Ricordando un padre tenerissimo, una guida salda

di Roberto Zadik

Una storia esemplare. La madre scomparsa nella Shoah, il padre partigiano. Un’infanzia difficile cha ha forgiato una personalità di grande rigore morale e intensa passione per gli studi. Un ricordo inedito e privato di Rav Laras

 

Raffaele, oggi cittadino canadese, è uno dei figli di Rav Giuseppe Laras; a un anno dalla scomparsa del grande Moré, Rabbino Capo per 25 anni della Comunità ebraica di Milano, ha accettato, con questa intervista esclusiva, di regalarci un ritratto personale e per molti versi intimo e inedito di suo padre. Ne ripercorre il cammino biografico, spirituale e umano come mai prima d’ora.

Com’era Rav Laras in famiglia?
Nonostante i suoi mille impegni quotidiani, si dedicava molto alla sua famiglia. Esternamente poteva sembrare una persona seria e ruvida, ma con noi figli e la moglie era tenerissimo. Mio padre non era molto espansivo e chi non lo conosceva bene poteva pensare fosse burbero. Era invece un papà speciale, molto presente e attento ai nostri bisogni. Era rigido e severo, ma ci dava sicurezza, protezione e tanto affetto. Noi fratelli avevamo un legame molto speciale con lui.

Qual era il rapporto di Rav Laras con la sua difficile infanzia?
Il papà si è aperto con noi quando eravamo ormai adolescenti. Ha vissuto un’infanzia difficile fatta di stenti, rinunce e sacrifici. Sua madre era morta nella Shoah; il padre, che aveva perso anche un fratello, di nome Giuseppe, in giovane età, si risposò. Voleva che studiasse alla facoltà di Giurisprudenza perché voleva che diventasse avvocato, cosa che poi ha fatto più per rispetto verso suo padre che per reale convincimento. Quando mi parlava della sua infanzia mi rattristavo, ma allo stesso tempo mi inorgoglivo sapendo da dove era partito e come da solo si era realizzato. Parlava poco della guerra, dei partigiani e dei racconti di suo padre Guglielmo, comandante partigiano. Si infervorava invece contro quella portinaia del condominio dove abitava con la famiglia, delatrice per soldi, che vendette sua madre e la nonna nonostante fossero state sempre in buoni rapporti con lei. Ci raccontava come suo padre e gli altri partigiani, al termine della Guerra, andarono subito a prenderla per sottoporla a un processo sommario al quale avrebbe dovuto seguire l’esecuzione; ma prima di premere il grilletto, ordinò di lasciarla in vita. Alcuni mesi dopo, si venne a sapere che questa donna si era ammalata di tumore. Papà ci diceva sempre, guardando in alto: “Se l’uomo non prende le sue responsabilità il Signore lo farà”.

Che ricordi hai di tuo padre nella tua infanzia?
I primi ricordi che ho del papà sono quelli di un padre disposto a stare con i suoi figli, come tanti altri, e a giocare con noi. Ricordo i sabati pomeriggio a casa nostra a Livorno, a intrattenere figli e amici con lunghe partite di ping-pong di cui era un grande appassionato e un discreto giocatore. Lo ricordo poi nel periodo fra Pesach e Shavuot, quando chiamava nel suo ufficio a scuola i bambini e insegnava i Pirqè Avot, che poi avremmo letto il sabato pomeriggio. Per lui, questo testo è stato una vera e propria passione. Riusciva a fare sentire importanti tutti i bimbi della Comunità che letteralmente riempivano il Tempio, lo Shabbat durante la recitazione dei Pirqè Avot. Me lo ricordo come un direttore d’orchestra, mentre stava in piedi davanti a tutti noi e ci indicava quale sarebbe stato il nostro turno. Ricordo, in età adulta, i suoi saggi consigli che sapeva dare a ciascuno di noi. Porterò sempre con me il suo ultimo insegnamento e consiglio di vita, che mi ha dato con le sue ultime forze, due mesi prima che mancasse. Mi disse: “Raffaele, ricordati che la famiglia è un dono prezioso che va sempre preservato con tutte le proprie forze. Te lo dico io che purtroppo non ho avuto questo zchut (merito) nella mia infanzia”. In tema di famiglia, molto stretto il rapporto con i nipoti e gli altri congiunti. È stato un bravissimo nonno e suocero attento, amorevole, generoso, comprensivo e che ha instillato amore per la Torah ai suoi nipoti, cercando di trasformare i compiti a casa in una passione per lo studio e la comprensione nell’applicazione dei precetti.

