Antifascismo ebraico: Eugenio Curiel, l’intellettuale, l’antifascista e il ragazzo dal volto gentile

di Redazione
A Milano, in piazza della Conciliazione 4, c’è una targa commemorativa dedicata a Eugenio Curiel: a pochi metri da lì, il 24 febbraio 1945, due mesi prima della Liberazione del 25 aprile 1945, veniva assassinato l’antifascista, il partigiano, lo studioso, l’insegnante di famiglia ebraica il cui nome resterà indissolubilmente legato alla lotta politica e democratica di quegli anni. Così recita la motivazione della Medaglia d’oro al valore militare conferitagli alla memoria: “Docente universitario, sicura promessa della scienza italiana fu vecchio combattente, seppur giovane d’età, nella lotta per la libertà del popolo. Chiamò a raccolta, per primo, tutti i giovani d’Italia contro il nemico nazifascista. Attratta dalla sua fede, dal suo entusiasmo e dal suo esempio, la parte migliore della gioventù italiana rispose all’appello ed egli seppe guidarla nell’eroica lotta ed organizzarla in quel potente strumento di liberazione che fu il Fronte della gioventù. Animatore impareggiabile è sempre laddove c’è da organizzare, da combattere, da incoraggiare. Spiato, braccato dall’insidioso nemico che vedeva in lui il più pericoloso avversario, mai desisteva dalla lotta. Alla vigilia della conclusione vittoriosa degli immensi sforzi del popolo italiano cadeva in un proditorio agguato tesogli dai sicari nazifascisti. Capo ideale e glorioso esempio a tutta la gioventù italiana di eroismo, di amore per la Patria e per la Libertà”.

Lo storico Gianni Fresu, in ‘Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo’, edito da Odradek nel 2013, afferma: “Sebbene sia alla base della nostra Costituzione repubblicana, molti e continui sono stati i tentativi vòlti a ridimensionare la funzione della Resistenza nella storia della liberazione dal nazionale. Tra le pieghe delle rimozioni forzate, o di affrettate esigenze di riscrivere la storia, sono rimaste esperienze collettive e singole personalità di un certo rilievo ma destinate all’oblio della memoria. Fra esse il giovane intellettuale triestino Eugenio Curiel, una figura poliedrica, per interessi e propensioni intellettuali, che immolò la sua stessa esistenza alla causa della liberazione, come tanti della sua generazione. Ma che rappresentò all’interno del PCI una istanza originale di dialogo con le altre forze, Socialisti e Azionisti, in particolare. Morto senza aver ancora compiuto 33 anni, ha lasciato un patrimonio di riflessioni, analisi, proposte ed esperienze politiche concrete, degne di maggior attenzione per comprendere meglio le origini della nostra democrazia repubblicana e il travaglio umano che la generò. Eugenio Curiel si formò e raggiunse l’età adulta negli anni di massima espansione del regime di Mussolini, e fu interprete e ispiratore della “generazione degli anni difficili”, assolvendo un ruolo di cerniera tra le esigenze di quei giovani, cresciuti e educati nella dottrina del fascismo, ma profondamente insoddisfatti delle sue realizzazioni concrete, con quelle dei precedenti protagonisti dell’antifascismo”.

Studi, passioni e ricerche di un’anima poliedrica

Eugenio Curiel nasce l’11 dicembre del 1912 a Trieste. È il maggiore di quattro fratelli di una famiglia ebraica della locale borghesia. Il padre Giulio Curiel è ingegnere presso i cantieri San Marco siti in città e la madre, Lucia Limentani, è sorella del filosofo Ludovico Limentani, docente all’Università di Firenze. Ludovico Limentani è lo zio che ospiterà Eugenio nel capoluogo toscano, dopo la maturità scientifica ottenuta nel 1929, per frequentare la facoltà di Ingegneria dell’Università di Firenze. Un biennio intenso e fruttuoso di studi che lo porterà a trasferirsi a Milano nel 1931 per iscriversi al Politecnico, per poi tornare in Toscana pochi mesi dopo, optando però per il corso di laurea in Fisica dell’Università fiorentina. È infatti la fisica teorica ad appassionarlo. Per mantenere la propria indipendenza economica, anche a causa di sopraggiunti problemi famigliari, dà lezioni private e nel dicembre 1932 ottiene il diploma di maestro elementare. Su invito dell’amico Bruno Rossi, vincitore della cattedra di fisica sperimentale all’Università di Padova, Curiel si trasferisce infine nel 1933 nella città veneta, dove termina gli studi e si laurea in Fisica con il massimo dei voti e la lode.

