Perché questa sera è così diversa dalle altre sere?

Feste/Eventi

Al Quirinale per il pranzo di Stato in onore del presidente dello Stato d’Israele Moshe Katsav


Novembre 1938. Torino.

E’ mattina presto. Una bimba magra e lunga, gli occhi grandi e scuri, la cartella in spalla e il fratellino per mano, si avvia lungo la discesa ripida di via Villa Quiete per il suo primo giorno di terza elementare. E’ un giorno speciale per Luisella Ottolenghi: la scuola è diversa, la maestra e i compagnetti pure. Non più la scuola elementare pubblica, ma l’appena organizzata Scuola Ebraica Colonna e Finzi. Non più la grassa, morbida e dolcissima maestra Cattaneo, ma la severissima, arcigna e magrissima Bianca Amar. Non più i bimbi dei quartieri di fianco a casa sua, ma molti dei suoi tanti cuginetti a farle da compagni di classe. Perché, come altre migliaia di bimbi e ragazzi italiani, Luisella poco meno di un mese prima era stata cacciata da tutte le scuole del Regno. La sua unica colpa: essere ebrea.

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15 Novembre 2005. Roma. E’ sera. Una macchina blu si ferma di fronte all’entrata del Palazzo del Quirinale, ne scende una bella signora dai capelli candidi, gli occhi grandi e scuri appena velati dagli anni e da un paio di occhiali importanti. Le dà il braccio sua figlia, una donna magra e lunga, mentre si avvia verso il portone principale del Palazzo. Luisella Mortara Ottolenghi alza lo sguardo. Sul Torrino sventolano, incrociate da un venticello leggero, quattro bandiere: il Tricolore, lo Stendardo del Presidente della Repubblica, quella azzurra e stellata dell’Unione Europea, quella bianca e blu con la Stella di David dello Stato d’Israele. “E pensare che la mia vita è iniziata con le Leggi Razziali…”, sussurra Luisella a sua figlia.
Le due donne si avviano lentamente a passare la sicurezza. Le carte di identità vengono esaminate: “Mortara Raffaella Marianna”, scandisce ad alta voce il funzionario del Palazzo.

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22 Ottobre 1858. Roma. “(…) I genitori possono, finalmente riabbracciare il figliolo. Per Marianna è la prima volta dalla sera del rapimento. E’ un giorno cupo, salato di lacrime e di strazio quello in cui i due Mortara entrano nell’edificio dei Catecumeni. ‘Lo trovai sempre a me affezionatissimo’ ricorderà [Marianna] più tardi, ‘e mi si gettò al collo e per la reciproca nostra emozione siamo restati io e il ragazzo convulsi.’ L’incontro, come tutti quelli che seguiranno nei quaranta giorni del soggiorno romano di Marianna, avviene sotto l’occhiuta sorveglianza del rettore (…)” (1) Intorno ai primi di dicembre Momolo e Marianna Mortara ritornano a Bologna senza aver ottenuto da Pio IX la restituzione del figlio. “(…) il padre mostra un grande coraggio, ma la madre è un ben più doloroso spettacolo. Benché non pianga più (…) l’autocontrollo che si sforza di esibire non fa che rendere più evidente il suo dolore e la sua afflizione. Se il Santo Padre avesse potuto vedere questa donna come io l’ho vista, non avrebbe il coraggio di trattenere suo figlio neppure per un altro istante.” (2) Ma Pio IX non ricevette mai Marianna, non la vide mai nel suo muto, indomito e dignitosissimo strazio e si appropriò dell’affetto di quel suo amatissimo figlio. Viene Natale: “Il Natale cristiano è per Edgardo una festa quasi sconosciuta. Il rettore dei catecumeni, don Sarra, gli preannuncia emozionato che in quella particolare ricorrenza avrà l’onore raro di essere ricevuto dal pontefice in persona al Quirinale. Consuetudine che d’ora in avanti si ripeterà fino a quando, ormai giovane uomo, Edgardo abbandonerà Roma.” (3)

