Dagli autodafè a Mussolini: una fuga lunga cinque secoli

Libri

di Rossella De Pas

Di rocambolesco, nel destino ebraico, c’è sempre quasi tutto. Non fa eccezione la famiglia Boccara, prima portoghese, poi italiana, quindi tunisina e infine francese, un’avventura durata cinque secoli che porterà i membri di questo clan in giro tra i flutti del Mediterraneo, dalle carceri del Sant’Uffizio portoghese alle insidie della politica, della storia italiana e di quella del nord Africa. Con “In fuga dall’Inquisizione” (Giuntina), un interessante saggio scritto da uno dei discendenti della casata iberica, Elia Boccara ci propone l’odissea delle proprie origini attraverso le vicende dei Boccara e dei Valensi, rispettivamente famiglia paterna e materna dell’autore.

Nato a Tunisi nel 1931, l’autore fece parte di quella “Comunità Ebraica Portoghese” di Tunisi che era stata formata dagli ebrei fuggiti dalla Spagna nel 1492 in seguito al decreto di espulsione. In un primo tempo avevano trovato riparo in Portogallo dove, per più di un secolo, condussero una doppia vita: ebrei fra le mura domestiche e cattolici davanti al resto del mondo. La storia è nota: dal 1497 gli ebrei portoghesi erano stati costretti ad accettare il battesimo e gli antenati dell’autore, come tanti altri correligionari, portavano avanti una vita scandita dal terrore dell’arresto per delitto di apostasia e il conseguente processo davanti al Tribunale dell’Inquisizione, con il rischio estremo di venire condannati al rogo. Ad esempio, Dona Isabel Henriquez Bocarra, parente di Josè Bocarra, padre di quel Benjamin Y Bocarra che diede inizio alla stirpe tunisina dei Bocarra, nel 1670 fu rinchiusa nella prigione di penitenza del Sant’Uffizio di Toledo in seguito alla seguente condanna: “Dona Isabel Henriquez Bocarra, nata a Toledo, di nazione portoghese, residente a Madrid, di 34 anni…[condannata] per l’osservanza della legge di Mosè, si presentò all’autodafè con sanbenito, lettole la sua sentenza fu riconciliata in forma, e condannata all’abito [il sanbenito], al carcere perpetuo irremissibile e alla confisca dei beni, dato che cominciò a delinquere, come dichiarò, dall’anno 1644”.

Separata forzatamente dal marito Melchor Gomez Silveyra, al quale era stato risparmiato il carcere, Dona Isabel era stata condotta nella sua nuova prigione con un guardaroba fornitissimo che, quattro mesi più tardi, era stato rimpinguato da due camicie, una sottoveste, delle scarpe e un lenzuolo. Condannata alla prigione perpetua irremissibile (che era irremissibile solo di nome in quanto, su richiesta di indulgenza, il recluso veniva liberato in media dopo otto anni di reclusione), Dona Isabel aveva sfiorato la massima pena, il rogo, e fu riconciliata in seguito all’ammissione delle proprie colpe e a un pentimento che era stato ritenuto attendibile dagli inquisitori.

Peregrinazioni

Molti discendenti degli ebrei portoghesi convertiti a forza nel 1497 non attesero le perquisizioni dell’Inquisizione spagnola di cui fu vittima Dona Isabel Henriquez Bocarra per emigrare dal Portogallo verso lidi più tranquilli: una delle mete più battute a fine Cinquecento fu Venezia, dove gli ebrei portoghesi (o ponentini, così i Veneziani li distinguevano dai levantini) furono ammessi ufficialmente con la Ricondotta del 1589.

Altre due mete degli ebrei fuggiaschi furono Pisa e Livorno: dopo la cacciata da Pisa nel 1571, un importante passo avanti si ebbe nel 1591 e nel 1593, con due editti del granduca Ferdinando I, le cosiddette Livornine, che consentivano agli ebrei iberici di stabilirsi a Livorno, dichiarando liberamente la loro identità ebraica. Erano finalmente previsti libertà di religione e di culto, facilitazioni nel commercio, autonomia amministrativa e giurisdizionale e privilegi fiscali.

Nei primi decenni del Seicento, i commercianti ebrei trasferirono il loro domicilio da Pisa a Livorno; la creazione del porto di Livorno e il declino di Venezia condusse, infatti, parecchi mercanti ebrei veneziani a trasferirsi prima a Pisa e poi a Livorno: tra questi, alcuni dei Valensi che si erano stabiliti nella città adriatica.