A discapito della sua formazione scientifica, non era solo la fisica ad animare le sue varie ricerche anche interiori e filosofiche. Segnato da sue profonde incertezze, svela in una lettera a Bruno Rossi di soffrire di nervi e di essere altresì affascinato dagli insegnamenti dell’antroposofia di Rudolf Steiner, un interesse lo spinge verso un’autodisciplina sia fisica che psicologica. Scrive l’enciclopedia Treccani che “alla ricerca di un orientamento sicuro e profondamente deluso da quanto lo circondava, si avvicinava, molto probabilmente attraverso il gruppo triestino “Verità e Scienza”, al movimento antroposofico, alle teorie di Rudolf Steiner. […] Le conseguenze della scelta antroposofica furono importanti e rimisero in discussione anche i rapporti con la famiglia, il lavoro, la scienza”. Una messa in discussione che lo spinge ad accettare una supplenza al ginnasio di Montepulciano. Tornerà a Padova nel 1934, dove Bruno Rossi gli offre un posto di assistente universitario di meccanica razionale.

L’interesse di Eugenio Curiel per l’antroposofia steineriana sembra diminuire gradualmente nel tempo, facendo spazio a una nuova prospettiva influenzata da grandi pensatori del passato e dai movimenti ideologici emergenti. Accanto a maestri come Kant, Fichte, Hegel, Croce e Gentile, emergono nell’orizzonte intellettuale di Curiel le figure di Georges Sorel e le tematiche del sindacalismo anarchico. Presso l’Istituto di filosofia del diritto, Curiel sviluppa una proficua amicizia con gli assistenti Ettore Luccini ed Enrico Opocher, figure di riferimento nel panorama accademico dell’epoca.

Esperienze e militanza politiche e antifasciste

Durante il suo soggiorno a Padova nel 1933, il destino porta Curiel a riallacciare i legami con un amico d’infanzia di Trieste, Atto Braun, con il quale divide l’alloggio. Un incontro che segna una svolta poiché Braun è un militante clandestino del Partito Comunista Italiano. Attraverso dibattiti accesi e la condivisione di testi fondamentali come il Manifesto di Marx ed Engels, l’Anti-Dühring e il ‘Che fare?’ di Lenin, Curiel si avvicina al mondo del marxismo e della lotta di classe. Nel 1935 aderisce al piccolo circolo comunista clandestino universitario padovano insieme a Atto Braun, Guido Goldschmied e Renato Mieli. Da questo momento in poi, la sua attività politica e intellettuale prende una svolta decisiva. Dal 1937 Curiel inizia a scrivere per la pagina sindacale de Il Bò, il giornale universitario di Padova, redatto da giovani fascisti insofferenti dell’ortodossia del regime, ma anche da antifascisti mascherati, come lo stesso Braun. Il Partito comunista cerca infatti di introdurre propri membri nelle organizzazioni sindacali e studentesche fasciste per infiltrarle e indirizzarle verso una critica al regime. Su Il Bò Curiel dà voce alle esigenze e alle rivendicazioni del mondo operaio e contadino, al contempo dissertando sulle questioni sociali e sulla politica estera, contro le mire espansionistiche della Germania e l’aggressione giapponese alla Cina.