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15 novembre 2005. Roma. Lo scalone del Quirinale dal quale scendeva, portato dai sediari, Pio IX è immenso. Un gradino sì e uno no, uno splendido Corazziere saluta militarmente e Luisella e Raffaella Marianna affrontano lente la salita.
Poco prima di loro, disegnata di nero, affaticata appena dalle sue splendide novanta primavere, la figura di Rav Elio Toaf, l’unico oltre a Monsignor Stanislao Dziwisz ad essere stato citato nel testamento di Papa Giovanni Paolo II, il Pontefice che per primo dai tempi di Pietro è entrato in una Sinagoga, il Pontefice che nel corso del Giubileo del 2000 ha chiesto perdono agli ebrei per quanto fatto dai cattolici in duemila anni di persecuzioni, il Pontefice che ha inaugurato le relazioni diplomatiche con lo Stato d’Israele.
“Cielo! Quant’è lungo questo scalone.”, pensa Raffaella Marianna presa dalla doppia preoccupazione del cuore fragile e malato della madre e, con una punta di civetteria, di non inciampare nell’abito lungo che le si arrotola alle caviglie. “Chissà se Cenerentola si sentiva così, andando al ballo? Chissà se anche lei si sentiva, contemporaneamente, esattamente dove si doveva trovare e totalmente fuori posto?” Ma grazieaddio lo scalone finisce e dopo le ultime incombenze del cerimoniale e l’ultima camminata davanti al drappello dei Corazzieri luccicanti d’argento, la festa può cominciare! Ed è subito famiglia. Quanti i visi conosciuti, i baci scambiati come un soffio a lato di guance perfettamente truccate. Come brillano gli occhi di tutti: larghi a non perdere neppure un dettaglio di quella sera così speciale, magica quasi, da archiviare con cura nei file della memoria cosicché, quando gli anni si faranno di più, rimanga vivida, da raccontare come una fiaba ai nipotini. Le chiacchiere sono lievi e frivole: “Che bello sei nel tuo smoking perfetto, tu, una volta, rivoluzionario dai capelli lunghi, ora custode appassionato delle ingiustizie fatte al nostro popolo? E tua moglie con una corona di roselline a disegnarle il decoltée?” Sussurra Raffaella Marianna sfoderando la sua vocazione al gossip mondano. “E che gioielli… Quanta poca pelle lasciata scoperta da brillanti, perle e smeraldi.” “Chi d’altri ci sarà?” “Dove sei seduto?” Passa il tempo e il caldo si fa sempre più intenso, il riscaldamento al massimo per difendere dal freddo le signore dalle spalle nude. Poi gli ospiti, lentamente, in fila per due sfilano davanti ai Presidenti e alle loro Signore. Piccini entrambi, il Presidente Katsav e il Presidente Ciampi, ma che stature morali! Alla fine sembrano giganti. “Shalom, Shalom”, al Presidente dello Stato d’Israele. Piccole, dolci parole con il Presidente della Repubblica e con la Signora Franca.
E d’improvviso la luce accecante di tre enormi lampadari. I lunghissimi tavoli perfettamente candidi. E i valletti in rosso a indicare i posti assegnati. Venti minuti passano finché tutti i posti si riempiono. Venti minuti a guardare con il cavaliere di destra, Gad Lerner, i bicchieri d’acqua resi intoccabili dalla forma. “Come avranno fatto per la kasheruth?” Una sbirciata al menu: “Pesce, ovviamente.” “Come si diranno crespelle e spigola in ebraico?” Il testo a fronte strappa un sorriso a Raffaella Marianna e a Gad: Krespele e dag sfigolah si legge traslitterato in caratteri ebraici!
Appena seduti, iniziano i discorsi. Il Presidente Ciampi scandisce le parole col suo familiare accento toscano: “Signor Presidente, Signora Katsav, Signore e Signori, Sono particolarmente lieto di riceverla nuovamente al Quirinale a quasi tre anni di distanza dalla sua gradita visita a Roma. La accolgo nel vivo ricordo del caloroso benvenuto riservatomi in occasione della visita di Stato che ho compiuto nel Suo Paese sei anni fa (…). La Sua visita di Stato, la prima di un Presidente di Israele in Italia, segna un salto di qualità nelle relazioni italo-israeliane (…) Suggella un dialogo politico in espansione tra i nostri due Stati, che ha trovato espressione nell’impegno comune contro il terrorismo, nel contrasto dell’antisemitismo, nel sostegno dell’Italia alle aspettative di sicurezza dello Stato d’Israele (…) L’ebraismo è da sempre intrecciato alla storia d’Italia. Ha contribuito al suo sviluppo civile, al suo avanzamento scientifico. Ha partecipato intensamente a vicende determinanti per il nostro Paese anche nell’età moderna: dal Risorgimento alla vita politica dell’Italia unitaria, dalla prima guerra mondiale, alla Resistenza antifascista, fino all’apporto assicurato allo sviluppo nel dopo guerra. (…)”
Raffaella Marianna lascia che alle parole si affianchino le immagini…

