Con gli occhi del Nemico

Spettacolo

David Grossman parla della situazione d’Israele. Delle difficoltà di vivere in un paese sempre in guerra, della necessità di trovare un nuovo approccio per costruire una pace. Argomenti che tratta nel suo ultimo libro Con gli occhi del Nemico (Mondadori) appena uscito.

“Per troppi anni, migliaia di anni, siamo diventati un simbolo, una metafora per così tante cose. Molte anche negative. Siamo stati soggetti di idealizzazione o demonizzazione, che sono ambedue le facce di una disumanizzazione.

Siamo venuti in Israele, ma non è stato possibile diventare un normale Stato fra altri Stati. Apri qualunque giornale nel mondo e vedrai Israele in prima pagina. Penso che se arriveremo ad una pace con i nostri vicini, ciò ci permetterà per la prima volta in 2000 anni di avere radici nella realtà, di avere una vita normale. Avremmo dei confini, una definizione politica perché fino adesso non abbiamo avuto delle frontiere definite. Israele ha quasi 60 anni ed è senza frontiere.
Dobbiamo avere relazioni normali, fra noi e i nostri vicini, e questo ci permetterà di cominciare a vedere le nostre vite, i nostri problemi, non solo i problemi legati al conflitto che domina ogni cellula del nostro corpo e anima. Dobbiamo cominciare a vivere la vita che meritiamo, la vita di cui siamo stati privati per cosi tanti anni”.

Nel suo libro dice che la pace sembra oggi ancora più lontana.
Dopo così tanti anni di violenza, odio e sospetti, le due parti agiscono contro i propri interessi solo per continuare a provocare più sofferenza e problemi al nemico. Si dovrebbe uscire da questo stato di animosità e cominciare ad avere fiducia nell’altro. E’ come se si chiedesse alle due parti di studiare un linguaggio completamente nuovo.

Ci sono stati rari momenti durante la conferenza di Oslo in cui c’è stata una speranza in un cambiamento, ma poi la vecchia mentalità ha preso il sopravvento.

Forse siamo incapaci di arrivare a una pace da soli. Forse siamo paralizzati e abbiamo bisogno di un aiuto dall’esterno, interlocutori più sobri, meno emotivi e amici di ambedue le parti. Gli Stati Uniti non stanno facendo quasi niente, e nell’ultimo mese hanno ucciso ogni possibilità di dialogo tra Israele e Siria.

Olmert ha detto che bisogna trattare con la Siria; che cosa ne pensa?
Mi sembra una dichiarazione molto positiva; so che Olmert l’aveva detto a livello privato già altre volte, ma è la prima volta che ha il coraggio di esprimerlo apertamente. Penso che il presidente siriano Bashar al Assad debba rispondere a questa offerta, perché dopo tutto è quello che i siriani desiderano. Vogliono riavere le alture del Golan. Questo è il prezzo di un dialogo per una pace con loro. Ma non si tratterà solo di rendere le alture del Golan, abbiamo anche noi le nostre richieste. Ci deve essere una vera pace e questo comporta cambiare molto nel sistema siriano. Devono cambiare l’atteggiamento verso Israele, smettere di demonizzare il nostro paese, di demonizzarlo nei libri di scuola, nei media. C’è molto da fare in Siria, molto da fare in Israele.
Il presidente siriano deve rispondere, ma se non coglie questo appello, e se dovessimo essere costretti a fare un’altra guerra, se ci sarà un’altra guerra quest’estate, tutti sappiamo il costo che questo comporterà per tutti.

Senza la pace la situazione rimane disperata, e rischia alla fine di mettere a rischio l’esistenza stessa di Israele, che è già stata minacciata dal presidente iraniano Ahmadinejad che vuole eliminare lo Stato ebraico.

Per noi la pace non significa solo risolvere un problema territoriale; ci permette di vivere la vita che vogliamo vivere, cosa che non abbiamo potuto fare per così tanti anni a causa del conflitto. Non si riesce a vivere la vita come in un normale Stato.
Uccide qualcosa dentro di te il fatto di vivere sempre in uno stato di instabilità e di minaccia. Il pericolo e la paura hanno un peso continuo nelle nostre vite quotidiane e dobbiamo lottare con tutte le nostre forze per cambiare questa situazione.

Pensare di avere un futuro è importantissimo perché c’è gente che comincia a non vedere un futuro. E’ una tragedia, perché siamo una nazione con un passato glorioso, e un presente pesante.
A volte è difficile da tollerare, non si riesce a respirare perché l’esperienza che stiamo vivendo è troppo estrema… Non abbiamo un senso del nostro futuro, perché non si sa, il futuro è
ancora parziale.

In Italia puoi pensare alle generazioni che verranno, ai figli, ai nipoti, al futuro con serenità. Una normalità che è garantita; noi viviamo senza questa certezza.
Se penso a Israele fra 20 anni, sento una pena nel cuore come se avessi violato un tabù per essermi dato troppa quantità di futuro.

Questo senso d’instabilità, d’incertezza, deve cambiare. Se non hai fiducia sul fatto che hai un futuro, senti l’insicurezza della tua esistenza. E il tuo presente viene danneggiato… E’ più facile
disperarsi e decidere di lasciare Israele, cercando di ottenere altri passaporti; penso che questo sia un errore.

Dobbiamo ribadire in un modo molto chiaro che Israele è il nostro luogo. Abbiamo avuto questo raro regalo dalla storia dopo 2000 anni di esilio e di diaspora e dobbiamo comportarci con fiducia verso questa terra, dobbiamo fare di tutto per fare di questo paese un luogo vivibile e attraente per altre persone fuori Israele. C’è molto lavoro da fare.

Non posso dire di essere veramente ottimista e ci vuole un grosso sforzo per superare la disperazione che io e la mia famiglia proviamo.
E allo stesso tempo penso che non possiamo permetterci il lusso della disperazione.

Con tutti i suoi limiti, le contraddizioni e gli errori, sento la vitalità di questo paese, è nato da un grande sogno il ritorno del popolo ebraico nella sua terra. Dobbiamo mettere tutta la nostra
energia, la nostra intelligenza perché questa possibilità che ci ha dato la storia non venga sprecata.
Non sono cieco su quello che succede ma per un ebreo non c’è un altro posto dove può sentirsi a casa sua… Non è ancora la casa che sogno, perché siamo sempre minacciati e vulnerabili, in movimento e non ci sono ancora vere frontiere. Non è un rifugio perché è un posto ancora pericoloso dove gli ebrei sono sempre nel mirino.
Spero che diventi una casa, vorrei fare l’esperienza di chi vive in pace, ma in pace anche con i vicini. La mia vita è qui, la mia famiglia è qui, e scrivo i miei libri qui, ma la mia vita è sempre condizionata da questa tensione che ci circonda. Voglio e spero di potere semplicemente sentirmi a casa senza avere paura.