Munich, il nuovo film di Steven Spielberg

Spettacolo

Se negli Stati Uniti il nuovo film di Steven Spielberg ha provocato molte polemiche, in Italia non si è dimostrato da meno.
Il film tratto dal libro Vengeance (vendetta) del canadese George Jonas uscito negli anni Ottanta, parte dal tragico attentato alle olimpiadi di Monaco del 1972. Un gruppo di terroristi della formazione palestinese Settembre Nero entrarono nel villaggio Olimpico allestito in Baviera dove si svolgevano i giochi olimpici e sequestrarono alcuni atleti israeliani. Le trattative non andarono a buon fine e la vicenda si concluse tragicamente con l’uccisione di 11 atleti israeliani. Nel corso dell’operazione di polizia rimasero uccisi anche cinque terroristi e un uomo delle forze dell’ordine. Dovevano essere le olimpiadi della riconciliazione e si trasformarono invece in una strage.
Il lavoro di Spielberg parte dall’attentato per poi concentrarsi sulla vendetta dei servizi segreti israeliani.
L’allora primo ministro laburista israeliano Golda Meir dopo aver affrontato molti dilemmi morali diede ordine di individuare ed eliminare i responsabili della strage.
Una serie di vendette violente che nel film sembra interminabile. Il film di Spielberg pone delle domande senza dare delle risposte e rimane profondamente ambiguo rispetto alla condanna del terrorismo.
Spielberg vuole fare riflettere e sottoporci il problema di con quali mezzi una società democratica possa combattere il terrorismo. Se un’ azione violenta contro di esso non porti a risultati diversi da quelli preventivati. E’ molto discutibile la veridicità storica di qusto lavoro.
Ma soprattutto Spielberg ha voluto aggiungere una scena che nel libro non esiste.
Si tratta dell’incontro fra il capo della squadra del Mossad incaricato della vendetta e un giovane palestinese.
E quello che viene fuori è quasi una equivalenza morale fra terrorismo e anti terrorismo e rischia di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici. Se il film vuole fare riflettere sui nostri giorni come ha dichiarato il regista è un peccato che non abbia tenuto conto di come il terrorismo sia cambiato negli ultimi anni.
Un terrorismo sempre più cieco, che colpisce gli ebrei ma anche gli stessi musulmani.

Alice Werblowsky

Le polemiche, più che annunciate, potrebbero essere ormai definite assicurate. Il nuovo film di Steven Spielberg, in arrivo sugli schermi europei dopo un tormentato esordio su quelli statunitensi, non manca di far discutere e di suscitare perplessità. La trama dell’ultimo lavoro del grande regista ebreo americano è ormai nota a tutti: riprende semplicemente quella che alcuni romanzi pubblicati diversi anni or sono e in bilico fra cronaca, storia e avventura, avevano già narrato. Il massacro degli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco del 1972 e la conseguente caccia ai terroristi palestinesi che se ne erano resi protagonisti da parte dei servizi segreti israeliani. Spielberg ha realizzato un film d’azione sfruttando e reinterpretando una ferita ancora aperta per tutti.
Chi ha già visto il film assicura che si tratta di un lavoro appassionante e spettacolare come molti altri che il padre di Et e l’autore di Shindler’s List ci ha abituati ad amare. Come tutti sanno Spielberg ha grandi capacità artistiche e molti meriti di militanza ebraica. Basti pensare al suo straordinario impegno nella documentazione e nella raccolta delle testimonianza della Shoah.
Ma questa volta che è abituato a pensare a Spielberg come un paladino delle cause ebraiche corre il rischio di restare amaramente deluso.
Dal nuovo film, infatti, emerge l’immagine di un apparato statale israeliano quasi prigioniero di un desiderio di vendetta, più che impegnato a garantire la sicurezza dei propri cittadini e la giusta punizione di atti di bestialità come furono quelli di Monaco. Traspare il tormento e anche la crisi di persone che nel film recitano la parte di dirigenti e collaboratori del Mossad. Una sensazione di inutilità, di mancanza di significato, di avventura per l’avventura, appassionante quanto si vuole, ma priva di quel fondamento morale che tutto noi vorremmo vedere nell’esistenza di Israele, corre il rischio di raggiungere una platea molto vasta di spettatori e di influenzare la loro opinione in una maniera negativa.
Il terrorismo palestinese, per quanto repellente, appare invece nel film depurato della sua forte carica attuale di estremismo islamico e delirio antisemita. Spielberg, infatti, racconta una storia, quella della lotta della democrazia israeliana contro un terrorismo cieco che colpisce cittadini inermi ancora attuale. Ma fermandosi ad avvenimenti di oltre 30 anni fa non ha bisogno di rendere conto dell’estremismo islamico e del delirio antisemita che inquina la regione mediorientale oggi.
Che dire? Prima di dissociarci o lanciare invettive, come qualcuno sta già facendo sulle due sponde dell’Atlantico, sarebbe bene fermarsi un momento a riflettere. Il mondo dello spettacolo è importante per informare ed aiutare la gente a formarsi un’opinione sugli avvenimenti. Ma Spielberg o non Spielberg non possiamo pretendere che quello che viene espresso in un film d’azione rappresenti la verità allo stato puro. E non possiamo richiedere agli artisti il senso dell’equilibrio e della giustizia che chiediamo agli storici.
Comprendere che i film, anche quelli realizzati dagli amici, devono essere messi fra parentesi, presi con le molle, e mai in ogni caso idolatrati come il luogo dove depositare verità assolute potrebbe costituire una sorta di vaccinazione, per noi e per chi ci sta vicino, per goderci gli spettacoli che meglio preferiamo senza aspettative che non hanno ragione di esistere.