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Primavera 1971. La nonna Ada Ottolenghi era una donna di grande intelligenza e di molta cultura. E le piaceva sedere, l’uncinetto in mano, mentre la sua nipotina più grande ripeteva le lezioni: l’aiutava con le poesie da imparare a memoria, con la geografia che diceva così diversa da quando l’aveva studiata (protestava sempre sull’Africa di cui non riconosceva gli Stati), ma quando si trattava di storia era lei che raccontava, intrecciando quella di famiglia con quella alta, del Risorgimento. Raccontava dello zio Giacomo Dina, zio della bisnonna di Raffaella Marianna, Emma Dina Ottolenghi. Di lui mostrava, a quella nipote curiosa, gli immensi libroni che raccoglievano le annate complete de L’Opinione, il quotidiano liberale da lui fondato e diretto negli anni 50 e 60 dell’Ottocento. Le pagine ingiallite rimandavano idee allora rivoluzionarie, di quell’Italia unita tanto voluta e per cui lo zio Giacomo combatté a suon di parole a fianco di Cavour. Le diceva che era stato deputato del Regno per alcune Legislature (4). Narrava anche che era piccino di statura. E poi a Raffaella Marianna ricontava di Isacco Artom, che le era parente per via della sua nonna Rachel, che, diceva, era stato il segretario di Cavour e poi Senatore per nomina Regia per quasi 25 anni (5).
Ma anni prima, Raffella Marianna ancora molto piccina, la nonna Ada aveva anche scritto una lunga lettera, che era proprio un libro, alla sua nipote più grande, lettera che aveva poi rilegato di rosso e dedicato a tutti i suoi cinque nipotini, che raccontava di una storia prodigiosa, fatta di eroi contadini, di valli paludose nella bassa Romagna, di partigiani in bicicletta e della beffa più straordinaria giocata ai tedeschi negli anni terribili del nazismo. Ma soprattutto, raccontava di quell’uomo coraggioso e magnifico che era stato il ‘suo’ Guido, mancato così giovane dopo le durissime prove della guerra. “Entusiasta organizzatore di bande armate sorte contro l’oppressore, si distingueva per attività, coraggio ed assoluta dedizione alla Patria. Pur sapendo di essere attivamente ricercato dalla polizia, incurante dei gravi rischi cui si esponeva, continuava imperterrito a lottare (…). In ogni circostanza faceva rifulgere le sue elevate doti di animatore dotato di spirito combattivo e profondo attaccamento alla causa nazionale. Romagna 8 settembre 1943 – 1 marzo 1944” così si legge nella motivazione per il conferimento della Medaglia di Bronzo al Valor Militare che Guido Ottolenghi ricevette nel 1954, quattro anni prima di mancare a soli 56 anni.

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15 novembre 2005. Roma. La voce del Presidente Ciampi si alza lievemente di un tono, perde di dolcezza, si fa imperiosa, quasi: “Gli italiani non dimenticheranno mai la tragedia della Shoah, anticipata dall’orrore delle violenze e delle leggi razziali, opera di un regime dittatoriale brutale e repressivo. La memoria della disumana atrocità dell’Olocausto deve rimanere viva per impedire che una simile barbarie possa ripetersi in futuro.”

