Caro lettore, cara lettrice, dov’eravamo finiti prima che il virus ci cogliesse impreparati di fronte alla nostra nudità ben vestita, la nostra fragilità infagottata nello sgargiante abito del progresso globale, della tecnologia ultradigitale, della scienza, del dogma della crescita? Ci siamo svegliati una mattina e il paesaggio fuori dalla finestra non era più lo stesso, noi non eravamo più noi e anche gli altri non erano più gli altri, intoccabili, smaterializzati, intangibili.
L’altro giorno ho accompagnato un’amica per un piccolo ricovero ospedaliero programmato da tempo: infischiandomene del metro di distanza e dei divieti, intuendo la sua paura e la solitudine che l’attendeva una volta entrata, l’ho abbracciata forte, abbiamo scherzato, l’allegria a volte può essere una forma di furiosa protesta verso la vita che ti atterra. C’è un dolore che non si può cancellare ma che solo ci si può fare amico, farlo accomodare accanto, passeggiarci insieme, stringergli la mano di tanto in tanto. Dobbiamo salvaguardare delle isole di resistenza, mi sono detta; la barbarie di questo momento storico fin dove ci potrà portare?
La sensazione è che la spietatezza di questo morbo arrivi come ultima di una lunga serie di barbarie a cui la cronaca ci sta abituando (vedi l’inchiesta a pagina 8), e l’invito è a non cadere in «una nuova forma di sonnambulismo» che rischia di ovattare il nostro vivere quotidiano e emotivo, di minacciare la nostra convivenza civile e sociale, scrive il filosofo-sociologo francese Edgar Morin nel suo ultimo memoir-autobiografia I ricordi mi vengono incontro (Raffaello Cortina editore). All’età di 99 anni, lucido e vivacissimo, colpisce che questo ebreo sefardita – il cui vero nome è Edgar Nahum, Morin era il suo soprannome durante la Resistenza -, abbia sentito il bisogno di metterci in guardia contro i pericoli attuali, il degrado del “senso degli altri”, la ferocia che disumanizza, contro una forma di sonnambulismo collettivo di fronte alla barbarie che si consuma sotto i nostri occhi.
È la stessa Indifferenza di cui parla sempre Liliana Segre, è la bolla di odio che travolge la Rete quando la gente esulta sul web per i migranti annegati in mare o per gli ebrei aggrediti in strada e nelle loro sedi, l’onda astiosa di chi fa sempre spallucce, i biliosi dei social, i sobillatori del web che soffiano sul malessere diffuso armando la mano dei “sanculotti” e odiatori di ogni tempo e bandiera.
Edgar Morin non allude solo alla pandemia o alla Francia ferita da attacchi omicidi; “la vita umana è come navigare in un oceano di incertezze, con poche isole di certezza… mi sono abituato a non essere troppo sorpreso dalle sorprese, so per esperienza che spesso accade l’imprevisto che devia il corso apparente della Storia”, scrive. Morin resta l’anticonformista di sempre, allergico a tutte le ortodossie di pensiero e al mainstream. Ma dopo quasi un secolo di vita, sente di nuovo odore di bruciato. «Ovunque, in maniera dispersa, rinascono e zampillano le aspirazioni a un’altra vita, e ovunque il regno del calcolo, del profitto, della dismisura (hybris; o ga’avà, superbia, in ebraico), così come lo scatenamento dell’odio, del fanatismo, del disprezzo, soffocano le nostre aspirazioni e producono regressioni inaudite di coscienza nell’accrescimento quantitativo delle conoscenze”.
Attenti al pericolo, al vero morbo che attanaglia la nostra “società della stanchezza”, avverte il filosofo: è il virus del disumano, del post-umano, dell’ex-umano ridotto a grumo di frigida indifferenza.
Fiona Diwan