Addio Svezia, tra i fiordi non c’è più futuro

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di di Davide Foa e Jonathan Misrachi

sveziaAndate su Google e digitate “ebrei-Svezia”. Non troverete facilmente notizie sulla storia degli ebrei svedesi, né tanto meno qualche informazione sulle sinagoghe o i luoghi ebraici da visitare. Piuttosto, sarete invasi da una miriade di notizie tutte riguardanti un caso diverso di antisemitismo (attentati a sinagoghe, minacce verbali e fisiche), e non saprete da quale iniziare. Da anni ormai, gli ebrei svedesi, specie quelli di Malmö, devono fare i conti con un antisemitismo crescente, spesso e volentieri favorito dall’indifferenza delle istituzioni politiche che in un certo senso lo giustificano, identificandolo come “antisionismo”.

Ma andiamo con ordine. Nell’ottobre del 1943, ben 7000 ebrei danesi trovarono rifugio in Svezia, scampando ad un enorme operazione di rastrellamento organizzata dai nazisti occupanti la Danimarca. Non potendo evidentemente usufruire del grandioso ponte che oggi unisce Danimarca e Svezia, con delle semplici barche da pesca attraversarono lo stretto di Øresund e arrivarono proprio a Malmö. Lì nacque l’immagine di una Svezia ospitale, disposta negli anni ad accogliere rifugiati provenienti da ogni parte del mondo. Ieri come oggi. Immigrati dalla Somalia, iracheni e ora siriani hanno fatto sì che la bionda e chiara popolazione svedese si trasformasse negli ultimi decenni in una complessa società multietnica. Basti considerare questo dato: il 16,7% dei nove milioni di abitanti svedesi ha uno o entrambi i genitori di origine straniera.
In questo bel clima di ospitalità, rispetto e tolleranza, l’antisemitismo dovrebbe essere il peggior nemico. Dovrebbe. Specialmente a Malmö,  che accolse gli ebrei in fuga; ma che oggi è la città svedese con la più alta percentuale di immigrati (un terzo dei 278.000 abitanti totali), e con un antisemitismo che sembra ormai fuori controllo. «C’è una grande differenza tra la situazione di Malmö e quella di Stoccolma – racconta Isak Reichel, segretario generale della Comunità ebraica di Stoccolma, in un’intervista esclusiva rilasciata al Bollettino -. A Malmö ci sono stati diversi episodi di antisemitismo e molti ebrei non si sentono più sicuri, al punto che in tanti si sono trasferiti a Stoccolma o in altre parti del mondo».