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12 giugno 1991. Palazzo Giustiniani. Roma. Era un giorno torrido e la sala Zuccari era stracolma di gente. Il Presidente del Senato, Giovanni Spadolini, aveva voluto fortissimamente quella giornata fatta di ricordi e di memoria, di dolori e di orgoglio, di lacrime e di sorrisi. Era il giorno della presentazione della prima edizione del “Libro della Memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia. 1943-45” (6). Era il giorno in cui veniva dato il dovuto, meritatissimo risalto al lavoro immane, durato decenni, di Liliana Picciotto, che aveva, con l’aiuto fondamentale di tutta la Fondazione CDEC, ricostruito con estremo rigore storico e infinita pietà umana la storia delle 8566 persone – uomini e donne, vecchi e bambini – deportate dall’Italia.
Anche quel giorno era una voce d’uomo, possente e inflessibile, dal marcato accento toscano, a lanciare il suo monito: “Quella fiamma che risplende sulla ‘collina della rimembranza’ di Gerusalemme pervade anche le pagine toccanti di questo volume.’, diceva Giovanni Spadolini. “Non è un registro di nomi, né la catalogazione alfabetica di vite spente nel lampo accecante della follia. Il Libro della Memoria è un popolo di ombre che vigilano sulla nostra coscienza, la scuotono dal torpore sempre in agguato, dall’indifferenza in cui precipita quando la memoria si affievolisce. ‘Il futuro di un popolo – ammoniva Schlegel – è frutto sempre della memoria del passato. Più grande sarà questa, più sicuro sarà il suo futuro’. Alla memoria noi dobbiamo aggrapparci, perché in essa affondano le radici del nostro presente. All’interrogativo inquietante su che cosa resterà dell’Olocausto quando l’ultimo sopravvissuto sarà spento, il Libro della Memoria risponde con la sofferta e puntigliosa elencazione di quei nomi, dietro ognuno dei quali si intuisce la tragedia di una vita, una famiglia, una comunità. Ma raccolti in volume, allineati secondo un criterio rigorosamente alfabetico, essi sprigionano una forza ammonitrice straordinaria, disegnano il perimetro di quel cimitero nel quale con le vite di milioni di ebrei finì sepolta una parte della coscienza europea.”
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15 novembre 2005. Roma. La voce del Presidente della Repubblica Ciampi non perde di vigore quando afferma: “La creazione dello Stato d’Israele ha costituito uno storico atto di giustizia e di legittimità internazionale. Ha realizzato la visione di un popolo, animato dalla speranza nel futuro, dal desiderio di pace e sicurezza, dalla ricerca appassionata di solidarietà internazionale (…) La visione di progresso dei Padri Fondatori di Israele non sarà compiutamente realizzata senza il raggiungimento della pace con il popolo palestinese, senza la costituzione di uno Stato palestinese, senza la convivenza e la cooperazione tra i due Stati.”
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Settembre 1938. British Mandate of Palestine. Venti chilometri a Sud di Tel Aviv, un piccolo agglomerato di tende e baracche di legno, con una casa a due piani di pietra e una di cemento a un piano, (ma di ben quattro stanze, di cui essere veramente orgogliosi), sorge su una collina, dove la terra riarsa dal sole, lavorata con l’unico modernissimo trattore, sta cominciando a dare i suoi primi frutti miracolosi: un aranceto, una vigna, un vivaio per i nuovi germogli, un orto e due piccoli boschi, uno di pini e l’altro di eucalipti. Il kibbutz, fondato “illegalmente” nel 1928 da un gruppo di pionieri ebrei provenienti dalla Lituania, dalla Russia, dall’Ucraina e, successivamente, dalla Germania, guidati da un impavido, visionario e minuscolo italiano, Enzo Sereni, e da sua moglie Ada Ascarelli, rimase praticamente senza nome per due anni. Il 15 febbraio 1930, dopo il riconoscimento ufficiale delle istituzioni ‘nazionali’, Enzo Sereni propose all’assemblea generale di darsi un nome: il nome più votato fu Givat Brenner (la collina di Brenner), in onore del poeta Joseph Chaim Brenner.
Per 10 anni i kibbutznikim di Givat Brenner avevano vissuto, erano cresciuti e avevano prosperato circondati su tre lati da arabi. Enzo Sereni, s’era fatto punto d’orgoglio di mantenere sempre buoni rapporti con i vicini. Ma a seguito del Piano di Spartizione Inglese erano scoppiati numerosi incidenti che con l’andar del tempo si erano trasformati in una vera e propria sommossa. “(…) Le strade venivano interrotte, le ferrovie sabotate, le linee telefoniche distrutte; essi [gli arabi] tendevano imboscate, mettevano a fuoco i campi coltivati, facevano saltare in aria le cisterne per l’acqua e gli impianti idrici, attaccavano gli insediamenti ebraici. Nel Settembre 1938, Givat Brenner venne attaccato e i militari inglesi furono fatti affluire nelle vicinanze. Il Kibbutz organizzò una guardia armata ventiquattro ore su ventiquattro. (…) Nel bel mezzo di questa totale insicurezza, Enzo annunciò che si rifiutava di prestare servizio di ronda con un’arma da fuoco. Era una scelta di obiezione di coscienza. Questo gesto ghandiano concordava pienamente con la sua convinzione che i rapporti arabo-ebraici avrebbero trovato una soluzione solamente con mezzi pacifici.” (8)
Ma il “ghandiano” Enzo Sereni non esitò, solo 6 anni più tardi, a indossare una divisa e ad imbracciare un fucile quando si trattò di partecipare alla lotta di Liberazione dai nazi-fascisti in Italia, arruolandosi nell’esercito Britannico e facendosi paracadutare oltre le linee tedesche nel maggio 1944: sapeva della deportazione di massa da Roma, il 16 ottobre ’43, sapeva che la situazione peggiore era quella degli ebrei nel nord Italia, sapeva che suo fratello Emilio era rinchiuso nel braccio della morte delle “Carceri Nuove” di Torino, e non poteva, non voleva più tirarsi indietro. Il lancio andò male: il capitano Shmuel Barda, alias Enzo Sereni (nome in codice per la missione: Chaim) venne catturato e, transitando per il carcere di Verona e il campo di concentramento di Bolzano, fu deportato per motivi “politici” a Dachau (9). Come fu burocraticamente annotato sul registro del Campo, il capitano Shmuel Barda, Enzo Sereni, l’“ebreo che era venuto per sganciare le bombe su di noi”, come lo chiamavano i nazisti, fu “estinto” il 18 novembre 1944 (10)