Da chi aveva imparato, Rav Laras, a parlare in quel modo raffinato che tanto piaceva alla gente?
Penso che fosse una sua dote naturale. Quando parlava riusciva ad affascinare tutti. Ricordo una volta che dovevo accompagnarlo per una conferenza, il suo intervento doveva durare un tempo limitato e infatti il moderatore, a un certo punto, gli fece cenno che aveva finito il tempo a sua disposizione. Nonostante questo, le persone in platea chiesero di farlo continuare, perché erano tutti affascinati e anche perché stava raccontando una storia vera, vissuta da lui in prima persona. Mio padre riprese ma dopo un po’ chiuse il suo intervento. Quando siamo andati via, tutti lo avvicinarono e continuarono a fargli delle domande e lui, con la cortesia che lo ha sempre contraddistinto, rispondeva a tutti.

Quali erano le sue passioni?
Lo studio della storia e della filosofia. Maimonide (il Rambam) era il suo vero amore. A lui piaceva insegnare agli adulti, e sai perché? Mi diceva: “perché hanno voglia di imparare e io vado con la voglia di insegnare. Se fossi un insegnante elementare sarei un buono a nulla”.

C’è una ragione per la quale non hai scelto anche tu la professione di rabbino?
In effetti mio padre, conoscendo tutte le problematiche in seno alla comunità, mi ha sempre consigliato di studiare Torah Lishmà (senza una finalità utilitaristica) non come fonte di sostentamento. Ho studiato (e continuo a farlo nei vari kolelim) tanti anni al collegio sotto la sua supervisione, seppure mi pose come condizione il conseguimento della laurea. Però fra i tanti insegnamenti, da lui ho ereditato l’amore per il canto sinagogale (chanazut).

Qual è l’insegnamento più importante che tuo padre vi ha lasciato?
Ci ha trasmesso l’onestà e il senso del dovere. L’istruzione e la cultura (tanto ebraica quanto laica) per il papà erano sacre. Mi rammento che, durante le nostre chiacchierate quotidiane, si lamentava del radicale e negativo cambiamento della scuola. Secondo lui non ci si preoccupa più di ascoltare i ragazzi, che sono sempre più soli e privi di ideali. Non c’è rispetto ma solo arroganza, supponenza e prepotenza. A proposito di insegnamento, egli citava spesso i Pirqe Avot, le Massime dei Padri, e questo perek era fra i suoi preferiti: “Antigono di Socho ricevette la tradizione da Shimon il giusto. Egli soleva dire: non siate come quei servi che servono il loro padrone allo scopo di ricevere un premio; ma siate invece come quei servi che servono il loro padrone non allo scopo di ricevere un premio”. Ecco, questo perek era uno tra i più citati e cari al babbo perché io credo lui si identificasse in tali principi morali. Ossia tutto ciò che lui ha fatto, sia in seno all’ebraismo sia in famiglia, lo ha sempre fatto per amore di D-o e amore verso le creature in genere, senza mai chiedere niente in cambio. Questi sono i sani principi con i quali lui ci ha cresciuto e noi, B”H, onoreremo il suo operato e i suoi insegnamenti continuando a studiare, insegnare e mettere in pratica tali principi.

Qual è l’ultimo ricordo che ti è rimasto impresso?
La sua fragilità. Era diventato come un bambino e i ruoli si erano invertiti, eravamo noi figli a rassicurarlo e a coccolarlo alla fine dei suoi giorni. Mi mancano le nostre lunghe chiacchierate. Che il suo ricordo sia fonte di benedizione.