allevamento pilota: quest’inverno è prevista la costruzione di numerosi pollai, di un magazzino e di un ufficio amministrativo, corredato da un centro scientifico. I giornalisti di Time of Israel, visitando la fattoria e il terreno, hanno visto alcuni abitanti del villaggio che lavavano i panni nel vicino ruscello, appezzamenti di coltivazione semipermanente che potrebbero essere anche venduti  per incrementare il fatturato e poi ancora trattori adibiti all’aratura e un centro di noleggio di attrezzature edili. Anche se storicamente la comunità degli Abayudaya si è sempre distinta nell’agricoltura, per la prima volta, utilizzando dati e metodologie scientifiche all’avanguardia, sta raccogliendo i suoi frutti.

Uganda e Zimbabwe: le radici ebraiche di due comunità all’avanguardia

Questa è una svolta storica per una comunità come quella ugandese degli Abayudaya, fondata nel 1919 da un ex capo militare, Semei Kakungulu, cresciuto come pagano, poi convertitosi al cristianesimo e infine, grazie alla lettura della Bibbia, diventato ebreo. Molti membri della comunità sono stati convertiti all’ebraismo da alcuni rabbini statunitensi, ma la loro appartenenza religiosa non è stata, almeno per ora, riconosciuta dal rabbinato israeliano, così come non è stato ancora esaudito il desiderio di molti di loro di emigrare in Terra Santa. La loro storia è controversa e colma di conflitti, infatti l’appartenenza ebraica della comunità ugandese, già negli anni ’70, è stata ostacolata dall’ex presidente Idi Amin, il quale ha distrutto le sinagoghe, ha proibito ai membri degli Abayudaya di praticare l’ebraismo e li ha costretti a convertirsi al cristianesimo o all’islam, ma 300 membri hanno resistito e ora la comunità conta 3000 membri, che vivono insieme a persone di altre religioni.  Infatti i giornalisti di Time of Israel, visitando i villaggi di Muwalani e Zilaba, hanno riscontrato che la maggior parte dei suoi abitanti vive a stretto contatto con cristiani, musulmani ed ebrei.

Sam Muwalani e Allan Zilaba hanno raccontato la loro storia e quella dei loro villaggi: il primo, oltre ad essere il direttore finanziario dell’innovativo progetto agricolo, è un contabile, vive a Namanyonyi, a due passi dalla sinagoga e la sua famiglia fa parte degli Abayudaya fin dall’inizio. Lui però si è convertito ufficialmente all’ebraismo solo nel 2001. Sua moglie è un medico e sognano di realizzare una clinica.

Zilaba, nonostante il nonno sia stato un seguace del fondatore degli Abayudaya è cresciuto in una casa cristiana, poi, grazie a degli zii ebrei, ha recuperato le sue radici, nel 2005 si è convertito all’ebraismo ed è stato nominato capo della sua sinagoga. Essendosi laureato in in amministrazione pubblica e gestione,  è il presidente del progetto agricolo.

I due ideatori intendono utilizzare i proventi dell’iniziativa agricola per garantire la sicurezza alimentare alla loro comunità e in seguito vorrebbero, con gli introiti, finanziare l’istruzione e la sanità del loro Paese. Per loro è necessario non restare isolati e incrementare l’interazione con le comunità ebraiche estere e questo è possibile solo tramite l’organizzazione SAYA.

La sinagoga degli Abuyadaya

Anche la comunità ebraica dello Zimbabwe ha una storia insolita, infatti  Modreck Maeresra, a capo anche della sinagoga Harare Lemba, ha rivelato al Times of Israel che la tribù dalla quale discende la sua comunità ha delle radici storicamente ebraiche. Ha infatti dichiarato: “ Siamo venuti dallo Yemen nel 730 d.C, poi siamo arrivati in Africa e da allora siamo rimasti qui. La nostra cultura è caratterizzata da tradizioni ebraiche e noi ci siamo sempre identificati come ebrei.“ Riguardo all’interazione tra le varie comunità, ha aggiunto con un sorriso: “ Mentirei se dicessi che tutto va bene e che tutti riconoscono la storia di ogni comunità, ma stiamo imparando ad accettarci a vicenda.” Secondo  Maeresra la sfida per gruppi di persone che provengono da contesti diversi è

lavorare insieme e da quando hanno iniziato a riunirsi grazie al SAJA, lentamente le tensioni sono diminuite, perchè il desidero di porre fine alla fame della loro gente è più forte di ogni contrasto. Ha inoltre aggiunto che a causa del cambiamento climatico, la siccità e la mancanza di cibo li portavano ad essere dipendenti dagli altri Paesi; gli aiuti e le donazioni impigrivano i membri della comunità, stavano perdendo l’etica del lavoro. Maeresra ha quindi aggiunto: “Ora ci stiamo risvegliando, stiamo producendo e quando arriva lo Shabbat lo si accoglie perchè ci da la possibilità di riposarci. Quando riposi tutta la settimana togli il significato allo Shabbat”. Quello che le comunità ebraiche subsahariane vorrebbero acquisire, grazie agli innovativi progetti agricoli, è la capacità di lavorare per loro stessi, di produrre per coprire interamente o quasi il fabbisogno dei membri della comunità e quindi conquistare o riconquistare il bene più prezioso: la loro dignità.