La magia e il mistero dell’alfabeto ebraico

Spettacolo

La magia e il mistero dell’alfabeto ebraico nelle opere di Tobia Ravà, Ariela Böhm e Gabriele Levy. In mostra alla ETGallery di Milano

Forme, colori, numeri e lettere ebraiche; questi sono gli elementi che gli artisti Tobia Ravà, Ariela Böhm, Gabriele Levy amalgamano con sapienza per creare le loro opere. Uniti tutti e tre in una mostra che non a caso prende il titolo di Otot Ve Otiot, segnali e lettere, alla Ermanno Tedeschi Gallery.
Un viaggio nella comunicazione simbolica. Secondo un antico Midrash il Signore creò prima l’alfabeto ebraico e poi, con esso, creò il cielo e la terra. La Torah stessa sarebbe un OT, un segnale. E sarebbe composta di un codice di OTIOT, lettere. Queste lettere, così dense di significati, così eleganti ed essenziali, cariche di storia millenaria, diventano, agli occhi di un popolo a cui è vietata la raffigurazione, icone stesse dell’identità ebraica, testimoni grafici della storia del popolo e della storia dell’individuo.
Un segno che segna, un linguaggio che crea e senza il quale nulla avrebbe significato. Le forme di Ravà ad esempio sembrano alludere a un nascondimento, spingono l’immaginazione verso un secondo livello sottostante, più segreto, da svelare. In un’altra opera di Ravà, Boschi, i filari di alberi dipinti a distanza regolare e in rigida prospettiva, finiscono per formare un tunnel vegetale in fondo al quale si intravede un’uscita verso una luce nitida, verso un nuovo inizio; nei Vortici, lo sguardo si perde cercando un punto di origine delle spirali, un elemento stabile da cui tutto deriva, mentre il resto del quadro è un infinito avvitamento, simbolo di una realtà contorta e complessa. Altrove, le forme non paiono porre questi interrogativi esistenziali, come nelle Venezie, semplici insiemi di case, ponti e calli.
Ma in ciascuna opera, sono proprio i colori a permettere una facile lettura delle opere e l’individuazione pressoché immediata delle forme. I tratti somatici dei Volti risaltano immediatamente perché hanno una tinta diversa rispetto allo sfondo ma i nasi, gli occhi e il resto sono ottenuti disponendo opportunamente dei numeri e delle lettere.
Se il colore non ci aiutasse, vedremmo solo un guazzabuglio di questi elementi; d’altra parte se ci lasciamo troppo guidare dal colore e non studiamo i numeri e le lettere utilizzate per creare le forme, rischiamo di perdere la chiave di lettura fondamentale di tutti i quadri di Ravà.
Le sue opere della serie dei Luoghi potrebbero sembrare semplici schizzi di splendidi edifici, se lo sfondo e la struttura non fossero tempestati di lettere e di numeri; sono questi che ci invitano a pensare a luoghi come il Colosseo o la sinagoga di Roma in modo più sottile, recuperandone tutto il portato storico e il peso culturale.
Sono insomma i numeri e le lettere gli elementi fondamentali del lavoro di Ravà e così pure di Ariela Böhm e di Gabriele Levy.

Sono lettere e numeri che fanno emergere con chiarezza la matrice ebraica dell’ispirazione di tutti questi tre artisti. Certo, creare quadri utilizzando numeri come elemento base, non è una novità e non ha un significato riconducibile necessariamente all’ebraismo. Basti citare Roman Opalka, ad esempio, che traccia sulle tele dei numeri che crescono in progressione di un’unità da una tela all’altra. Ma Opalka, esponente del minimalismo, ha scelto i numeri come proprio tipico elemento per trasmettere il messaggio sulla ripetitività della vita; poteva scegliere invece serie di lampade fluorescenti sempre uguali, come fa Dan Flavin, oppure i parallelepipedi posti sempre alla stessa distanza, come Donald Judd. Siamo lontani anni luce dall’estetismo e dai riferimenti culturali di Ravà, Böhm e Levy. La loro vena pare più vicina ai Numbers del celebre americano Jasper Johns, che fin dagli anni ’50 dipingeva soggetti ovvii che incontriamo quotidianamente, come le bandiere americane o i numeri. Per Ravà questo significato va cercato in ambito ebraico, come si intuisce dal fatto che accosta alle cifre anche le lettere ebraiche, che pure hanno un valore numerico, e che quindi sono in qualche modo la stessa cosa.

Secondo il Sefer Hayetzirà, tradizionalmente attribuito ad Abramo e assai antico -perché messo per iscritto in un periodo che va da primo all’ottavo secolo dell’era volgare-, Dio ha creato il mondo tramite le 22 lettere dell’alfabeto e i 10 numeri, e sono proprio 32 i sentieri che ci permettono oggi di comprendere la realtà oltre all’apparenza. Gabriele Levy concentra in particolare la sua attenzione sulle lettere che costituiscono l’unica vera forma presente nelle sue opere. Le plasma spesso dalla terra, dall’argilla, materia primordiale per eccellenza, e le trasforma in qualcosa di corposo, chiaro, materico. Tutto serve per raccontare l’eternità e il loro portato spirituale, e poco importa se sono colorate e allegre come in La Meme Chose o in Sogno letterale ebraico in mostra da Ermanno Tedeschi. Di fronte alle opere di Levy, torna alla mente quel passo dell’Esodo (32,16) in cui sono descritte le prime Tavole della Legge ricevute da Mosè sul monte Sinai :“Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio…”, come a dire che l’origine del nostro alfabeto è divina.

Se il linguaggio crea, se le lettere e l’alfabeto sono di origine divina e sono stati utilizzati per la Creazione, la loro importanza va ben al di là del semplice segno, diventano piattaforma di elevazione e riflessione spirituale, ed è così che le utilizza Ariela Böhm, sovrapponendo alle figure dei testi in ebraico (come nel monumento ai deportati di Bolzano o in Increspature in mostra da Ermanno Tedeschi). Meglio è sapere e interpretare i passi che cita (tratti probabilmente dalle preghiere dei giorni penitenziali), lettere che già di per sé spingono ad andare oltre l’apparenza. Nel grande murale che Ariela Böhm ha creato per il Centro Pitigliani di Roma, la parte superiore è interamente occupata da lettere ebraiche, numerosissime, sovrapposte, che divengono pochissime, quasi sospese nell’aria, mentre precipitano nella parte inferiore. Il titolo, La leggerezza della cultura, non risolve la domanda se stiano cadendo o salendo e probabilmente la Böhm vuole lasciarci questo dubbio. Certo è che per lei, le lettere sono sinonimo di nobiltà della cultura, concetto assolutamente non scontato nella nostra epoca che vive di immagini, o forse lo sono solo quelle ebraiche, universali. Se poi queste lettere rischiano di diventare leggere, eteree, vuol dire che il nostro tempo, forse, ha perso la capacità di volare. E allora altro non resta che la nostalgia di questo volo, di questa divina leggerezza.


Segnali e Lettere, Ermanno Tedeschi Gallery, via Santa Marta 15, Milano (entrata da via San Maurilio). Dal 16 settembre al 16 novembre 2010. Inaugurazione giovedì 16 settembre, ore 18.30.