Europa, che fine ha fatto la libertà di parola e di pensiero?

Mondo

di Ester Moscati

Dopo l’omicidio di Samuel Paty e le stragi a Nizza e Vienna, un’inchiesta-dibattito. Parlano Ernesto Galli Della Loggia e Stefano Levi Della Torre, Pierluigi Battista e Carlo Rovelli, Paolo Flores d’Arcais, Corrado Augias, l’Imam Nader Akkad… Il vecchio continente non sa più come reagire agli attacchi (violenti) ai suoi valori di tolleranza e rispetto, laicità e libertà di espressione. Un momento difficile per la convivenza civile che ha però risvegliato gli intellettuali e il confronto delle idee

Ore 9.00, lezione di laicità: il professor Samuel Paty entra in aula nella scuola Bois d’Aulne di Conflans Sainte Honorine, tranquilla cittadina vicina a Parigi, con un fascio di riviste sotto braccio. Sono copie di Charlie Hebdo, il giornale satirico che ha pagato, nel gennaio del 2015, un prezzo altissimo per la libertà di espressione, con il massacro di gran parte della sua redazione per mano di terroristi della branca yemenita di Al Qaeda: dodici morti e undici feriti. La libertà di espressione è il tema della lezione che questo insegnante di storia e geografia vuole proporre ai suoi studenti. Chiede agli alunni musulmani di non guardare se pensano di restare turbati dalle vignette sul Profeta. Ma non basta. Viene denunciato per “islamofobia” e parte contro di lui una campagna d’odio che armerà la mano del 18enne rifugiato ceceno Abdullakh Anzorov: ha decapitato Samuel Paty per strada, il 16 ottobre, davanti alla scuola.

C’è un altro caso che ha preso di mira la libertà di parola, quello di Mila. Una ragazzina di 17 anni che vive, da mesi ormai, minacciata e sotto scorta, protagonista di quello che in Francia è noto come l’Affaire Mila: ha osato criticare l’Islam su Instagram, in un messaggio scambiato con un ragazzo musulmano che le stava facendo proposte non gradite. Per toglierselo di torno, gli aveva detto di essere gay; il ragazzo aveva reagito con un insulto. A quel punto Mila si è arrabbiata e gli ha risposto male, offendendo l’Islam. Risultato: è stata colpita da una fatwā, una condanna a morte per lei e la sua famiglia, ma anche da una denuncia penale per “odio etnico”. Ha dovuto cambiare scuola, perché è stato difficile trovare un liceo che ne garantisse la sicurezza.

Due eventi questi che raccontano il clima avvelenato che in Europa serpeggia da tempo ma ora si sta caricando di una potenza deflagrante. Una decapitazione rituale in strada è un messaggio agghiacciante, tuttavia non nuovo: il 2 novembre 2004 ad Amsterdam il regista Theo Van Gogh fu vittima di una fatwā legata alla pubblicazione del suo cortometraggio Submission. L’assassino sparò a Van Gogh otto volte, poi gli tagliò la gola e coprì il suo petto con volantini inneggianti alla guerra santa contro i crociati e gli ebrei. Nel 2013 toccò a Lee Rigby, un soldato inglese di 25 anni, decapitato in strada a Londra da due fanatici islamisti. Ed è stato sgozzato anche padre Jacques Hamel, 86 anni, il parroco della chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray, vicino a Rouen, nel 2016.

Ma c’è da dire che l’assassinio di Paty ha suscitato un’onda emotiva davvero molto forte in Francia, oltre che per il metodo barbaro anche perché sono stati coinvolti diversi adolescenti: l’assassino, 18 anni; gli studenti, 13 e 14 anni, che hanno denunciato Paty alle famiglie e all’imam integralista della moschea locale, innescando una bomba mortale.

