Il Benjamin (o) del pubblico

Israele

di Luciano Assin

netanyahuRiportiamo dal blog L’altra Israele l’articolo scritto da Luciano Assin sul discorso di Beniamin Netanyahu al Congresso americano, tenutosi il 3 marzo.

 

“Un breve sunto del discorso di Nethanyau appena conclusosi di fronte al Congresso americano a Washington accompagnato da qualche commento personale.

Il premier israeliano ha dimostrato una volta di più le sue eccezionali doti oratorie e la profonda conoscenza dei meccanismi americani al riguardo. In un discorso durato più o meno 50 minuti ha ottenuto la bellezza di almeno 25 standing ovation, certamente aiutato in questo senso da una compatta claque repubblicana ma supportato contemporaneamente dalla componente democratica del Congresso. Il discorso, trasmesso in Israele a reti unificate con un delay di tre minuti per poter censurare eventuali passaggi propagandistici ha confermato una volta di più la celeberrima locuzione “Nemo propheta in patria” visto che un risultato del genere è assolutamente impensabile di fronte al parlamento israeliano, assai più combattivo e critico nei confronti del suo primo ministro. Nethanyau ha subito esordito con frasi di riconoscenza verso l’operato di Obama nei riguardi dello stato ebraico, tentando così di rattoppare almeno temporaneamente l’enorme strappo formatosi nelle relazioni fra i due paesi. Dopo questa prima fase Bibi è entrato direttamente nel vivo della questione ponendo l’accento sui seguenti punti.

L’Iran è uno stato islamico estremista che foraggia il terrorismo sciita. Un arsenale atomico in suo possesso porterebbe immediatamente tutta la zona alla prolifericazione nucleare. Paesi come l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Egitto e gli Emirati Arabi non rimarrebbero certo con le mani in mano essendo giustamente timorose dell’egemonia Iraniana nella regione. Già adesso il paese degli Ayatollah controlla più o meno direttamente il Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen ed il disgregamento dei vari stati arabi della regione non fa che aumentare la sua influenza.

Un accordo basato su controlli periodici da parte degli ispettori dell’agenzia atomica internazionale è di principio un accordo provvisorio e instabile. La Corea del Nord ha dimostrato che un accordo del genere non ha valore se il firmatario non è disposto a rispettarlo. Fatto sta che i nordcoreani sono oggi in possesso di decine di ordigni nucleari in barba a tutti gli accordi firmati. Nessuno può garantire che qualcosa di simile non possa accadere con l’Iran.

Ammesso che regga, l’accordo parla di un periodo di dieci anni durante il quale la repubblica islamica si asterrebbe dal produrre il materiale fissile necessario. Dieci anni passano subito, e nessuno ci garantisce che dopo un lasso di tempo così breve l’Iran cambi in maniera così sostanziale da non continuare ad essere un reale pericolo per la stabilità dell’intero pianeta. In maniera paradossale fra dieci anni il maggior sponsor del terrorismo internazionale si troverebbe in grado di produrre armi atomiche a volontà col beneplacito della comunità internazionale.

Prima di continuare qualsiasi dialogo l’Iran deve impegnarsi a rispettare le seguenti condizioni: 1) Fermare la sua politica aggressiva in corso in tutta la regione 2) Stop alla sua politica di sostegno del terrorismo 3) Interrompere la sua politica volta alla distruzione dello stato d’Israele. Se l’unica soluzione fattibile è quella dell’embargo commerciale, tale politica va continuata sino a quando lo stato sciita non diventi un paese “normale”, solo allora si potrà raggiungere un accordo “normale”. L’Iran ha bisogno dell’accordo molto di più di quanto ne abbia bisogno l’occidente, la trattativa in corso non è niente di più di quello che succede in qualsiasi bazar orientale,  in queste cose gli iraniani sono dei veri esperti e non bisogna emozionarsi più di tanto.

E’ altamente improbabile che il discorso di oggi possa cambiare radicalmente le trattative in corso, Bibi si è intestardito a parlare di fronte al Senato Usa soprattutto per fini elettorali interni. A fronte di una politica governativa deficitaria per non dire catastrofica in quasi tutti i settori, il premier israeliano vuole giocare tutte le sue carte sui temi della sicurezza e della difesa. La sua decennale esperienza influisce molto sull’umore dell’elettorato israeliano, stufo delle infinite critiche verso la politica militare israeliana da parte della comunità internazionale. Critiche giudicate per lo più ingiuste e che tendono a rafforzare la sensazione che nel momento del bisogno nessun paese democratico si schiererà al suo fianco.

Ma la carta iraniana può dimostrarsi un’arma a doppio taglio: la sensazione a livello internazionale è che la questione nucleare sia principalmente un problema israeliano, una delle tante fobie di questo piccolo paese attaccabrighe. Il pericolo è dunque quello di trovarsi sempre di più isolati a livello internazionale. Nessun paese europeo ha la volontà di vedere in faccia la realtà e preferisce delegare ad altri il compito di risolvere questioni sempre più intricate e scottanti. Anche i rapporti fra Israele e l’ebraismo americano sono arrivati a dei livelli di tensione mai raggiunti in precedenza, un situazione pericolosa che non va sottovalutata.

Chi invece si può immedesimare ed identificare con le posizioni di Nethanyau sono i paesi arabi più o meno moderati della regione. Il discorso di Bibi e stato trasmesso in diretta da al jazeera, al arabia ed altre importanti emittenti arabe, segno di quanto sia vissuto il tema nella regione. Molti più paesi arabi di quanto si possa pensare sono pienamente d’accordo con la tesi del premier israeliano, ma il loro è un sostegno che si svolge esclusivamente dietro le quinte.

A Washington il Congresso ha concesso a Netanyahu l’onore di tenere un discorso per la terza volta, cosa successa in passato soltanto a Winston Churchill. Molti si chiedono in Israele se la performance odierna sia sufficiente per riportare a galla Bibi ed il suo partito. Gli applausi scroscianti di oggi sono un capitale elettorale non indifferente da poter investire fino al 17 marzo, ma gli investimenti, si sa, comportano sempre una dose di rischio, la domanda è se Benjamin Nethanyau sappia quanto e dove puntare il suo capitale”.