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15 novembre 2005. Roma. “Signor Presidente, Italia e Israele condividono i valori fondanti della civiltà occidentale. Questa comunanza ideale ci incoraggia a rafforzare ancora di più la nostra collaborazione, ad intensificare l’impegno comune per la pace e la stabilità, per lo sviluppo di rapporti costruttivi con il mondo arabo e islamico. Con questi sentimenti, levo il calice (…) alla prosperità del popolo israeliano, all’amicizia fra i nostri due Paesi.”
La voce del Presidente Ciampi si spegne. Il rumore di centoottantotto seggiole smosse e di centoottantotto “cin-cin!” rimbomba nell’enorme sala del Quirinale.
Poi di nuovo silenzio. E la musicalità un po’ roca dell’ebraico risuona cristallina: “Adonì, Nascì a-Italia mar Carlo Ciampi…” “Signor Presidente della Repubblica d’Italia Carlo Azelio Ciampi (…) desidero ringraziarLa, Signor Presidente, per l’invito a compiere questa visita di Stato nel Suo Paese, una visita che riflette le relazioni di profonda amicizia che intercorrono fra i nostri popoli e i nostri Paesi. Lo Stato d’Israele apprezza e stima le posizioni dell’Italia e la sua politica, che si fondano su una storia comune e su una fede e dei valori comuni, valori etici e morali, valori universali. Una fede comune nei valori della democrazia, nella difesa dei diritti dell’uomo, nell’impegno contro l’antisemitismo e il razzismo. (…) Noi, popolo israeliano, non abbiamo mai cessato di pregare di tornare nella nostra terra; non si è mai interrotta la presenza ebraica in Terra d’Israele, non si è mai interrotta la “Aliyàh”, il ritorno degli ebrei da ogni parte del mondo in Terra d’Israele.”