Una grande manifestazione a Parigi ha fatto da cornice alla reazione degli intellettuali. «Di primo acchito – ha detto Bernard-Henri Lévy – ho pensato subito a Daniel Pearl perché, diciotto anni fa, è stato il primo di questa lugubre serie di decapitati da Al Qaeda, poi Stato Islamico». Il giornalista ebreo americano era stato ucciso in Pakistan dopo essere stato costretto a dire alle telecamere “Io sono ebreo”, quasi fosse una confessione e un atto di accusa. Del resto il mondo ebraico è da tempo in prima linea sia come bersaglio a volte occasionale sia come target mirato; mondo ebraico non solo come termostato della temperatura di un clima sociale ma come parte più esposta e dolorante di quello stesso corpo sociale. Basti pensare agli omicidi in Francia di Ilan Halimi, Mireille Knoll, Sarah Halimi, inermi vittime di un odio insensato e incontenibile. Già numerose volte le autorità ebraiche avevano lanciato l’allarme.

Nel suo saggio Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa (Giuntina), Rav Jonathan Sacks z’l aveva scritto: “Gli intellettuali hanno dovuto affrontare reazioni straordinariamente violente alla loro opera. La controversia sopra I versi satanici (di Salman Rushdie, 1989) ha portato all’assassinio del traduttore giapponese, all’accoltellamento del traduttore italiano, agli spari contro l’editore norvegese e alla morte in un incendio di 35 persone, ospiti a un ricevimento per la pubblicazione del libro in Turchia. (…) Fino a quando le nostre istituzioni mondiali non prenderanno una posizione contro l’insegnamento e la predicazione dell’odio, tutti i loro sforzi di diplomazia e di intervento militare saranno destinati a fallire. In definitiva, la responsabilità è nostra. Il mondo di domani nasce da ciò che insegniamo ai nostri figli oggi”.

Bernard-Henri Lévy ha scelto di condannare l’omicidio del professor Paty con un appello ai musulmani di Francia: «C’è un errore morale dal quale è indispensabile tenersi lontani: cedere alla logica mostruosa di associare tutti i musulmani confondendoli in un’unica esecrazione – ha scritto nel suo appello rilanciato in Italia da Repubblica. – Un altro errore è quello secondo cui l’assassinio di Samuel Paty non avrebbe niente a che vedere con l’Islam». Il filosofo ebreo francese ha quindi esortato i musulmani a isolare i fanatici integralisti, a gridare forte: “Non in mio nome!”. «Chi può rivolgersi a quegli adolescenti oscurantisti per dire che esiste un Islam bello, amico della libertà di pensiero e della legalità, che nobilita i cuori? Questo compito spetta, che lo si voglia o meno, ai miei fratelli in Abramo».

A questo punto, la sensazione che qualcosa stia sfuggendo di mano si è fatta sempre più diffusa. Pochi giorni dopo il barbaro omicidio di Paty è seguita la strage nella cattedrale di Nizza, il 30 ottobre: altri morti, altre decapitazioni. E dopo la Francia, è toccato all’Austria. Vienna, il 2 novembre: attacchi multipli, indiscriminati, morti e feriti nel cuore dell’Europa. Come a dire che oramai non c’è solo l’attacco mirato contro chi osa nominare l’Islam e il Profeta; ma tutti, indistintamente, i “crociati” e gli “infedeli” possono diventare un obiettivo sensibile dei terroristi islamici.

Dalla Turchia, il Presidente Tayyip Erdogan intanto incita al boicottaggio della Francia come reazione alle parole del Presidente francese Emmanuel Macron, che ha dichiarato di volere rafforzare la separazione fra Stato e religioni, all’indomani della decapitazione di Samuel Paty. Il 26 ottobre ad Ankara Erdogan ha lanciato un appello inquietante: «Contro i musulmani d’Europa è in corso una campagna di linciaggio simile a quella condotta contro gli ebrei europei prima della Seconda guerra mondiale», suscitando l’indignazione di Israele e delle comunità della Diaspora per un paragone antistorico e assurdo.

Autocensura: un comodo alibi?

In Europa, ormai, la libertà di espressione – se è sull’Islam che ci si vuole esprimere – è fortemente condizionata, tanto da avviare, sempre più spesso, meccanismi di autocensura, adesione al politicamente corretto, paura di essere tacciati di “islamofobia” e di subirne le conseguenze. È una paura umanissima, visto ciò che può accadere a ciascuno di noi, per strada, a Parigi come a Nizza, Londra o Vienna, e che è successo a Samuel Paty.