Stoccolma e Malmö, due città separate giusto da 600 km, come potrebbero essere Milano e Roma, ma con un’enorme distanza in quanto a sicurezza e benessere per gli ebrei.
«La Comunità di Stoccolma sta crescendo: abbiamo appena costruito un nuovo edificio che ospiterà un centro culturale e la scuola ebraica – continua Reichel -. Non è pericoloso girare per Stoccolma con una kippà, il rabbino Chabad dice di sentirsi al sicuro».
Lo stesso non si può certo dire per Malmö, come testimoniato dal giornalista Peter Lindgren e dalla sua inchiesta dell’anno scorso. Con una kippà in testa, il giornalista svedese ha fatto la cosa più semplice e banale del mondo: una passeggiata.
Arrivato nel quartiere di Rosengard (laddove Zlatan Ibrahimovic tirò i suoi primi calci al pallone), Lindgren è stato accerchiato da uomini che hanno iniziato ad insultarlo, mentre altre persone lanciavano uova dalle finestre intonando slogan antisemiti.
Dal 2009, a Malmö, le autorità
svedesi registrano ogni anno decine di attacchi più o meno diretti alla comunità ebraica, passando dalle minacce verbali a sinagoghe bruciate.
Nata nel 1871, la comunità ebraica di Malmö ha conosciuto una continua espansione nella prima metà del Novecento e fu proprio la sua sinagoga ad aprire le porte, nel 1943, agli ebrei danesi in fuga dal nazismo.
Negli anni ’70 si potevano contare oltre duemila appartenenti alla comunità ebraica di Malmö; oggi ne sono rimasti poco più di 500.
Da città rifugio, è oggi diventata insopportabile per molte famiglie ebraiche, che hanno scelto dunque di trasferirsi a Stoccolma, se non addirittura in Israele o negli Stati Uniti.
«In Israele vivi sotto le minacce alla sicurezza, c’è una forte tensione e incertezza, ma puoi essere chi vuoi. A Malmö, gli ebrei nascondono la loro identità oppure soffrono in silenzio»: queste le parole, riportate su Haaretz, di una giovane svedese emigrata in Israele pochi anni fa insieme alla sua famiglia, terrorizzata dai continui attacchi subiti. Dal “tornate a casa vostra porci ebrei”, scritto sulla loro macchina, alle aggressioni subite dal fratello a scuola, “colpevole” di essere ebreo.
Dal 2009 la situazione è andata sempre più peggiorando. Quelle che inizialmente si presentavano come manifestazioni antisioniste, di critica al governo israeliano, ben presto hanno mostrato il loro vero volto; come accaduto nel 2009 quando, in occasione di una partita di tennis valida per la Coppa Davis, i giocatori israeliani sono stati presi di mira da un gruppo di manifestanti che, in poco tempo, sono passati dalle proteste per l’offensiva su Gaza a slogan antisemiti.
Nello stesso anno, solo a gennaio ci sono stati almeno tre tentativi di incendio contro edifici ebraici, due dei quali a Malmö.
La comunità ebraica rispose allora con una manifestazione pacifica, organizzata nel centro della città il 29 gennaio. Ai canti ebraici intonati dai manifestanti, si sovrapposero dopo poco le grida dei contro-manifestanti filo-palestinesi, radunatisi intorno alla piazza e, almeno inizialmente, controllati dalla polizia.
Quando però alle grida si aggiunsero uova, sassi e petardi, la polizia di Malmö, anziché reprimere la contro-manifestazione, ordinò ai pacifici sostenitori della comunità ebraica di allontanarsi e lasciare libero campo ai filo-palestinesi, per altro sprovvisti di alcun permesso per manifestare.
Un anno più tardi, in occasione della Giornata della memoria del 2010, l’allora sindaco di Malmö, Ilmar Reepalu, fu intervistato da un giornalista che gli chiese di commentare i recenti e innumerevoli episodi di antisemitismo; per tutta risposta, il sindaco affermò che la responsabilità per la situazione creatasi era degli stessi ebrei, colpevoli di non aver condannato le azioni del governo israeliano.
«Noi non accettiamo né il sionismo né l’antisemitismo”», dichiarò Reepalu, mettendo così i due elementi sullo stesso piano e allo stesso tempo giustificando l’odio antiebraico dilagante.
Sulla stessa falsariga si colloca anche l’odierno Ministro degli esteri Wallström, socialdemocratica come Reepalu e nota da tempo per le sue posizioni duramente critiche nei confronti di Israele. Dal suo insediamento nel 2014, il Ministro ha ripetutamente attaccato il governo israeliano, creando non pochi problemi alle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Fino all’attuale rottura.
Intervistata dal canale svedese SVT2, le è stato chiesto se fosse preoccupata per il fatto che sempre più giovani musulmani svedesi decidono di combattere con il sedicente Stato Islamico. Nella sua risposta, il Ministro ha collegato più o meno esplicitamente gli attentati di Parigi con “la disperazione” del popolo palestinese.
La prima grande crepa tra Israele e Svezia si verificò nell’ottobre del 2014, quando il Paese scandinavo fu il primo in Europa a riconoscere lo Stato di Palestina. Da lì in poi fu un susseguirsi di batti e ribatti, con il ministro Wallström sempre in prima linea. Neanche una parola di condanna è uscita dalla bocca del Ministro in occasione dei continui attacchi terroristici contro la società civile  israeliana, in quella che viene ormai chiamata “terza intifada” o “intifada dei coltelli”. Al contrario, la stessa Wallström non ha esitato a chiedere l’apertura di un’indagine contro Israele, accusata dal Ministro di omicidi extragiudiziali contro i palestinesi.
A fronte di tutte queste accuse contro Israele e il suo modo di affrontare il terrorismo palestinese, colpisce non poco una notizia uscita su Ynet a metà gennaio: una delegazione svedese, appartenete all’Accademia Reale delle Scienze della Guerra, si è recata in Israele. Scopo della visita? Imparare dalle forze di sicurezza israeliane quali i metodi più efficaci per la lotta al terrorismo.
Anche i mass media svedesi, seguendo l’andamento di molti esponenti politici, sembrano sottovalutare, per non dire giustificare, l’antisemitismo in Svezia. Quando, ormai un anno fa, si verificò l’attentato nel supermercato Hyperkasher di Parigi, praticamente nessun mezzo di informazione svedese accennò al fatto che fosse di matrice antisemita.
Constatata l’impassibilità e per certi aspetti il colpevole silenzio delle autorità competenti, oggi più che mai in Svezia risulta necessario l’intervento di organizzazioni non-governative che cerchino di combattere l’antisemitismo con efficaci campagne di contro-informazione; è il caso della SCAA, Comitato Svedese contro l’antisemitismo. Nata nel 1983, l’associazione si propone di “evidenziare e combattere i crimini d’odio anti-ebraico e la propaganda antisemita, attraverso i suoi articoli, newsletter e seminari di formazione” rivolti a studenti, insegnanti, ma anche, guarda caso, a giornalisti e politici.