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12 gennaio 1946. Tre chilometri a nord-est di Savona. “(…) Dalla banchina Ada [Sereni] guarda la nave allontanarsi verso il mare aperto. Quella nave, come tante prima e dopo, in gran parte è opera sua. Le altre si chiamavano Fede o Shabtai Lusinski, la più nota si chiamerà Exodus; questa è la Enzo Sereni e guardandola beccheggiare Ada rivede flottiglie di carta e sughero, e i giochi insieme, e l’amore… ‘(…) Dalla Enzo Sereni ad Alòn. Il sovraffollamento è indescrivibile. Abbiamo molti malati in cattive condizioni. Le medicine non sono sufficienti. L’acqua, già razionata al minimo, basterà per altri otto giorni da oggi. Il mare è cattivo.’ (…) ‘17 gennaio 1946. Dalla Enzo Sereni al Comando. Una nave da guerra inglese si sta avvicinando. Il comandante ci ha intimato di fermarci. Noi abbiamo rifiutato.’ La nave fu catturata e sequestrata, i profughi internati nel campo di concentramento di Atlit. Ma dall’Italia, grazie alla fantasia ebraica e al buon cuore degli Italiani (…), molte altre navi Ada riuscì a far partire verso la speranza. Fra chi partiva, per speranza o disperazione, e chi restava, per scelta o per paura, si creò una rete fitta di solidarietà, e una frattura insanabile.” (11)

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15 novembre 2005. Roma. “Anì sheich laam…” “Appartengo a un popolo che nel corso di 2000 anni ha sofferto persecuzioni, deportazioni, esili e inquisizioni (…) Anche qui in Italia sono stati uccisi circa 8000 figli del popolo ebraico, un quarto dell’intera comunità, durante l’occupazione nazista. Tuttavia, noi tutti dobbiamo essere riconoscenti al popolo italiano, poiché molti suoi figli nascosero numerosi ebrei, vanificando in tal modo gli sforzi nazisti tesi a sterminare questa antica comunità ebraica.”

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Ogni anno, le sere dei Sedarim di Pesah. Milano. Un lunghissimo tavolo attraversa un po’ sghimbescio il salotto e la sala da pranzo di casa Mortara. Apparecchiato a festa, al centro la cestina di vimini che si tramanda da generazioni, vestita di lino bianco ricamato, che porta i simboli della Pasqua, è circondato da tre generazioni di Mortara e, fin quando le generazioni non sono divenute quattro e bimbi troppo numerosi, anche di Ottolenghi. La bellissima voce di Carlo Andrea guida i cori stonatissimi dei suoi parenti. Ogni anno una melodia nuova si aggiunge ai canti tradizionali del ghetto di Modena o a quelli viennesi della zia Lisa. Ogni anno Raffaella Marianna, cercando fra mille aghadoth provenienti da tanti paesi e da tanti minagh, aggiunge un pezzetto alla narrazione. Ogni anno, ad un certo punto alla voce degli uomini si affianca quella, sempre un po’ commossa, di Luisella che legge in italiano: “In ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, perché il Santo, Benedetto Egli sia, non liberò soltanto i nostri padri, ma noi pure liberò con loro, come è detto: noi fece uscire di là per condurci e darci la terra che ha giurato ai nostri padri”. Poi è il turno di Raffaella Marianna. Ha in mano il libro rosso della nonna Ada Ottolenghi, la pagina si apre da sola, e legge: “Guido aveva ripreso la sua marcia con i Palestinesi [la cosiddetta “Brigata Palestinese” che durante la seconda guerra mondiale fece parte organica dell’esercito britannico ed era composta principalmente da ebrei di Palestina. Durante la prima guerra mondiale veniva chiamata “Brigata ebraica”] fino al giorno in cui fu liberata Cotignola. Qui la distruzione era stata totale: non c’era più una casa (…) Ma loro erano tutti vivi (…). Ecco, Raffaella; la guerra, con le sue distruzioni, aveva sconvolto completamente quel tranquillo angolo di Romagna, dove non c’erano ponti maestosi, né fiumi impetuosi (…) Le tranquille case erano state saccheggiate e le provviste distrutte, dappertutto era scompiglio e rovina, ma tutti i nostri amici, i nostri salvatori, erano salvi a loro volta. (…) Nella sera di Pasqua, la tua mamma ti dice “Noi celebriamo questa sera, la NOSTRA uscita dall’Egitto” perché il Santo Benedetto non liberò soltanto i nostri Padri, ma noi pure liberò insieme a loro. Questo ti dice la mamma e questo racconterai ai tuoi figli insieme ai prodigi che fece il Signore all’uscita dall’Egitto.”