Guido Vitale

Intervista a Steven Spielberg
«Munich», il film sui fatti delle Olimpiadi di Monaco 1972 diretto da Steven Spielberg ha suscitato aspre polemiche in tutto il mondo.

Steven Spielberg, ricorda le ore dell’attentato delle Olimpiadi del 1972?
«Quando giunse la notizia stavo seguendo la diretta da Monaco, nelle ore successive non potei staccarmi dal televisore. Credo di aver sentito allora per la prima volta le parole “terrorista” e “terrorismo”».

Negli anni successivi, l’idea di un film ispirato ai fatti di Monaco l’ha spesso affascinata, ma per lungo tempo non si è avvicinato al tema. Perché?
«Ho aspettato tanti anni, perché mi sembrava una problematica troppo complessa da affrontare. Ho parlato di questo progetto con il maggior numero possibile di persone, nella speranza che mi aiutassero a fare chiarezza sull’argomento. Ho a lungo discusso anche con i miei genitori e con il rabbino. Oggi sono immensamente felice di aver avuto il coraggio di girare questo film. Sono un ebreo-americano e mi rendo conto di quanto sia difficile parlare del conflitto israelo-palestinese».

Raramente un regista è stato bersagliato dalle critiche quanto lei per «Munich». La accusano di essere un ottuso pacifista e un traditore della causa israeliana.
«Fortunatamente, a pensarla in questo modo sono in pochi. Mi rattrista vedere quanto siano dogmatici alcuni fondamentalisti della nostra destra qui in America. Ma in tanti hanno fatto proprio lo spirito del film».

La principale accusa mossa a «Munich» è di natura ideologica: i critici le rinfacciano di aver posto sullo stesso piano israeliani e assassini palestinesi.
«Accuse insensate. Naturalmente uccidere degli esseri umani è un crimine. Ma indagare le motivazioni dell’assassino, mostrare che anche lui è un individuo, con una storia e una famiglia, non significa giustificarne le azioni. Tentare di comprendere ciò che sta dietro un crimine non equivale ad accettarlo. Comprendere non significa perdonare».

I suoi avversari dicono che lei «umanizza» il terrore.
«E dovrei forse disumanizzare i terroristi? Non sono esseri umani? Ho semplicemente tentato di non demonizzare gli assassini. Allo stesso modo, anche allora ogni controffensiva israeliana mirava a suscitare paura e terrore nel nemico. Credo che nessuno degli agenti coinvolti in quelle azioni provasse piacere a uccidere, che al momento di piazzare una bomba sotto il letto dell’obiettivo, nessuno ne pregustasse la morte. All’inizio erano tutti convinti di avere il diritto di agire così e non poterono mai assumere una posizione che non avesse conseguenze anche per la loro anima.

Crede che tutta l’Operazione «Ira di Dio» ordinata da Golda Meir sia stata un errore?
«Il primo ministro israeliano doveva reagire alla provocazione di Monaco: degli ebrei venivano uccisi in Germania, durante i Giochi olimpici. Non poteva consentire che un atto di tale portata storica, l’azione di rottura del gruppo terrorista del settembre nero, passasse impunito. Per Israele, Monaco rappresentò un trauma nazionale. In linea di principio ritengo anch’io che allora il primo ministro abbia agito bene».

In «Munich», fa dire a Golda Meir che in circostanze estreme «ogni civiltà deve scendere a compromessi con i propri valori fondamentali». Una frase centrale del film.
«È così».

Una lunga inquadratura delle Torri Gemelle traccia un parallelo tra il 5 settembre 1972 e l’11 settembre 2001.
«Non c’è alcun collegamento tra il terrore palestinese di allora e il terrore qaedista di oggi. Il conflitto israelo-palestinese e il jihadismo non hanno nulla in comune».

Lei ha aspramente criticato l’amministrazione Bush.
«Sono critico sulla guerra in Iraq, sulla limitazione delle libertà civili, per la semplice ragione che amo il mio Paese».

Come definirebbe la sua posizione nei confronti di Israele?
«Da quando ho iniziato ad avere opinioni politiche e ho sviluppato posizioni morali, sono sempre stato uno strenuo difensore di Israele. Come ebreo sono perfettamente consapevole di quanto sia per tutti noi fondamentale l’esistenza dello Stato di Israele. E proprio perché sono orgoglioso di essere ebreo, sono preoccupato di fronte all’antisemitismo e all’antisionismo diffusi nel mondo. Nel mio film pongo degli interrogativi sulla guerra al terrore scatenata dall’America e sulle risposte di Israele alle violenze dei palestinesi. Se fosse necessario, sarei pronto a dare la vita per gli Stati Uniti, esattamente come per Israele».

(Lars-Olav Beier – Erich Follath – da Der Spiegel / Il Corriere della sera)