Ma è una scelta inammissibile quando viene presa dalle istituzioni, come è avvenuto in Francia nel caso Ilan Halimi, il ragazzo rapito, torturato e ucciso da islamici solo perché ebreo. La polizia escluse nelle indagini la matrice antisemita e l’origine araba dei rapitori, proprio per non essere tacciati di “islamofobia”; questo comportò ritardi ed errori che impedirono di fatto la possibile salvezza del giovane Ilan.

Il presidente francese Emmanuel Macron ((Foto: CC-BY-SA, GNU Free Documentation License, Wikimedia Commons)La paura di incorrere nell’accusa di “islamofobia”, soprattutto in Francia con il suo passato coloniale e i milioni di immigrati nordafricani, ormai cittadini di terza e quarta generazione, è diventata paralizzante. Una nuova stagione di “terrore” che Emmanuel Macron sta cercando di superare con la chiarezza delle parole pronunciare alle esequie del professore decapitato: «La Francia – ha detto – non rinuncerà alle caricature e ai disegni; difenderà la libertà che il professor Paty ha insegnato così bene e promuoverà la laicità. L’insegnante è diventato il volto della Repubblica: continueremo questa lotta per la libertà e per la ragione, di cui ora è l’immagine».

Parole che sono costate a Macron la condanna del mondo islamico dal Bangladesh all’Indonesia alla Turchia; “è un nemico dei musulmani” hanno gridato nelle piazze (con l’eccezione della Tunisia e degli Emirati: il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed al-Nahyan, in una telefonata con il presidente francese Emmanuel Macron, ha condannato i recenti attacchi in Francia e ha respinto qualsiasi giustificazione per la violenza e il terrorismo).

Le questioni sul tappeto sono tante e intrecciate tra loro: come difendere i valori della laicità dello Stato e della libertà di espressione? Come reagire al fondamentalismo religioso rispettando le minoranze e le diverse culture e sensibilità che in Europa convivono?

Le voci degli intellettuali

Sono numerose le voci degli intellettuali che, anche in Italia, in queste settimane, rimbalzano dalle pagine dei giornali o si confrontano in discussioni sui social network e sui media. Rispondendo a un lettore, il giornalista Corrado Augias nella sua rubrica Lettere (La Repubblica, 1 novembre) scrive: «L’ex primo ministro malese Mohamad Mahathir ha twittato che i “musulmani” hanno “il diritto di essere arrabbiati” e di “uccidere milioni di francesi”. Questa rivendicazione brutale è il cuore della tragedia. I musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati per le irridenti vignette sul Profeta pubblicate su un giornaletto satirico? Personalmente credo di sì. Vedere deriso un proprio simbolo di riferimento è irritante. Tanto più lo è in una condizione generale di insufficiente acculturazione dove la religione è un punto quasi esclusivo di riferimento e d’identità. Dall’irritazione a “uccidere milioni di francesi” non c’è però alcuna continuità che non sia quella primitiva che se mi irrito, se mi sento ferito nell’onore, perdo il controllo, tiro fuori un coltello e uccido». Bisognerebbe quindi porsi dei limiti? Non sarebbe meglio se quelli di Charlie Hebdo si dessero una regolata? «Non sono d’accordo. – continua Augias – Non tanto in nome dei principi di libertà che da un paio di secoli sono a fondamento della civiltà occidentale; nemmeno per ragioni pragmatiche dettate dalle circostanze. Mi preoccupa il principio: se accettiamo che la libertà di satira abbia un limite, chi stabilirà dove si colloca il confine?».

cartello con la scritta Je suis SamuelA Radio Radicale un dibattito (qui il video)  su “Il fondamentalismo religioso dopo gli ultimi fatti di Parigi”, promosso da Daniele Nahum, ha visto l’intervento, tra gli altri, del giornalista del Corriere della Sera Pierluigi Battista: «Una decapitazione rituale nel cuore della Francia è un avvenimento del tutto irriducibile a qualunque altro tipo di fondamentalismo religioso contemporaneo – ha detto -. C’è una specificità del fondamentalismo islamico, che comporta anche la persecuzione in molti Paesi degli intellettuali musulmani più moderati. Si deve essere intransigenti sulla libertà di parola e di pensiero. I media sembrano assuefatti alle violenze liberticide del terrorismo islamico in Europa, come dimostra la scarsa copertura data alla notizia dell’assassinio di Samuel Paty. Mentre è confortante la difesa intransigente della libertà d’espressione come valore fondamentale e irrinunciabile delle nostre società, tracciata da Emmanuel Macron nell’orazione funebre per il professore ucciso».

