La sottile arte (ebraica) del compromesso

Ebraismo

di Fiona Diwan

Jacob_Wrestling_with_the_AngelUna necessità o una virtù? Un’arte da coltivare con acume psicologico e verve spregiudicata, oppure un mesto ripiego a cui ci vediamo tristemente costretti, il più delle volte nostro malgrado? Una questione di virtuosismo dialettico, una geniale forma di talento relazionale oppure qualcosa di vile, da raggiungere ob torto collo e con una pistola puntata alla tempia? Insomma, che cos’è il compromesso per il pensiero e la prassi ebraica? «Prendiamo, ad esempio, Moshè e Aron che hanno due diverse posizioni rispetto al compromesso», spiega rav Roberto Della Rocca, Direttore del DEC (Dipartimento educazione e Cultura dell’Ucei), durante una delle conferenze dell’ultima edizione del Moked, la tre giorni sul pensiero ebraico che quest’anno è stata dedicata proprio al tema del compromesso e dello “stare insieme tra diversi”.
Prosegue della Rocca: «Il mondo è attraversato continuamente da due grandi correnti. Una si chiama Chesed, la Generosità, e l’altra si chiama Din, il Rigore. A seconda che si preferisca la mano destra, la mano della generosità, il braccio che abbraccia oppure se si opta per la mano sinistra, la mano del rigore, il braccio che respinge. Nella Torà questa dialettica, talvolta molto conflittuale, è rappresentata dalla coppia fraterna di Aròn e Moshè. Aròn, colui che cerca e insegue la pace a tutti i costi mentre Moshè rappresenta invece il Rigore e l’osservanza della Torà sopra a tutto. Questa leadership è la rappresentazione della necessità della complementarietà di queste due dimensioni. Lo ritroviamo ad esempio nei testi relativi alla colpa del vitello d’oro, dove la tensione tra la ricerca del compromesso e l’inflessibilità trova una sua ricomposizione davvero molto originale».
«Siamo sinceri. Oggi, la mediazione assume un ruolo fondamentale nelle nostre comunità e società, specie se vogliamo evitare la disintegrazione e incentivare la coesione, il senso di inclusione e il mantenimento della diversità. Il principale strumento per mediare di cui si dispone in una “vita insieme” è il compromesso», continua della Rocca.
Lo incalza Daniel Segre, italo-israeliano, esperto in coaching, formazione e leadership, convinto che il modo in cui affrontiamo i conflitti non sia solo una questione di parole ma piuttosto di scelte (personali). «Spesso, nel mondo comunitario, chi volontariamente ricopre una funzione manageriale si trova ad affrontare conflitti le cui origini e motivazioni non sono del tutto chiare. Agire in un clima instabile e oscuro può portare a delle decisioni che non sempre sono quelle ottimali. La domanda che ciascun leader comunitario dovrebbe porsi è semplice: come migliorare le mie abilità per saper creare climi stabili e trasparenti? Come analizzare i conflitti per essere in grado di definire chiaramente le loro origini e motivazioni? Come non farmi fagocitare dal gioco degli intrecci e dei legami che hanno preceduto la mia venuta e la mia elezione? L’arte del compromesso parte da qui e dalla rottura dello schema antagonistico per il quale se tu perdi io vinco, e se io perdo tu invece prevali e trionfi. Non è così, ricordiamocelo, specie se siamo dei volontari al servizio della nostra Comunità, eletti per risolvere problemi e farla funzionare meglio. Lo schema giusto è quello celebre del win-win, ovvero se io vinco tu vinci, se perdo tu perdi. Solo così, si riesce a fare il bene, solo così possiamo pensare di mettere insieme degli opposti solo apparentemente inconciliabili».