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15 novembre 2005. Roma. E di nuovo, le sedie si smuovono rumorosamente, i calici si levano: “Le haim! Alla vita”, dicono centoottantotto voci all’unisono.
Poi la splendida cena e si va “per parenti”, si raccontano pettegolezzi di famiglia e di ghetto, si ride, e si spiega che l’ebraico non è una lingua inventata, ma a parte qualche inserimento dovuto al trascorrer degli anni, è identica alla lingua dei Padri e delle Madri della Bibbia, “Se Gesù fosse stato seduto in mezzo a noi, spiega Luisella ai suoi commensali, avrebbe capito tutto e, meglio di noi, avrebbe potuto parlare col Presidente Katsav”.
Poi un altro salone, altre chiacchiere e qualche stanchezza e quel terribile scalone da affrontare in discesa.
Un gradino dopo l’altro, dando il braccio alla sua mammina, Raffaella Marianna recita il Kaddish, piano, fra sé e sé:
Yit-gadal veyit-kadash sheme raba
Per la trisnonna Marianna Mortara e per tutte le donne che hanno perso un figlio, per rapimento o omicidio, per fame, malattia o guerra.
Bealma di vera hirute, veyiamlih malchute
Per lo zio Giacomo Dina e Isacco Artom e per tutti gli uomini che hanno creduto e lottato per il Risorgimento dei loro Paesi e per la nascita delle democrazie.
Behayechon uvyomehon uvhaye dehol beth yisrael
Per il nonno Guido Ottolenghi e per Enzo Sereni e per tutti gli eroi che hanno combattuto per la libertà e per la Resistenza del loro popolo.
Baagala uvizman kariv, ve imru AMEN
Per i “Giusti” di ogni generazione che ci hanno salvato dalle schiavitù e per quelli che sanno distinguere sempre il bene dal male.
Yhe sheme raba mevorah lealam ulealme almaya
Per i sei milioni di ombre che vegliano sulle nostre coscienze…

Note

1 – D. Scalise, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa, Mondadori, 1997
2 – D. Kerzer, Prigioniero del Papa Re. Storia di Edgardo Mortara, ebreo, rapito all’età di sei anni da Santa Romana Chiesa nella Bologna del 1858, Rizzoli, novembre 1996
3 – D. Scalise, Op. cit.
4 – Cfr. Gadi Luzzato Voghera, Per uno studio sulla presenza e attività di parlamentari ebrei in Italia e in Europa, in Liliana Picciotto, a cura di, “Saggi sull’ebraismo italiano del novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi”, Tomo I, La rassegna Mensile di Israel, novembre 2003
5 – Cfr. G. Luzzato Voghera op. cit.
6 – Liliana Picciotto, Il Libro della Memoria, Mursia, prima edizione 1991, seconda edizione aggiornata 2002
7 – Prolusione di Giovanni Spadolini, Presidente del Senato, in “L’antisemitismo in Italia. Le deportazioni di ebrei italiani fra 1943 e 1945.” Dibattito in Sala Zuccari, introdotto dal Presidente del Senato, Giovanni Spadolini, con l’apporto di Simon Wiesenthal, Serge Klarsfeld, Renzo De Felice, Luisella Mortara e Liliana Picciotto Fargion, Tipografia del Senato, 1991
8 – Ruth Bondy, The Emissary. A Life of Enzo Sereni, Little, Brown and Company, USA, 1977, traduzione R. M. Mortara.
9 – Cfr. L. Picciotto, Il Libro della Memoria, op. cit.
10 – Cfr. R. Bondi, The Emissary, op.cit.
11 – Clara Sereni, Il gioco dei Regni, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 1993

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