In “Armageddon Time”, un giovane ebreo nella New York degli anni ‘80

di Nathan Greppi
Un tempo si sentiva spesso parlare del cosiddetto “sogno americano”, l’idea secondo cui chi emigrava negli Stati Uniti sarebbe riuscito ad emergere grazie al duro lavoro, a prescindere dalle sue origini. Oggi, con le crisi sociali e politiche che da anni sta attraversando l’America, questa idea ha iniziato a venire meno.

La disillusione verso il sogno americano sembra trasparire nel film Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse, scritto e diretto dal cineasta ebreo americano James Gray e uscito nelle sale italiane il 23 marzo, dopo essere già stato presentato al Festival di Cannes nel 2022.

La storia si svolge nel Queens, nel 1980: Paul Graff (Banks Repeta) è il più giovane dei due figli di una famiglia della borghesia ebraica. La monotonia della vita scolastica è alternata dalle attività con un suo compagno di classe, Johnny (Jaylin Webb), finché il loro comportamento trasgressivo non spinge i genitori di Paul (Anne Hathaway e Jeremy Strong) a mandarlo in una scuola per ricchi. Stimolato unicamente dal suo sogno di diventare un artista, il giovane si ritroverà a dover fare i conti con la dura realtà, diventando sempre più insofferente verso l’ambiente sociale e famigliare che lo circonda.

Facendo un confronto con la vita del regista, è chiaro che nella trama vi sia molto di autobiografico: l’assonanza tra i cognomi Gray e Graff è evidente, ed entrambi sono cresciuti nel Queens da una famiglia di ebrei immigrati dall’Ucraina. Non a caso, in passato James Gray ha ambientato la maggior parte dei suoi film a New York, e già la sua opera prima del 1994, Little Odessa, aveva come protagonisti degli ebrei di origine russa.

Pur essendo ambientato oltre quarant’anni fa, Armageddon Time sembra voler fare parallelismi con il presente: tema centrale è il razzismo che permeava una parte della società americana, e che si manifesta quando Johnny viene deriso da altri ragazzi. Un atteggiamento, questo, sul quale Paul viene messo in guardia dall’affettuoso nonno Aaron (Antohny Hopkins), memore sia delle vicende della madre fuggita dalle persecuzioni naziste che dell’antisemitismo presente anche negli Stati Uniti.

Altro tema che emerge a più riprese riguarda come la scuola e la famiglia cerchino spesso di incitare i ragazzi ad inseguire il successo nella vita, a qualunque costo. Una filosofia di vita che, per i genitori e i nonni, è in parte dettata dal desiderio che i figli possano avere un tenore di vita migliore di quello che hanno avuto coloro che li hanno preceduti.

Paradossalmente, questa ricerca del successo individuale convive con un sistema scolastico in cui tutti i ragazzi vengono giudicati attraverso gli stessi parametri, senza tenere conto delle potenzialità e debolezze che sono proprie di ogni singolo individuo. Questo fa sì, per esempio, che il talento artistico e la passione per il disegno di Paul non solo non vengano stimolati, ma in più spesso vengono penalizzati perché bollati come banali distrazioni.

Molte analogie si possono fare tra questo film e The Fabelmans, altra pellicola autobiografica in cui Steven Spielberg racconta la sua giovinezza: in entrambi il ragazzo insegue la propria passione, rimproverato dal padre che lo vorrebbe vedere dedicarsi ad attività con uno sbocco più sicuro nel mondo del lavoro, come l’informatica. Anche i finali dei due film presentano delle similitudini. Tuttavia, se nel film di Spielberg alla fine il giovane riesce a trovare la sua strada dopo aver faticato, in quello di Gray vi è una prospettiva apparentemente più pessimista e disillusa. La prospettiva di chi ha smesso di credere nella capacità di chiunque di realizzarsi con il duro lavoro, perché alla fine sarebbero le disparità socioeconomiche a fare la differenza.