L’attribuzione del nome nelle diverse culture al centro di un convegno

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di Carlotta Jarach

vogel2Qual è il significato che l’attribuzione formale di un nome ha nei suoi valori più profondi nelle diverse tradizioni culturali? È questa la domanda intorno a cui mercoledì 20 maggio si sono concentrati personaggi illustri come Carlo Sini, Vittorio Robiati Bendaud, Alberto Melloni e Massimo Cacciari, all’Università degli Studi di Milano, in occasione dell’intitolazione della Clinica Odontoiatrica di via Beldiletto al Professore Giorgio Vogel; un’iniziativa promossa dal Rettore Gianluca Vago, e realizzata grazie ad Andrée Ruth Shammah, Direttrice artistica del Teatro Franco Parenti.

Un vero maestro è colui che non insegna solo facendo lezioni, ma attraverso il proprio comportamento, la propria tranquillità, il proprio modo di trattare il prossimo, con sensibilità, pur dietro un aspetto severo. E così era Giorgio Vogel, come ricorda Antonio Carrassi, Presidente della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Statale, e allievo del Professore.

Ma affidare ad un luogo il nome di qualcuno porta con sé un profondo significato, che va al di là di una mera toponomastica: in tutte le tradizioni culturali, dice infatti il filosofo Carlo Sini, c’è la consapevolezza della natura particolarissima della condizione umana in quanto affidata al linguaggio, cioè al nome. «Il nome è al tempo stesso estraneo e proprio, estranea e appropria: nel momento in cui il nome accade nella vicenda dell’umanità, ognuno di noi è dato agli altri, a tutti, ognuno di noi è dato in questo modo a se stesso, ma anche ognuno di noi è spogliato della vita eterna, esce dal cerchio dell’animalità, del ciclo eterno della vita, della generazione, per individuarla nel nome, e quindi per averla nel sapere, e quindi per perderla nel sapere». La stessa scrittura greca, continua Sini, nasce innanzitutto per dare un nome ai defunti: un nome che è rinomanza, una kleòs, con la quale il defunto rinasceva nella comunità, nella vox pubblica: sulla tomba appare il nome che dice contemporaneamente della mortalità, della comunità, della fama eterna e della condizione della civiltà umana alle sue radici.

Il nome e la parola sono argomenti delicati e di grande indagine filosofica, nella cultura greca ma anche, e soprattutto, in quella biblica, e quindi in quella ebraica. Ricorda infatti il Coordinatore del Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia Vittorio Robiati Bendaud: «Dio crea attraverso la parola ed in ebraico davar vuol dire sì ‘parola’, ma anche ‘cosa’, per cui l’enunciazione verbale della parola non è solo un lemma, ma un connotato di realtà, fisicità, di materialità, che è molto diverso dal rapporto tra logos e idea della tradizione greca». Ciò che lega i molteplici soggetti della nostra contemporaneità è frutto di scambio, a volte molto delicato e difficile, tra tradizione biblica -ebraica e cristiana- e tradizione greca. E perciò Bendaud ricorda Dante con la sua De vulgari eloquentia, e Jacob Anatoli, autore di un commento alla Bibbia noto come Malmad ha-talmidim, ovvero Il pungolo dei discepoli, nel quale largo spazio ha la trattazione della confusio linguarum di Babele, il tutto in chiave filosofica aristotelica.

«C’è un detto nella tradizione ebraica che dice “tov shem mi-shemen tov”: un buon nome è preferibile a un olio profumato. L’esercizio della medicina rende le persone migliori perché esse aiutano il prossimo; le parole possono creare e guarire», conclude Bendaud, «e così ci sono persone in grado di guarire dando il nome alle cose».

«Dare il nome è un atto carico di dolore che porta un rischio: richiede signoria, pudicizia, come accade per il nome di Dio, che non può essere pronunciato». Dice così Alberto Melloni, storico e studioso di storia del Cristianesimo. L’Esegesi cristiana ha riflettuto facendo vedere la forza di questo atto in diverse circostanze, prima fra tutte nella prassi battesimale. È poi nel rito d’iniziazione alla vita monastica che il nome assume uno scopo preciso, in quanto serve per ingannare il demonio, che viene confuso da questa sorta di doppia identità. E ancora, la questione del nome riguarda i vescovi di Roma: «Papa Bergoglio ha fatto una scelta importante scegliendo un Santo fuori da quelli canonici della Chiesa romana. Ha così ricordato come il nome abbia una forza e una capacità evocativa senza eguali, come possa dare la chiave di lettura di un’esperienza: tutti hanno capito che nella scelta di quel nome c’era qualcosa di potentissimo».

Quando si sente un debito così forte che spinge una comunità a dare il nome di un caro ad un luogo, si corre un rischio di dolore dentro questa scelta, ma c’è anche una volontà caparbia e ferma di riuscire a rievocare attraverso quel nome qualcosa di specifico e a trasmettere così il significato che c’è dietro, conclude Melloni.

È poi il turno del filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che fa una considerazione generale a proposito del ricordare quale sia il significato simbolico e profondo del nominare. «Viviamo in un contesto culturale in cui il segno, e quindi il nome,  non è altro che una convenzione: dove infatti ricordiamo lo spessore simbolico di questo atto? Se per il nome riusciamo a fatica a risalire al significato profondo, per il segno è quasi impossibile. Ragioniamo ormai come se le lettere con le quali indichiamo i suoni fossero arbitrarie, quando invece c’è una vera e propria sacralità nel segno, ancora prima che nel nome». E si interroga così sull’etimologia: che nomen sia legato a numen? Nella tragedia greca questo è detto splendidamente, quando per esempio nell’Agamennone si legge “come vuoi essere chiamato Zeus?”: se sbaglio il nome, lui si arrabbia. «Dare il nome è massimamente pericoloso; il divino si articola e si muove nell’ambito del significato del proprio nome. Il nome, che non è predicazione, ci mette in relazione con qualcosa che è distante: è un rapporto drammatico, quello del nominare, che non può essere confuso con il denominare». La nostra parola non è che approssimazione, perché sia mantenuta la distanza da ciò che si nomina. È puro amore, intendendo con amore quel vincolo in cui amante e amato si mantengono a distanza, negando così la relazione di possesso. «Nel nominare c’è questo sommo pericolo di pretendere un possedere: ma è relazione di philia. Il nome è segno di approssimazione, perché non esiste il Nome».

Il nome è sempre il nuovo nome, il nome è nuova nascita, è custodia, è celebrazione. Bisogna fuggire il feticismo del nome che è «ponte verso il cielo e verso la vita ma non è la vita stessa», ammonisce Sini.

E, riferendosi a Vogel, così conclude: «un uomo di scienza è la testimonianza più vera e viva di questa profonda verità. Egli è creativo proprio perché per lui tutti i nomi della sua scienza, tutte le convenzioni non valgono più quando inventa un nuovo nome. La nomenclatura è indispensabile, ed è la nostra ricchezza. La parola è la prima ricchezza dell’umanità. Dare il nome ad un istituto universitario vuol dire ricordare chi ha dato nomi attraverso catene di tradizioni».