Kiev: gli ebrei tra due fuochi

Mondo

di Anna Lesnevskaya, da Mosca

«Ho una paura innata di qualunque tipo di nazionalismo. In Galizia, che all’epoca faceva parte della Polonia, i miei bisnonni sono stati sgozzati dai nazionalisti». Yulia Grishchenko, Rabbino capo della comunità Reform di Odessa, spera che presto le piazze della sua città si plachino, allontanando il suo antico terrore. Non solo nel porto sul Mar Nero – una volta centro di una vivacissima, fiorente e ricca comunità ebraica, popolato oggi da circa 30 mila ebrei -, ma anche ovunque in Ucraina, la tensione tra Mosca e il nuovo governo di Kiev ha resuscitato le peggiori preoccupazioni della Comunità ebraica. Mentre lo stillicidio di aggressioni contro gli ebrei negli ultimi due mesi ha spinto le sinagoghe e altre istituzioni ebraiche del Paese a rafforzare le misure di sicurezza. La memoria storica degli orrori del passato non è mai scomparsa. Durante la Shoah sono morti un milione e 500 mila ebrei ucraini, più della metà della popolazione dell’attuale territorio della repubblica ex-sovietica. Ora, dopo, l’aliyà di massa o l’esodo verso gli Usa, con l’avvento della Perestrojka, in Ucraina sono rimasti circa 300 mila ebrei, secondo i dati del Vaad ucraino. Una cifra ancora imponente, che fa di quella ucraina una delle più numerose e importanti Comunità del mondo.

Gli ebrei ucraini sono stati da sempre vittime dei pogrom. Proprio Odessa, un secolo fa, ne ha conosciuto uno dei peggiori: nell’ottobre del 1905, 400 ebrei furono uccisi dai membri dell’organizzazione russa nazionalista e antisemita, le Centurie nere. Si incolpava la popolazione ebraica di aver scatenato e pilotato la Rivoluzione del 1905. Dietro ogni cambiamento politico, dietro ogni situazione di disagio sociale, in Ucraina, le teorie antisemite del complotto hanno sempre coinvolto le Comunità. Sta accadendo puntualmente anche questa volta.

«Sui mezzi pubblici e gli autobus di Simferopoli, in Crimea, si parla male degli ebrei, e tutti ripescano i soliti vecchi schemi di pensiero: dicono che sono gli ebrei la mente che si cela dietro le proteste di piazza Maidan a Kiev», racconta Mikhail Kapustin, Rabbino della comunità riformata della città della Crimea. Nella penisola sul Mar Nero, i Reform prevalgono su altre correnti del giudaismo, diversamente dal resto del Paese, dove la comunità più forte è invece quella dei chassidim Chabad-Lubavitch. Il 28 febbraio scorso sono state proprio le porte della sinagoga Reform di Simferopoli, quella del rabbino Kapustin, ad essere imbrattate da svastiche e da una scritta antisemita: “Morte agli zhid (parola dispregiativa che indica gli ebrei e considerata un grande insulto, ndr)”. «È una provocazione che vuole coinvolgere gli ebrei nel conflitto tra gli ucraini e i filorussi», commenta il rabbino.

Parola d’ordine: diffidare

Ancor prima che la Crimea, col referendum del 16 marzo, decretasse a maggioranza bulgara (97 per cento) la volontà di annessione alla Russia, Kapustin ha deciso che presto avrebbe fatto le valigie: «Non mi piace quello che sta succedendo qui. Voglio portare la mia famiglia in un posto sicuro il prima possibile».

La penisola, oggi al centro del conflitto tra Mosca e Kiev, negli Anni Venti del secolo scorso sembrava una terra promessa per gli ebrei ucraini. Grazie all’aiuto economico del Joint Distribution Committe e col benestare del Pcus, si sono sviluppate in queste zone delle comunità agricole in stile kolkhoz o kibbutz, nelle quali si trasferivano gli ebrei vittime dei pogrom. Tra di loro c’era anche il nonno di Anatolij Gendin, presidente dell’Associazione delle organizzazioni e delle comunità ebraiche della Crimea. È stato lui a scoprire le scritte antisemite sulla sinagoga riformata di Simferopol e a notare sul nastro della video-sorveglianza che a compiere l’atto è stato un giovane incappucciato. Alle 4 del mattino aveva scavalcato l’inferriata per poi tracciare i graffiti razzisti sulla sinagoga. «Dei gruppi estremisti stanno cercando di fomentare il conflitto razziale tra i nostri popoli. Ma non ci sono riusciti. In tanti mi hanno contattato offrendo di dare una mano per ripulire le porte della sinagoga», racconta Gendin che ha accolto con soddisfazione i risultati del referendum per l’annessione della Crimea alla Russia. «Nessuno mi convincerà che il leader del partito ucraino Svoboda, Oleg Tyagnibok, non è un antisemita. Sta cercano di dimostrarsi tollerante per non perdere gli elettori», sostiene Gendin, diffidente verso il nuovo governo di Kiev.