Lo storico Gianni Fresu al convegno ‘La figura e il pensiero di Eugenio Curiel nel 70° anniversario della sua uccisione’, svoltosi all’Università di Milano nel 2015, spiega: “Dividere l’Italia in due blocchi monolitici e contrapposti (da una parte le anime perse e irrecuperabili dei sostenitori del regime, dall’altra i puri del movimento antifascista), non aveva senso per Curiel. Grazie alla forza di un’efficace azione repressiva e alla macchina della propaganda, il regime aveva il sostegno dalla maggioranza degli italiani, dunque anziché ritrarsi in una sfera di presunta purezza e limitarsi a un’attività cospirativa incentrata sulla mistica del gesto, bisognava mischiarsi con quel popolo, quotidianamente, entrare nelle organizzazioni di massa del regime, coglierne le intime contraddizioni e svuotarne dall’interno le sue basi di consenso. Lavorare nel sindacato fascista e utilizzare le singole lotte economiche dei lavoratori, era la strada scelta per perseguire questo obiettivo. Per Curiel ciò valeva particolarmente per i giovani ingannati dal regime, presso i quali l’antifascismo doveva compiere un faticoso lavoro di conquista egemonica. In questo groviglio di contraddizioni risiede, in estrema sintesi, il movente del primo impegno militante di Curiel, e soprattutto la decisione a entrare nella redazione de «Il Bò» e occuparsi di questioni sindacali”.

Nel 1937 Eugenio Curiel va a Parigi, sede del centro estero del Partito Comunista, e stabilisce contatti con importanti dirigenti politici come Emilio Sereni, Ambrogio Donini e Ruggiero Grieco. Pubblica un articolo dal titolo ‘Il nostro lavoro economico-sindacale di massa e la lotta per la democrazia’ su Lo Stato operaio, utilizzando lo pseudonimo di Giorgio Intelvi. Giorgio sarà anche il suo nome di battaglia da partigiano.

Nei primi mesi del 1938 Curiel viene convocato a Roma insieme a Ettore Luccini dal presidente della Confederazione dei Sindacati e sottosegretario alle Corporazioni fasciste, Tullio Cianetti, il quale, nonostante ignori la vera affiliazione politica di Curiel, lo avverte sui pericoli dell’infiltrazione “sovversiva” nelle organizzazioni fasciste e gli consiglia di procedere con maggior cautela nelle sue attività future, soprattutto alla luce delle segnalazioni sulla sua presenza in pubblicazioni antifasciste all’estero.

Le leggi razziali, l’arresto e il confino a Ventotene

Il Bò, nell’agosto del 1938, pubblica un articolo che elenca i nomi dei docenti ebrei nelle Università italiane, tra cui compare anche Eugenio Curiel. A novembre dello stesso anno vengono emanate le leggi per “la difesa della razza” e, come molti altri, viene allontanato dall’insegnamento. L’espulsione dall’Università rende più difficile la sua sussistenza economica e lo fa sospettare di antifascismo, complicando la sua attività politica clandestina. Parte allora per la Svizzera, dove, con l’aiuto di Sergio De Benedetti, del movimento Giustizia e Libertà, raggiunge di nuovo il centro estero comunista di Parigi. Questa volta, vi trova però un clima carico di sospetti e di volontà di epurazioni. Anche se non gli vengono mosse accuse specifiche, Curiel trascorre mesi amari a Parigi durante i quali cerca contatti con altri esponenti dell’antifascismo estero, sia socialisti che di Giustizia e Libertà.

Nel gennaio 1939, scrive un articolo proprio per l’omonimo giornale di Giustizia e Libertà e consegna al socialista Giuseppe Faravelli un saggio intitolato ‘Masse operaie e sindacato fascista’, ribadendo la necessità di utilizzare i sindacati fascisti per svolgervi un’opera di politica antifascista. Torna a Milano nel febbraio seguente, dove risiede dalla sorella Grazia. In aprile, si trova nuovamente in Svizzera, dove discute con il socialista Pietro Nenni le possibilità di organizzare a Milano comitati di azione comuni. Successivamente, cerca di entrare clandestinamente in Francia, ma viene fermato alla frontiera e rispedito alla polizia svizzera che lo riconsegna alla frontiera italiana. Continua a sostenere la necessità di stretti legami tra socialisti e comunisti attraverso lettere e articoli, fino a quando, il 24 giugno 1939, viene individuato e arrestato a Trieste dalla polizia italiana.

