di Gabriele Grego
In poco più di un anno il prezzo del petrolio è crollato di circa il 70%, e la discesa non dà ancora segni di esaurimento. La caduta è iniziata verso la seconda metà del 2014 e si è intensificata quando l’OPEC ha rifiutato di tagliare la produzione. La guerra in Ucraina e una situazione geopolitica altamente instabile in Medio Oriente, eventi che qualche anno fa avrebbero un’impennata del prezzo, non sono riusciti a cambiare lo status quo nel mercato energetico, che sembrerebbe in caduta terminale.
Come siamo arrivati a questa situazione? Il mercato dell’energia è un sistema complesso e le cause sono multiple, ma si riducono a due parti principali: domanda e offerta. Dal 1999 al 2014 il trend del prezzo del petrolio è stato in salita. Prezzi relativamente alti hanno stimolato lo scavo di nuovi pozzi, l’utilizzo di nuove fonti di petrolio e l’applicazione di tecnologie sempre più sofisticate, come gli scavi in acque ad alta profondità, le sabbie bituminose e gli scisti bituminosi (shale). Quest’ultima è risultata particolarmente importante. Vaste aree del pianeta contengono quantità enormi di gas e petrolio rinchiuse a vari chilometri di profondità e separate da strati di roccia dura. Per molto tempo tali riserve erano considerate inaccessibili. Tuttavia, negli ultimi anni, lo sviluppo di nuove tecnologie, quali la fratturazione idraulica e la trivellazione orizzontale, hanno permesso di accedervi con costi relativamente contenuti.
Ciò ha causato un’esplosione della produzione, soprattutto negli Stati Uniti che, grazie a una legislazione permissiva e a finanziamenti facili, sono riusciti ad aumentare la produzione dell’80% in soli cinque anni. La domanda non ha tenuto il passo. I Paesi sviluppati tendono a consumare sempre meno energia, grazie a una maggiore efficienza dei trasporti (basti confrontare il consumo medio di un’auto ibrida odierna con quello della tipica utilitaria degli anni ’80). Inoltre, le economie occidentali vanno verso una riduzione sempre maggiore della propria dipendenza dal settore manifatturiero (ad alta intensità energetica) a quello dei servizi (a bassa intensità). Fino a qualche anno fa, la crescita vertiginosa dei mercati emergenti ha assicurato un forte aumento della domanda di energia, nonostante il calo dei paesi sviluppati.
Tuttavia, il recente rallentamento della Cina e del resto dei Paesi BRIC, è stato il colpo di grazia: da fine 2014 la produzione di greggio eccede la domanda di 1-2 milioni di barili al giorno. In circostanze normali, l’OPEC interverrebbe in questi casi tagliando la produzione, bilanciando domanda e offerta ed evitando una caduta precipitosa del prezzo del petrolio. Tuttavia, reazione dell’Arabia Saudita, che de facto dirige il Cartello, è stata contraria alle aspettative, rifiutando di ridurre e talvolta anche aumentando la produzione.
Le ragioni principali di questa scelta sembrano essere commerciali: l’Arabia Saudita spera, forzando il prezzo del greggio sotto i $30, di mettere fuori gioco i suoi concorrenti all’estero che hanno costi di estrazione più elevati e sono aggravati da pesanti oneri finanziari: una volta scomparsa la concorrenza, la produzione calerebbe e il prezzo risalirebbe. Altri osservatori tendono invece ad enfatizzare il lato politico della situazione: i maggiori antagonisti del regime saudita, Iran e Russia, hanno economie dipendenti dalla produzione di energia e costi di estrazioni più alti e risentirebbero quindi più dell’Arabia di un calo del prezzo. Il futuro è sempre oscuro, ma secondo me, si potrebbe azzardare qualche scenario. I produttori statunitensi hanno reagito al calo del prezzo intensificando la produzione da pozzi esistenti e cercando di tagliare i costi in un disperato tentativo di sopravvivenza.
A lungo andare però, i pozzi esistenti si esauriscono e il prezzo odierno del greggio non giustifica scavi ulteriori, che risulterebbero economici solo sopra i $40-60 al barile. D’altro canto, anche l’Arabia Saudita non può permettersi una situazione simile per molto tempo: per bilanciare il budget il suo governo necessita di prezzi molto più alti. Comunque delle due l’una: o taglierà la produzione l’OPEC o lo faranno gli Stati Uniti. In entrambi casi il prezzo del greggio, prima o poi, è destinato a risalire. Di quanto? Considerato che gli investimenti in nuovi pozzi si sono ormai ridotti quasi a zero e che intercorre molto tempo dall’inizio di uno scavo alla commercializzazione del greggio, direi che una volta stabilizzata l’offerta, ulteriori incrementi potrebbero richiedere molto tempo, potenzialmente causando una nuova impennata dei prezzi: la scomparsa dell’Opec come “ammortizzatore” ha cambiato, forse permanentemente, la natura del sistema energetico che in futuro sarà caratterizzato da forti oscillazioni sia di prezzo sia di produzione.
Allacciate le cinture… Considerata la natura temporanea del calo dei prezzi, i più coraggiosi potrebbero intentare un investimento nel settore, in tal caso, io andrei su i titoli più solidi e meglio capitalizzati, quali ad esempio Exxon Mobil.
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«E’ il momento di comprare energia, mai prezzi così bassi»
Parla Damiano Ratti: “Giusto investire nelle petrolifere integrate, Eni, Exxon, Total…”
«Mi chiamo Damiano Ratti, ex Amministratore Delegato di British Gas Italia, un passato nel gruppo Shell dove ho ricoperto diversi incarichi a livello senior».
Cosa ne pensa del recente collasso del prezzo del petrolio?
Il mondo del petrolio è abbastanza semplice: quando la domanda è anche di poco inferiore all’offerta, essendo molto elastico il prezzo al barile, crolli improvvisi non sono inusuali. Sono successi nel passato e succederanno ancora nel futuro.
Quali sono le cause della crisi?
Quando il petrolio si vendeva a 100 dollari al barile, i margini erano estremamente alti e tutte le società si sono messe ad investire pesantemente in esplorazione e produzione, forse senza molto criterio, creando un forte eccesso di offerta che ha causato il crollo dei prezzi. Al momento, si sta reagendo in maniera diametralmente opposta, cioè tagliando tutti gli investimenti e ponendo le basi per un’offerta insufficiente, da qui a qualche anno, e quindi per un forte rimbalzo dei prezzi. Pertanto si tratta di un declino ciclico e non strutturale, sono cose già successe in passato.
Come si svolgerà il processo di normalizzazione? Quali saranno i primi segni di un recupero?
Credo che sarebbe importante vedere da parte delle società petrolifere tagli di investimenti sostanziali nella produzione e nella ricerca e sviluppo. Visto che le riserve di petrolio non si generano da sole, o se ne trovano di nuove oppure la produzione futura è destinata a calare, il che porta ad un bilanciamento del mercato e a una normalizzazione dei prezzi. A quanto vedo, questo sta già accadendo in questo momento.
Se la sentirebbe di raccomandare un investimento nel settore energetico oggi? In caso affermativo, in quali segmenti si concentrerebbe?
Normalmente comprare energia quando i prezzi sono così bassi, come in tutti i settori, tende ad essere una decisione intelligente. Personalmente mi focalizzerei sulle petrolifere integrate (per esempio Exxon, Shell, Total, Chevron, Eni), che dispongono sia di riserve future da sviluppare, sia flussi di cassa costanti, grazie alla produzione corrente ed alle attività di raffinazione e distribuzione che invece beneficiano dei prezzi bassi del petrolio.