Il leader di Svoboda, una delle forze presenti nella protesta di Piazza dell’Indipendenza a Kiev (Maidan Nezalezhnosti), è noto per le sue frasi xenofobe. Oltre al partito Svoboda, che nel 2012 è entrato nel Parlamento ucraino, alle proteste di piazza Maidan ha partecipato anche un altro movimento nazionalista, il Settore Destro (Pravyj sektor). Tuttavia il suo portavoce, Artem Skoropadskij, ha negato in un’intervista ogni accusa di xenofobia: «Siamo contro il liberalismo radicale dell’Europa, la socialdemocrazia, il razzismo e l’antisemitismo. Siamo cristiani e nazionalisti».

Elezioni a maggio

Eduard Dolinskij, il presidente esecutivo del Comitato ebraico ucraino, organizzazione creata dalla comunità imprenditoriale per contrastare l’antisemitismo, prende con una certa cautela le dichiarazioni del Settore Destro (Pravyj sektor): «A maggio ci saranno le elezioni presidenziali e in seguito anche il voto per eleggere il nuovo Parlamento. Non escludiamo che nel corso della campagna elettorale gli slogan antisemiti possano riemergere». Per quanto invece riguarda il partito Svoboda di Tyagnibok, il Comitato ebraico ucraino ha più volte espresso preoccupazione per il suo ingresso nel Parlamento.

«Svoboda richiama l’antisemitismo nel suo programma elettorale», commenta Dolinskij. Rimane tuttavia scettico riguardo alle accuse di xenofobia contro piazza Maidan e il nuovo governo di Kiev, reiterate dal presidente russo, Vladimir Putin: «In Ucraina gli antisemiti ci sono, ma le dichiarazioni della Russia sulla discriminazione degli ebrei da parte del nuovo governo sono ridicole e senza fondamento».

Le aggressioni

Infatti, come spiega lo stesso Dolinskij, rimane tutt’ora ignota l’appartenenza politica delle persone che negli ultimi mesi hanno effettuato gli attacchi contro gli ebrei nella capitale ucraina. L’11 gennaio scorso, nell’androne del suo palazzo è stato pestato un insegnante di lingua ebraica, cittadino israeliano, pedinato mentre rincasava, dopo essere stato alla sinagoga di Rozenberg, nota anche come sinagoga Podol, in via Shchekavitskaja. Qualche giorno dopo, il 18 gennaio, vicino alla sinagoga è stato aggredito un talmid-yeshivà, uno studente di yeshivà, cittadino russo, Dov-Ber Glickam, 30 anni, che è stato ferito con un coltello. Infine, alla vigilia del referendum in Crimea, una coppia di coniugi è stata assalita per strada da un gruppo di giovani e salvata solo grazie a un taxi che stava transitando da quelle parti e che l’ha portata fin dentro la sinagoga. In seguito a questi attacchi, il Comitato si è rivolto al governo israeliano e alle organizzazioni ebraiche internazionali, chiedendo di rafforzare la guardia di sicurezza delle sinagoghe e di altri luoghi frequentati dagli ebrei.

La nota dolente è che è quasi impossibile verificare la totalità delle aggressioni antisemite in Ucraina. «Non c’è un sistema di monitoraggio, né un corpo di polizia speciale che si occupi dei delitti a sfondo razziale. Conosciamo solo i casi che coinvolgono gli ebrei iscritti alla Comunità, mentre tanti altri episodi possono rimanere nell’ombra perché non vengono denunciati», spiega Dolinskij.

«La comunità ebraica in Ucraina è stata usata dalla propaganda russa», ha dichiarato il Rabbino capo di Kiev, Yaakov Dov Bleich, nel corso di una conferenza stampa al Palazzo di Vetro di New York. «Per 22 anni ci siamo sentiti al sicuro in Ucraina», ha detto il rabbino, aggiungendo: «I russi dicono che sono venuti a proteggerci? La Comunità ebraica non ha bisogno della loro protezione». Dov Bleich ha sottolineato quindi che la questione «non è cosa farà l’Ucraina, ma cosa farà Mosca».

In un appello al presidente Vladimir Putin, nel quale gli si chiede di non intervenire in Ucraina, la Comunità ebraica di Kiev si era chiaramente schierata dalla parte di piazza Maidan e contro Yanukovytch, negando qualsiasi coinvolgimento degli attivisti “rivoltosi” negli attacchi antisemiti. Al contrario, invece, proprio i media russi filo-Cremlino insistono nel definire i manifestanti dei “fascisti” o dei “nazisti”. «Maidan è uno spazio di dignità e di libertà. Erano gli attivisti stessi a presidiare le sinagoghe per evitare attacchi», racconta Leonid Finberg, presidente del Centro giudaico presso l’Accademia Mohila. Sua moglie Elena, un medico, anche’essa ebrea, ha fatto la volontaria nell’ospedale improvvisato per curare gli attivisti feriti.