Ben lungi dall’essere un’azione “moscia”, un atteggiamento debole, quella del compromesso è una affermazione forte, spiega rav Benedetto Carucci, docente universitario in svariati atenei e master post laurea, direttore della Scuola ebraica di Roma. «Letteralmente com-promesso significa promettere con, impegnarsi insieme, obbligarsi reciprocamente. L’arte del compromesso è dunque all’interno della relazione con…, ed è ciò che fa di noi ciò che siamo, poiché ogni essere umano, alla fine, non essendo una monade, è determinato dalle proprie relazioni. Come sono presentati nella Torà ed in alcuni testi rabbinici, gli snodi compromissori? Ce ne sono ben più di quelli che immaginiamo. E leggere ed interpretare non è forse promettersi reciprocamente – lettori e testo – un senso almeno temporaneamente vincolante? L’interpretazione non è un compromesso essa stessa? Ce lo suggerisce, in maniera un po’ fantasiosa ma mai totalmente casuale, la radice ebraica arp che dà origine all’idea della interpretazione (perush): anagrammata e allitterata in v-rap genera proprio il compromesso (pesharà)».
Che cos’è quindi il compromesso? Stringere un impegno con qualcun’altro, per il futuro.
Non c’è nessuna accezione di rinuncia o di debolezza. Il compromesso è forza, mai segno di mollezza o di pensiero debole. Vincola a una reciproca obbligazione. La Torà è piena di compromessi, di patteggiamenti, di passi indietro, tutto pur di giungere a un accordo, ivi compresi i robusti e vigorosi ripensamenti messi in atto persino dal Padreterno in persona. «Non dimentichiamoci che nel pensiero ebraico, la Derech Hashem è data da Tzedà ve Mishpat, Misericordia-Pietas e Giustizia», spiega rav Benedetto Carucci. «Siamo continuamente in presenza di patteggiamenti: in Bereshit, in uno dei memorabili episodi della Genesi, HaShem cede a Avraham e la contrattazione va avanti a lungo, per la salvezza di Sodoma e Gomorra. Ancora in Shemot, nell’episodio degli esploratori, Moshè addirittura punta sull’amor proprio di Dio per indurlo a un compromesso. Se non salvi il tuo popolo ora, Tu che l’hai fatto uscire dall’Egitto con mille prodigi, che cosa diranno di te gli altri popoli? Che non sei Colui che sei, che non sei affatto immenso e santo, come abbiamo preteso. Vuoi che gli altri dicano questo? Che hai fatto tutti questi miracoli per poi annientare il tuo popolo sulla soglia di Canaan? Moshè tira a cimento l’Altissimo e lo stesso farà con l’episodio del vitello d’oro: lo induce alla contrattazione, a tornare sulle decisioni massimaliste e irose prese fino ad allora.
Perché alla fine, per l’ebraismo, il venire-a-patti è la massima affermazione-espressione di chi siamo. Per il pensiero ebraico, il giudizio non è mai pacificante, è pacificante il compromesso: se io vinco, tu vinci, se io perdo, tu perdi.
Nella parashà di Vayeshlach, in Bereshit, Jaakov lotta lungamente con l’angelo, un corpo a corpo formidabile da cui nessuno dei due esce vincitore. Jaakov diventerà Israel ma per questo chiede la benedizione del suo antagonista, l’angelo, per sancire il proprio volontario passo indietro su una lotta conclusasi con una parità di fatto». Ecco perché nella giurisprudenza ebraica si lavora sempre per il compromesso arbitrato e non per ottenere il giudizio.
«Quella dell’intellettuale è una figura tipicamente ebraica – sorta nel periodo delicato e grave dell’Affare Dreyfus in Francia. In un certo senso l’intellettuale coagula quella dissidenza originaria in cui il filosofo Emmanuel Lévinas ha scorto uno dei tratti peculiari dell’ebraismo. Ecco perché la dialettica tra conflitto e compromesso è così “naturale” per il mondo ebraico», spiega Donatella Di Cesare, docente di filosofia all’Università di Roma La Sapienza.
E che dire di Giovanni Pico della Mirandola, pensatore molto amato da chi scrive questo articolo, che studiò l’ebraico e la Qabbalà al solo scopo di padroneggiare la linguacon cui era stato creato il mondo?
L’onnivoro e geniale umanista rinascimentale fu profondamente influenzato dai suoi maestri, i qabbalisti Elia del Medigo e Shmuel ben Nissim, alias Flavio Mitridate: Pico difatti sosteneva che è dalla discordia delle opinioni che si sprigiona l’energia che conduce alla verità. E che insomma, il massimo della opposizione contiene, in nuce, la sapienza somma.