Festival / Gut shabes, Mister Lubitsch

di Roberto Zadik

È risaputo, quasi un luogo comune: il mondo del cinema americano è sempre stato per gran parte “ebraico”, registi e attori in abbondanza, a cominciare da Alan Crosland che nel 1920 diresse il primo film sonoro della storia del cinema, The jazz singer, per arrivare a Ernst Lubitsch, Mervyn Le Roy e Michael Curtiz, a Billy Wilder, a Sidney Lumet, a Stanley Kubrick e a innumerevoli altri. Una folla impressionante di attori, sceneggiatori e produttori che tuttavia, prima degli anni Settanta, furono sempre molto reticenti, quasi “timidi”, nell’affrontare il loro rapporto con la religione ebraica e a filmare scene che raccontassero aspetti religiosi, devozionali, rituali o di preghiera in tempio. E poco propensi a trasferire sul grande schermo momenti di vita ebraica importanti come la cena del venerdì, all’entrata dello Shabbat.

Insomma una specie di pudore, quasi un tabù, che dopo la metà degli anni Sessanta e negli anni Settanta verrà superato dalle prime avvisaglie del multiculturalismo. Se in The jazz singer di Alan Crosland l’allusione al mondo ebraico era dichiarata (storia di un ragazzo ebreo che preferì la musica alle tradizioni), in seguito il tema ebraico venne declinato in svariati modi: con i peplum storico-biblici (I 10 Comandamenti del regista ebreo Cecil De Mille), o con temi che riguardavano Israele (è il caso del kolossal Exodus di Otto Preminger), o ancora con la satira del nazismo, vedi il celebre monologo teatrale di Shylock riproposto da Lubitsch in Vogliamo vivere del 1942.

Ma bisogna aspettare gli anni Sessanta e le coproduzioni internazionali perché si arrivi parlare davvero di tradizioni ebraiche al cinema. Lo dimostrano musical come Il violinista sul tetto con due star come l’israeliano Chaim Topol e con Barbara Streisand, diretti nel 1973 da Norman Jewison (quello di Jesus Christ Superstar), dedicato interamente alla vita ebraica degli shtetl dell’Europa Orientale con tanto di cena di famiglia attorno al tavolo di Shabbat.

Dello stesso anno, 1973, il film francese Le folli avventure di Rabbi Jacob, interpretato dal grande comico Louis De Funes, pieno di riferimenti ebraici con una scena in particolare ambientata in tempio. Lo Shabbat ritorna nel film Gli eletti (titolo ambiguo e controverso), tradotto dall’inglese The chosen, adattamento cinematografico del capolavoro di Chaim Potok. Diretto nel 1981 da Jeremy Kagan con un Rod Steiger insuperato (jewish anche lui), il film tratta del rapporto fra due amici, Reuven, laico e sionista e Danny, religioso e studioso del Talmud. E ancora: l’ebreo secolarizzato Sidney Lumet nel 1989 gira il thriller Un’estranea fra noi, incursione inaspettata del cineasta all’interno del mondo chassidico, e pieno di riferimenti ebraici, utilizzando un intreccio da film d’azione per raccontare le origini familiari del regista.

Ma dobbiamo aspettare gli anni Novanta e Duemila per esplicitare ancor di più lo Shabbat e i temi devozionali. Ad esempio nel film The Big Lebosvski dei fratelli Cohen, del 1995, John Goodman dichiara di essere shomer shabbat e di rifiutarsi di giocare a bowling “I don’t roll on shabbos”. E in Radio Days del 1989, un Woody Allen autobiografico narra dell’ebraicità sgarrupata della sua famiglia, e ripropone il tema nell’amaro Harry a pezzi, uno di film più strettamente ebraici di Allen, descrive in più di una scena, in maniera irriverente, la berachà per il vino e per il pane affrontando anche altre tematiche, dalla circoncisione, al confronto fra laicità e religiosità.

Sempre di quel periodo, nel 1997, Billy Crystal affronta la propria identità ebraica in Mister sabato sera, nel doppio ruolo di interprete e regista; e ancora Ben Stiller, con il suo Tentazioni d’amore fa il rabbino reform accanto al “prete” Edward Norton. Fino al polemico e intenso Kadosh, del 1995, di Amos Gitai, che riflette sul mondo religioso, o fino al raro e brillante caso di commedia “ebraico-tedesca” come Zucker-come diventare ebreo in sette giorni o al francese Alyah di Cedric Kahn, (numerosi i Shabbat del film), dove un ebreo con problemi con la legge intende fuggire in Israele non per credo sionistico ma per salvarsi il collo.