Trasferito nel carcere di San Vittore a Milano, Eugenio Curiel affronta gli interrogatori senza mai svelare nulla che la polizia fascista non sappia già. Poi, il 13 gennaio 1940, arriva la sua sentenza: cinque anni di confino sull’isola di Ventotene, dove Curiel giunge il 26 gennaio seguente e dove resterà fino all’agosto del1943. A Ventotene incontrerà decine di antifascisti: vi si trovavano o vi erano passati, tra gli altri, i comunisti Luigi Longo, Pietro Secchia, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio, i socialisti e gli azionisti Lelio Basso, Sandro Pertini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Giuseppe Romita e un amico di Curiel, Eugenio Colorni.

Dopo il confino Curiel torna a Milano, dove dirige i giornali clandestini L’Unità e La nostra lotta. Un periodo tumultuoso in cui lavora instancabilmente per unire i giovani antifascisti di ogni colore politico fondando il Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. È in questo scenario che elabora la sua teoria della democrazia progressiva. Leggiamo nel volume Scritti (1935-1945), Greenbooks editore, queste stesse parole di Eugenio Curiel: “Ogni giovane deve vivere la sua vita collettiva, deve partecipare nella misura che la cospirazione lo consente a un organismo collettivo, a un gruppo del Fronte della gioventù, a un Comitato di studenti o di operai o di contadini, a un organismo nel quale si elabori in comune un piano di lavoro e si attribuisca a ciascuna la sua responsabilità. Così l’opera di persuasione del giovane comunista non rimarrà sul piano generico della semplice propaganda, ma si realizzerà guidando i giovani all’azione, facendo di essi i costruttori coscienti di una società nuova, preparandoli a quella democrazia progressiva che è la condizione per la conquista di una vita migliore della gioventù. Democrazia progressiva, infatti, non è un insieme di leggi che ad alcune istituzioni sostituiscono altre istituzioni, ma è coscienza dei problemi nazionali, è partecipazione di ognuno attraverso gli organismi collettivi, gli organismi di massa, alla costruzione di una nuova Italia”.

Ancora Gianni Fresu spiega che “il tema prediletto di Eugenio Curiel tra il 1944 e il ‘45 è senz’altro quello della democrazia progressiva, ossia, l’esigenza di preparare attraverso la lotta di liberazione le condizioni per un avanzamento sociale e politico delle masse popolari nel post-liberazione. Intensificare la partecipazione popolare attraverso gli organismi della resistenza – CLN, Volontari della libertà, Comitati di agitazione, Comitati contadini, Fronte della gioventù, Gruppi di difesa della donna, Giunte popolari delle zone liberate – significava dare da subito fondamenta solide a una tale prospettiva […]. Questa processualità necessariamente si sarebbe dovuta manifestare nel contributo delle masse popolari alla ricostruzione materiale e morale del Paese”.

Una ricostruzione che Eugenio Curiel non vedrà, come non vedrà la pace, ma che studia e definisce entrambe come sforzo collettivo. Così ne parla infatti in Scritti (1935-1945), Greenbooks editore: “La ricostruzione è quindi uno sforzo collettivo che deve unire tutti i popoli, gettando, nella coscienza dei comuni interessi alla pace e alla libertà, le basi per una progressiva conferenza internazionale. Così, nella pace si verranno a rinsaldare i legami che già oggi stringono i popoli liberi e i popoli oppressi e la solidarietà di oggi si concreterà in un’organizzazione collettiva per la pace”.