“Non posso più indossare la kippà”
Daniel Blecher, 22 anni, studente svedese ebreo, ha raccontato al Bollettino cosa pensa dell’antisemitismo nel suo Paese e come lo vive, esprimendo la propria amarezza: «Non posso indossare la Kippà per strada, oggi si tratta di un pericolo per chiunque provi ad esporre la proprio identità».

Quali sono gli episodi a cui vai incontro?
Rischierei di venire offeso o aggredito; a me piacerebbe indossare la kippà liberamente per strada, ma non lo faccio, mentre i miei amici che la indossano e hanno le pejot vengono spesso aggrediti. La situazione è così da tempo, ma negli ultimi periodi sta peggiorando a vista d’occhio.

Ci sono città o zone in cui la situazione è più tranquilla?
A Stoccolma, dove sono nato e cresciuto, abbiamo già ricevuto brutti segnali, ma il contesto è ancora tollerabile. Il problema è più grande a Malmo che in altre città, anche per la per- centuale di musulmani che nell’ultimo periodo è cresciuta notevolmente. Ciò non è per forza legato agli avvenimenti, essendo l’antisemitismo non solo di matrice islamica, ma probabilmente è un fattore che complica la situazione.

Come si comportano la società e il governo al riguardo?
Dato che molto spesso “non ci sono prove”, siamo costretti a lasciar passare diverse vicende senza fare nulla. Da questo, percepisco che la società non ci aiuta affatto e che la mia identità non è abbastanza tutelata, anche se il governo ci sostiene economicamente e gestisce la nostra sicurezza”.

Come vedi il tuo futuro in questa terra?
Nonostante la comunità ebraica mi stia a cuore per la sua storia e le sue tra- dizioni radicate nella cultura svedese non vedo qui un futuro per me e la mia famiglia. Voglio andare a vivere in Israele e fare l’aliyà, questo è il mio sogno. La comunità ha anche un futuro difficile, dal momento che molti stanno andando via. La vita ebraica svedese si sta spegnendo sempre di più.