Macron ha difeso infatti la laicità e finanche il diritto alla blasfemia, con chiaro riferimento sia all’Affaire Mila, sia alle vignette del giornale satirico francese Charlie Hebdo.

Anche la blasfemia è un diritto?

Ma se la laicità, la libertà di parola, di pensiero e di espressione, anche artistica e satirica, sono diritti e valori riconosciuti da tutti, almeno in Occidente; non sono valori, allo stesso modo, il rispetto per l’altro, per la sua sensibilità e le sue idee? E che dire della blasfemia? In Italia, fino al 1999 la bestemmia era un vero reato (cioè aveva conseguenze penali); oggi è un illecito amministrativo ma comunque è stigmatizzata dal sentimento popolare. Qual è il limite allora?

«Per quanto riguarda la “Liberté” – spiega a Bet Magazine lo studioso e filosofo Stefano Levi Della Torre, autore di Laicità, grazie a Dio (Einaudi) – non sono mancati quelli che hanno affermato che la satira non deve avere “limiti”. In verità, la satira non è esente da responsabilità etiche e politiche. Anche la satira deve decidere se risponde solo a se stessa, come un atto narcisistico, o si assume la responsabilità degli effetti che produce». Levi Della Torre indica l’obiettivo strategico che dovrebbe guidare il pensiero occidentale: aiutare il mondo islamico a isolare al suo interno il fondamentalismo e il terrorismo. Creare cioè un muro di separazione tra l’Islam moderato e quello violento e aggressivo. «La libertà, compresa quella della satira, è responsabile, non irresponsabile. Occorre difendere e affermare con fermezza la libertà di espressione, ma è profondamente stupido incentivare il vittimismo di cui si avvalgono gli jihadisti nel loro disegno di egemonia islamistica». Torna il tema dell’autocensura. Per alcuni è una limitazione alla libertà di espressione, per altri una forma di rispetto e presa in carico di valori diversi ma rispettabili.

Paolo Flores D’Arcais, fondatore e direttore di Micromega, la più diffusa rivista di filosofia politica in Italia, già all’indomani della strage di Charlie Hebdo si interrogava sulla libertà di espressione. «La laicità è una cruciale questione politica», disse, e per quei valori repubblicani e illuministi di cui la laicità è espressione, «a governare la convivenza non può essere un principio che viene dall’alto, ma quello dell’autos nomos, ovvero del darsi le regole da sé. Se si mette in discussione questo, si mette in discussione il principio della libertà di espressione e prima ancora della libertà di coscienza». L’autocensura, il limitarsi nella propria espressione critica o nella satira, non dovrebbe però essere, mai, motivata dal timore i ritorsioni inaccettabili, dalla paura di essere bersaglio di violenza, ma solo dal rispetto dovuto alle altrui sensibilità.

Oggi, dopo la decapitazione di Samuel Paty, il filosofo Carlo Rovelli scrive: «Non penso che debbano esserci leggi che vietano di pubblicare questo o quello. Ma penso che offendere, e poi – dopo essersi resi conto che offendere ferisce delle persone –, continuare ancora a offendere non sia un comportamento né apprezzabile, né ragionevole. Dobbiamo vivere insieme su questo pianeta. Non possiamo farlo rispettandoci?». Lo stesso Flores d’Arcais replica a Rovelli: «Cinque anni fa ho sviluppato queste idee scrivendo La guerra del Sacro – terrorismo, laicità e democrazia radicale, spinto dalla mattanza islamica dei redattori di Charlie Hebdo. Già allora fornivo una documentazione purtroppo assai ampia sulla sharia come legislazione di fatto, vigente in zone sempre più ampie dei ghetti delle metropoli europee a prevalente immigrazione islamica. Da allora le cose sono molto peggiorate. E chi si permette di criticare/offendere l’islamismo (che è una ideologia politica) o la religione islamica viene accusato di islamofobia. Ma l’islamofobia è legittima quanto ogni altra teofobia o ierofobia, o quanto l’ateismofobia di tante religioni. Che deve riguardare le fedi, le dottrine, le idee, mai divenire violenza e offesa contro gli esseri umani che tali fedi o idee condividono».