Con la conquista di Tunisi nel 1574 da parte dell’esercito ottomano, i sovrani francesi appoggiarono i pascià contro i nemici spagnoli e, nel 1577, aprirono un Consolato di Francia a Tunisi e una Cancelleria. Arrivarono così molti ebrei italo-iberici: dopo aver abbandonato Spagna e Portogallo per l’Italia, attraversarono nuovamente il mare per raggiungere la costa africana: e non a caso, tradizionalmente, la comunità sefardita di Tunisi è designata come livornese. I primi Valensi attestati a Tunisi sono i fratelli Abram e David Valensin, che appaiono negli atti del Consolato di Francia nel 1615, famiglia che poi si specializzerà nella compravendita e trattamento del tabacco. Una data fondamentale della storia ebraica a Tunisi è il 1710, anno in cui venne creato il “Kahal Kadosh de Portugueses de Tunes”: gli ebrei livornesi crearono un proprio organo comunitario indipendente, con un proprio rabbino capo (nella persona di Rabbi Yitshaq Lombroso), una propria sinagoga, un proprio cimitero. Questa comunità venne da subito definita Comunità Portoghese e tale nome sopravvisse fino al 1944, anno della sua dissoluzione forzata. Per raddrizzare alcuni comportamenti contrari alla morale, al decoro e alla modestia, la Comunità promulgò delle regole di comportamento individuale, le Escamot (le prime nel 1726), tutte scritte in uno spagnolo spesso arcaico, infarcito di termini di varie origini (dall’arabo al portoghese, dall’italiano al francese all’ebraico); ciò dimostra come lo spagnolo fosse rimasto la lingua più famigliare per questo gruppo.

Sotto i francesi

Dopo questa fase iberica, le famiglie Valensi e Boccara vivranno il periodo italo-francese: se, infatti, per tutto il Settecento gli antenati dell’autore parlavano in spagnolo (o in portoghese), nell’Ottocento avevano adottato l’italiano come lingua di comunicazione familiare; l’italiano venne sostituito, o semplicemente accompagnato, dall’uso del francese in seguito alla conquista della Tunisia da parte della Francia nel 1881.

I nonni Boccara sono un esempio del dualismo italiano/francese: nel 1783 nasceva, francese, Clotilde Cattan che, nel 1890, sposava Elia Boccara, italiano; nel 1882 nasceva Henriette Valensi, discendente di una famiglia livornese ma francese di origine, la quale sposò nel 1902 Isacco Boccara, italiano. In quegli anni Mussolini ottenneva la simpatia di molti ebrei in Italia e anche in Tunisia. Il fascismo italiano rappresentava agli occhi degli italiani in Tunisia, ebrei o meno, una difesa della loro italianità gravemente minacciata dal regime francese. Giorgio Boccara, padre dell’autore, si iscrisse al partito fascista, ma senza mai partecipare alle riunioni di partito e senza mai indossare la camicia nera: per lui era sufficiente che il fascismo difendesse gli italiani di Tunisi dall’invadenza francese. Anche dopo la promulgazione delle Leggi razziali, la vita degli ebrei tunisini continuò pacificamente: Elia potè frequentare la scuola italiana, senza ricevere insulti per la propria religione, tranne sporadiche eccezioni. La situazione cambiò radicalmente quando Mussolini dichiarò guerra a Francia e Inghilterra. Le autorità locali invitarono tutti gli italiani di sesso maschile fino ai cinquant’anni, compresi gli ebrei, a presentarsi in luoghi di raccolta da dove sarebbero stati condotti in un campo di concentramento. Giorgio Boccara fu arrestato e inviato nel campo di concentramento del Kreider, nel sud algerino, vicino al confine con il Marocco; tornò a casa un mese e mezzo dopo, quando l’armistizio con la Francia era stato firmato già da un pezzo.

Nel novembre 1942 gli americani effettuarono un massiccio sbarco in Africa del Nord, in Marocco e Algeria; per tamponare questa mossa le truppe italo-tedesche arrivarono in Tunisia; incominciarono quasi subito i terribili bombardamenti inglesi e americani del porto di Tunisi che colpivano zone sempre più vicine alla casa dei Boccara, che decise allora di trasferirsi a Cartagine. Il 7 maggio 1943 Tunisi venne liberata dagli alleati che consegnarono il potere al governo provvisorio di De Gaulle. Tutti gli italiani, compresi gli ebrei, ebbero i loro beni posti sotto sequestro; molti giovani furono sottoposti al lavoro obbligatorio; dopo la liberazione dell’Italia, furono espulsi e i loro beni confiscati come “danni di guerra”. A Giorgio fu risparmiato il campo di concentramento ma furono anni di umiliazioni: le scuole italiane vennero chiuse, la plurisecolare Comunità Ebraica Portoghese fu soppressa e tutti i suoi membri e i suoi beni immessi d’autorità nella Comunità Tunisina.