Nuove ingiurie

Un altro volto di “piazza Maidan” lo racconta Stanislav Kraslavski, imprenditore ebreo, originario di Dnepropetrovsk nell’Ucraina orientale ma che vive in Italia. Un suo caro amico ebreo si è offerto di fare il volontario nella cucina sociale improvvisata in piazza per dare aiuto ai manifestanti. «Quando si è presentato, gli hanno chiesto se era ebreo e quando ha detto di sì, gli hanno risposto che quella non era una rivoluzione per gli zhijd», spiega Kraslavski. Teme, però, che gli ebrei possano subire delle persecuzioni soprattutto nell’Ucraina Orientale, «per mano dei banderovtsy”. Quest’ultimo è il termine usato dai filorussi per definire tutti i nazionalisti ucraini. Nasce dal nome dei seguaci di Stepan Bandera, il padre fondatore del nazionalismo ucraino e dell’Esercito insurrezionale che collaborò con i nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Durante la rivolta di Kiev è stata coniata, ancora, un’altra parola rimbalzata sui social network, zhidobanderovtsy. Come dire il non plus ultra dell’ingiuria. Unisce un riferimento offensivo per gli ebrei a quello verso i nazionalisti ucraini. La usano i filorussi per indicare i “responsabili” della rivolta, ma anche, parlando di sé ironicamente, gli stessi ebrei che hanno partecipato alle proteste di piazza.

Inutile dire che il mondo ebraico riflette, anche in questo caso, le contraddizioni delle posizioni presenti nel Paese. Un Paese, quello ucraino, spaccato tra voglia di Europa e vecchio attaccamento russo con, a dominare su tutto, un fitto intreccio di potenti interessi economico-militari.

In piazza, insieme agli altri

Ma torniamo alla cronaca. Va detto ancora che, forse casualmente, tra le persone che sono morte nel corso degli scontri del 19 e 20 febbraio 2014, colpite dai cecchini, c’erano anche tre ebrei. Tra di loro, Aleksandr Shcherbanjuk, 46 anni, che apparteneva alla comunità giudaico-messianica di Cernovtsy, nell’Ucraina occidentale. La segretaria della Comunità Beit Simcha, Aljona, che conosceva Aleksandr, racconta che era partito per Kiev ai primi di gennaio per sostenere i manifestanti contro Yanukovytch. Ci andò insieme a un suo amico, prete ortodosso, per pregare e portare i testi sacri a chi si trovava in piazza. È stato colpito al cuore da un cecchino e sepolto con la kippah in testa e con l’elmetto di protezione che indossava sopra la papalina, insieme alla maschera antigas, il tutto riposto compostamente nella bara. Ha lasciato un figlio che frequenta la scuola ebraica della città, mentre sua figlia ha già preso la maturità. «A Cernovtsy, come altrove, gli antisemiti ci sono sempre stati, non è che sia cambiato qualcosa con la vittoria della rivolta», commenta Aljona della Comunità Beit Simcha.

Tra i manifestanti c’era anche un’ex ufficiale di Tsahal, un ebreo ortodosso, che guidava un gruppo di 30 persone. Lo sostiene Josif Zisels, presidente del Vaad dell’Ucraina, che dice di conoscerlo personalmente, anche se non può svelare il suo nome.

Ai tempi dell’Unione Sovietica, Zisels era uno dei leader ucraini del Movimento ebraico ma anche del Movimento dissidente: oggi è convinto che «le aggressioni antisemite a Kiev sono delle provocazioni organizzate dai servizi russi e dal presidente destituito dell’Ucraina, Viktor Yanukovytch, per destabilizzare la situazione e screditare prima l’opposizione e ora il nuovo governo di Kiev». Lo stesso Zisels cerca di sfatare lo stereotipo secondo il quale i nazionalisti ucraini sono atavicamente e storicamente nemici degli ebrei. Ricorda l’aiuto reciproco che si sviluppava tra i prigionieri politici ucraini e gli ebrei, tra i quali c’era anche lui, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, durante la stagnazione sovietica di Breznev e Andropov. La lotta contro il governo sovietico, che reprimeva qualsiasi forma di nazionalismo, aveva avvicinato gli attivisti ebrei alla popolazione ucraina. Tanto che, alla prima grande manifestazione nella cava di Babij Jar, nei pressi di Kiev (qui durante l’occupazione tedesca furono uccisi e ammassati più di 100 mila ebrei), a pronunciare il discorso più significativo è stato proprio un critico letterario e dissidente ucraino, Ivan Dzjuba. Nel 1966, nella ricorrenza dei 25 anni dell’eccidio, circa 2 mila persone si sono radunate, senza autorizzazione, nella cava ancora piena di ossa mescolate con il fango del cantiere spuntato lì per cancellare la memoria della tragedia. Rivolgendosi alla folla, Dzjuba disse: «Babij Jar è una tragedia di tutta l’umanità, ma è accaduta sulla terra ucraina.

Per questo motivo, un ucraino non ha il diritto di dimenticarla, così come non ne ha un ebreo.

Babij Jar è una nostra comune tragedia, fa parte della memoria del popolo ebraico e di quello ucraino, insieme, uniti».