Ecco, che cosa è legittimo e cosa non lo è? L’islamofobia può essere davvero un reato? Deve invece l’Europa, di fronte agli attacchi violenti ai suoi valori, rivendicare con forza il diritto ad esprimere ogni opinione, ogni critica, anche attraverso la satira più irridente e blasfema? Dice a Bet Magazine Ernesto Galli Della Loggia: «Io sono contrario all’idea di perseguire qualsiasi opinione. Anche le idee più crude, le più inverosimili, le più assurde e feroci non devono essere sanzionate. Parlando del reato di blasfemia, chi decide che cos’è offensivo o no? Per i musulmani tutto è offensivo, anche una critica. Se io dico che l’islamismo disprezza le donne, questa è un’offesa religiosa? E se dico una cosa su Maometto? È molto complicato stabilire dove inizia la critica legittima e dove finisce l’offesa. Dovrebbe essere forse un giudice a stabilire che cosa è offensivo per un musulmano? Un giudice ateo magari? In base a quale criterio? No, sono i fatti a dover essere sanzionati, non le opinioni».

Hanno collaborato Paolo Castellano e Francesco Paolo La Bionda

 

L’Imam Nader Akkad: «La libertà è importante
ma c’è anche la fratellanza. Le parole sono pietre»

«La libertà è sacrosanta – spiega a Bet Magazine l’imam di Trieste Nader Akkad, anch’egli intervenuto nel dibattito a Radio Radicale – La libertà è uno dei pilastri su cui si fonda la Repubblica di Francia. Ma ce ne sono altri due: la fraternità e l’uguaglianza. In particolare la fraternità ci induce a valutare che esiste una “responsabilità della parola”. La libertà di stampa è una grande libertà a cui corrisponde una grande responsabilità. Ad Assisi abbiamo firmato il Patto per il giornalismo responsabile. Le parole possono essere pietre e fare male. Se diamo valore alla fraternità, dobbiamo dire che non si scagliano pietre contro un fratello. Ovviamente questo non significa che l’uccisione di Samuel Paty o dei disegnatori di Charlie Hebdo possa avere una giustificazione. L’Islam condanna l’omicidio, e chi toglie la vita è come se uccidesse il mondo intero». Spesso però da parte musulmana, quando si commentano gesti efferati e attentati terroristici commessi da altri musulmani, si tende a etichettarli come “azioni individuali”. «Sì – continua Akkad – sono “individuali”, anche quando compiuti da più persone, e non vanno inseriti nel contesto della società e della religione islamica, perché il terrorismo e la violenza non si basano su una interpretazione dell’Islam e dei suoi testi sacri, ma su un abuso di questi. Un abuso perpetrato da chi vuole sovvertire i principi stessi dell’Islam, che significa “sottomissione” a Dio. I terroristi invece vogliono sottomettere Dio e la Sua parola alla loro sete di potere e alla loro violenza. Per questo dobbiamo isolarli e l’unico modo per farlo è attraverso la fraternità e l’uguaglianza con cui la società deve accogliere ed educare i giovani. I giovani musulmani devono essere inseriti nella società europea come cittadini francesi, italiani, tedeschi…. di fede musulmana, e che siano orgogliosi di appartenere a un Paese multiculturale in cui la loro identità sia valorizzata e compresa. Altrimenti, se non sono integrati e se non viene data loro una identità europea, anche attraverso la cittadinanza, possono essere preda chi gli offre una identità alternativa forte, come hanno fatto i reclutatori dell’ISIS. La fraternità è la chiave per una società pluralista, solidale, volta al bene di tutti i suoi cittadini, al rispetto e alla tolleranza. Per questo serve un’alleanza educativa globale che preveda un modello non solo di istruzione, ma di vera educazione che sappia integrare la sfera materiale e quella spirituale della conoscenza, una educazione civica basata sulla fratellanza all’interno di una società multiculturale rispettosa dell’altro». (E. M.)

 

Foto d’apertura:  DOMINIQUE FAGET / AFP