L’agguato e l’assassinio a Milano

A Milano, quel pomeriggio verso le tre del 24 febbraio 1945, Eugenio Curiel è appena entrato al bar Motta di piazzale Baracca, all’angolo con corso Vercelli, probabilmente per incontrare un compagno e, forse, secondo altre ricostruzioni, per incontrare o per andare dalla sorella Grazia. Subito dopo entrano nel locale anche dei militi delle brigate nere, fra cui un agente del servizio di spionaggio tedesco, che conosce Curiel, perché quel milite è un ex confinato a Ventotene, già isolato dagli antifascisti e poi messosi al servizio della polizia. Probabilmente Curiel capisce che quell’uomo è il suo delatore. Ha con sé un documento di identità falso, intestato a Carlo Betti, ma viene riconosciuto e avvicinato. In pochi attimi, forse per proteggere altri o, secondo alcune ipotesi, per non consegnare dei documenti che aveva con sé, oltre che per sfuggire alla cattura, Curiel decide di tentare la fuga correndo verso via Enrico Toti, sperando forse di confondersi fra i passanti. Ma una raffica di mitra, sparata da altri militi, lo colpisce a una gamba, facendolo cadere. Si rialza e riprende la corsa, ma viene raggiunto da una serie di raffiche che lo mettono a terra. Gli aggressori lo trascinarono nel portone di via Toti 4 e lì lo derubano e abbandonano. Curiel non è ancora morto e se un’ambulanza arrivasse in tempo, secondo alcuni, potrebbe salvarsi. Pare anche che lì vicino si trovi a passare uno dei più autorevoli componenti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, Leo Valiani, che assiste al tragico epilogo di quello che è a tutti gli effetti un agguato.

Di quei drammatici momenti scriverà lo scrittore e compagno di lotta Elio Vittorini: “Dov’è ora Giorgio per il nostro affetto? Legato a quello che gli è accaduto, fermo come un orologio a quelle ore tre del pomeriggio, in quel piazzale Baracca, quel 24 febbraio. Viene da una strada diretto a entrare in un’altra, attraversa il piazzale, nel sole che è stato di quell’ora, e una cieca scarica di piombo gli becca e trapunge le gambe; Giorgio cade ma non sa perché sia caduto. Non fanno male le ferite al momento stesso in cui le riceviamo. Giorgio vuole rialzarsi, capire che cosa sia stato, e appoggia in terra le mani, forse si siede. Cerca anche gli occhiali? Certo Giorgio, cadendo, ha perduto gli occhiali. Allora lo percuote nell’addome la seconda scarica che lo ferma. E questo è ora Giorgio per noi, fermato in quel punto per sempre, e il nostro affetto, che lo vede, diventa in noi qualcosa di più, sicurezza di più che conquisteremo tutto quello in cui Giorgio credeva, una vita migliore infondo a tutta questa lotta, libera per tutti gli uomini, felice per tutti gli uomini. Questo è ora Giorgio per noi. Fermo nell’atto in cui fu assassinato e la sua fiducia ferma in noi, donata da lui a noi pur in mezzo alla nostra perdita”. Il giorno dopo l’assassinio di Eugenio Curiel alcune cronache riportano la notizia dell’uccisione di uno sconosciuto. Sempre Elio Vittorini scriveva invece sul numero dell’Unità ancora clandestina del 9 aprile 1945: “Cani sanguinari che ancora battono le vie di Milano, in questi ultimi giorni della loro repubblica protetta dal Reich, possono cantare vittoria per una volta. […] L’uomo che una loro pattuglia di militi uccise e derubò in piazzale Baracca, alle tre del pomeriggio, qui a Milano, non era uno ‘di nessuno’. Era ‘nostro’ del Partito comunista italiano e dell’Italia che lotta. Era Giorgio: aveva trentadue anni, il volto gentile di un ragazzo, tanto di più se sorrideva nei momenti lievi, con quei suoi denti bruciati dal fumo: e tanto di più anche nei momenti duri, se porgeva ad altri la sua fiducia, la sua sicurezza, la sua forza”.