Violenze fisiche, psicologiche e anche sessuali: dai racconti dei bambini liberati da Gaza emerge l’orrore

Israele

di Redazione
“Hanno sofferto la fame, sono stati drogati, gettati in tunnel umidi e buie soffitte, oppressi e picchiati dai loro rapitori o da folle di invasati. Sono stati marchiati a fuoco sulle gambe con i tubi di scappamento delle moto in modo che potessero essere identificati se avessero cercato di scappare, sono stati costretti a guardare i terrificanti video delle atrocità terroriste commesse il 7 ottobre la cui vista nemmeno gli adulti riescono a reggere senza sentirsi male. Quando chiedevano di andare in bagno dovevano aspettare per ore, quando piangevano venivano minacciati con armi puntate alla testa al grido “stati zitto!”. Così scrive Anat Lev di Yediot Aharonot (articolo in italiano riportato da Israele.net) a proposito dei racconti che stanno emergendo dai piccoli prigionieri a Gaza liberati nei giorni scorsi.

(Nella foto alcuni dei bambini ostaggio liberati il 27 novembre)

“Alcuni da quando sono tornati riescono solo a sussurrare, altri non parlano mai – prosegue l’articolo -. Avevano lividi e pidocchi, non si sono fatti la doccia per più di 50 giorni. Per più di 50 giorni non hanno visto la luce del giorno, perdendo la nozione del tempo, una bambina di 9 anni crede di essere stata via un anno. Hanno bevuto acqua fangosa o salata. Alcuni avevano ferite gravi che sono state curate male o non sono state curate per niente. Gli aguzzini li terrorizzavano dicendo che i loro genitori li avevano dimenticati, che non li volevano più, che sarebbero rimasti in quei tunnel per sempre, che nessuno sarebbe venuto a riprenderli. Un ragazzino di 12 è stato chiuso al buio, da solo, per 16 giorni prima di essere riunito con alcuni altri ostaggi. Due gemelle di tre anni sono state separate l’una dall’altra e dai loro genitori”.

“E questo è solo il primo livello, non siamo ancora scesi con loro nel profondo. Si stanno aprendo molto lentamente. Alcuni di loro sono ancora in silenzio, altri hanno appena iniziato a raccontare”, dicono gli operatori sanitari che si occupano dei bambini israeliani rilasciati dopo essere stati rapiti e deportati a Gaza il 7 ottobre dai terroristi jihadisti palestinesi. E si capisce che bisognerebbe inventare parole nuove per descrivere la portata e la profondità dell’orrore vissuto da bambini di pochi anni d’età, riemersi dalle segrete di Hamas. Lo stesso concetto di “bambini prigionieri come ostaggi” – che dovrebbe essere un ossimoro – richiede di entrare in una sorta di universo parallelo inventato ex novo.

“Pensavo ai miei figli rapiti e mi chiedevo quali cose che avevo insegnato loro avrebbero potuto aiutarli nella prigionia. Vi ho insegnato tutto quello che dovevo, pensavo. Mi dispiace di non avervi insegnato come sopravvivere da ostaggio” dice Mirit Regev, madre degli ostaggi rilasciati Maya e Itay. E aggiunge: “Non sai come piangerà tuo figlio quando tornerà dalla prigionia”.

Bambini che tornano dalla prigionia: neanche nei nostri peggiori incubi avremmo immaginato di dover preparare terapisti, assistenti sociali e personale ospedaliero al ritorno di 39 bambini che sono stati strappati dalle culle e dai lettini e trascinati all’inferno, scalzi e mezzi addormentati, alcuni soli, altri con un solo genitore, molti dopo aver assistito a scene di spaventosa violenza.

Ma nel giro di un mese è nato, qui, un protocollo inedito, mai elaborato in nessun altro paese prima d’ora. Si tratta della prima serie di istruzioni per trattare i bambini che ritornano dalla prigionia spiegando come e cosa chiedere, ma soprattutto cosa non chiedere e cosa non fare (“sottolineare che sono in un luogo sicuro, non abbracciare né toccare, solo offrire”).

“Noi israeliani, che abbiamo inventato i pomodorini-ciliegina e il Mobileye, “Cupola di ferro” e Waze, abbiamo anche creato per la prima volta un protocollo compilato dai migliori terapisti e operatori sanitari del paese, che hanno messo per iscritto ciò che una mente umana non può tollerare. E questo protocollo continua a cambiare e ad adattarsi man mano che procediamo, umilmente e con estrema cautela, secondo le esigenze di ogni ragazzino e ragazzina”.

Abusati anche sessualmente

Sappiamo che alcuni bambini rapiti da Hamas sono stati abusati sessualmente. Non sono tra i piccoli che abbiamo in cura noi qui, si trovano in un’altra delle strutture mediche che hanno preso in carico gli ostaggi minorenni dopo il rilascio”.
Ne parla in un’intervista all’ANSA Omer Niv, vice direttore e pediatra dello Schneider Children’s Medical Center, il maggiore ospedale pediatrico di Israele e del Medio Oriente, dove sono in cura 19 piccoli ostaggi rilasciati dopo 50 giorni di prigionia a Gaza. “Sono come fantasmi. Soffrono di una depressione grave in misura mai vista prima, sono tristi, camminano lentamente, non vogliono uscire dalla stanza, scoppiano a piangere se vedono un estraneo, hanno paura, masticano il cibo lentamente, temono ogni rumore”, racconta Niv.

Abigail, Raz, Aviv, Yuval, Emilia, Ofri e tutti gli altri bambini strappati alla loro infanzia sono riemersi da Gaza senza punti di riferimento a cui aggrapparsi: le loro case sono state bruciate, i lettini non ci sono più, giocattoli e libricini ingoiati dalla distruzione che Hamas e Jihad si sono lasciati alle spalle il 7 ottobre. Niv non nasconde le difficoltà che gli stessi team di specialisti stanno incontrando nel curare i piccoli pazienti, dice chiaramente che stanno andando avanti per tentativi, elaborando un metodo per ciascun bambino tornato: “Non ci sono nella letteratura scientifica esempi in cui bambini piccoli di 2, 3, 4 anni siano stati rapiti, tenuti in luoghi claustrofobici, in condizioni igieniche estreme, separati dai loro genitori, nutriti a malapena, torturati con false notizie come la morte di papà e mamma anche se non era vero, con la storia che Israele non esiste più e nessuno sarebbe andato a salvarli. Non c’è mai stata una terapia per questi danni. Perché non era mai successo niente del genere nella storia dell’umanità – ammette il pediatra –  Con psichiatri, psicologi, medici di diverse specializzazioni, sociologi, affrontiamo i bambini uno per uno. In un certo senso ci sentiamo impotenti”.

Una madre con due bambine di 3 anni è con noi già da una settimana, dal momento del rilascio. Vogliono restare qui: la loro casa è stata data alle fiamme in un kibbutz, il papà è rimasto in ostaggio a Gaza, non vogliono uscire – spiega – Che cosa posso dire a una bambina di 3 anni che ha visto il padre rimanere prigioniero, la madre che piange perché rivuole il marito. I bambini piccoli non riescono a raccontare quello che provano, si chiudono, non dormono, alcuni non hanno un’idea del tempo, non sanno quanto sono rimasti prigionieri, sono stati spostati da un posto all’altro, non sappiamo dove”, si avvilisce Niv.
“Abigail ha 4 anni, i terroristi le hanno ucciso i genitori davanti ai suoi occhi. Lei è riuscita a correre via, si è rifugiata in casa dei vicini, ma poi è stata portata a Gaza con una donna e i suoi tre figli. E’ rimasta senza nessuno dei suoi parenti stretti, papà e mamma morti, senza poter gridare, singhiozzare, lavarsi semplicemente i denti… Come dobbiamo curare questa bambina? In certi momenti ci sentiamo impotenti – dice Niv abbassando la voce di fronte a un dramma così schiacciante – Non sappiamo come sarà la loro situazione mentale domani, tra anni. Ci vorrà molto tempo. Questi bambini probabilmente avranno bisogno di essere curati per tutta la vita”, riconosce il vice direttore dello Schneider.