Paul Newman: il lato ebraico in una nuova biografia

di Roberto Zadik
Chi era davvero Paul Newman e quale era il suo misterioso “lato ebraico”? Uscito il libro “Vita straordinaria di un uomo ordinario” che ne svela una serie di curiosità e segreti
Famoso come icona hollywoodiana, carismatica e distaccata, dal fisico asciutto e prestante e dallo sguardo intenso, Paul Newman è stato un tipico esempio di “antidivo”, protagonista sullo schermo ma estremamente schivo e riservato sulla sua vita privata.
Scomparso quasi quindici anni fa, il 26 settembre 2008,  l’interprete di pellicole importanti come Exodus, il suo film più “ebraico”, si confessa in una lunga serie di interviste, finora inedite, raccolte nel libro Vita straordinaria di un uomo ordinario, uscito lo scorso 18 ottobre (pp. 304, Garzanti editore, 20 euro). Ma qual era la sua reale personalità e quale il lato ebraico dell’attore che, stando al sito Jewish Chronicles, diceva, negli ultimi anni della sua vita, “mi identifico come ebreo perché è più impegnativo” dopo aver passato anni a nascondere questo suo rapporto con la religione paterna?
Non si tratta di una semplice autobiografia ma di un fiume di testimonianze, aneddoti, ricordi per un’opera, unica nel suo genere, che entra come mai prima d’ora nell’animo del misterioso Paul Newman.
Nella sua lunga e gloriosa carriera, raggiunse l’apice della popolarità tra gli anni ‘60 agli anni ‘80, recitando con sobria espressività in pellicole di svariati generi, dal western con successi come Butch Cassidy a commedie come La Stangata.
Ma  poco o nulla si sa del suo privato e della sua interiorità. Ebbene, in questa raccolta, come specifica un interessante articolo del Times of Israel uscito lo scorso primo dicembre e firmato dalla giornalista Reneè Ghert Zand emerge il “vero Paul Newman con un testo che parte dalle interviste del 1986 quando egli decise che “era arrivato il momento di svelare chi era davvero contrastando sia le falsità mediatiche su di lui che sfidando le angosce che lo tormentavano fin dall’infanzia”.
Realizzato assieme allo scrittore e suo amico Steward Stern il testo è stato, come ha evidenziato l’articolo, frutto di un estenuante lavoro da parte di Newman e di Stern che, dal 1986 al 1991, registrarono ore di nastri ma poi, improvvisamente, egli abbandonò il progetto e non volle più saperne. Descrivendo la complessa genesi di questo libro, l’articolo spiega che, solo recentemente, i manoscritti con le interviste sono miracolosamente ricomparsi nella casa della famiglia Newman in cui l’attore abitava con la sua inseparabile moglie Joanne Woodward e le sue tre figlie.
Stando all’articolo proprio queste ultime, specialmente Melissa che ha scritto la prefazione e Clea autrice della postfazione, hanno ritenuto necessario pubblicare questo prezioso materiale. Ne emerge, stando a quanto raccontato dall’editore David Rosenthal, “il ritratto di un uomo estremamente insicuro, inquieto e riservato, molto legato alla famiglia anche se molto assente come padre”.
Rosenthal racconta di come Newman fosse incerto e dubbioso riguardo alle proprie capacità, su come attribuisse il successo al proprio aspetto fisico e che avesse lavorato duramente per sviluppare le sue doti recitative.
In tema del suo lato ebraico estremamente complesso fu il suo contesto famigliare. Nato da matrimonio “misto”, suo padre, Arthur Newman era ebreo di origini polacco-ungheresi mentre sua mamma, Theresa Fretzko era cattolica, immigrata dalla Slovacchia. Stando all’articolo era una famiglia complicata, quella del futuro protagonista de La lunga estate calda, che assommava l’anaffettività paterna alla  fragilità della madre scatenando rabbia e insicurezza nel giovane Paul.
Ma che cosa ne pensava dell’identità ebraica Paul Newman? Sebbene i suoi genitori fossero membri delle associazioni ebraiche e avessero i posti assegnati in sinagoga, egli, nel libro, si riferisce alla propria identità ebraica solo come forma di contrasto all’antisemitismo che percepiva. A questo proposito Rosenthal ha parlato dei pregiudizi che c’erano intorno a lui e di quanto “si sentiva ebreo come forma di ribellione a tutto questo. Vedeva il suo essere ebreo come atto di eroismo”.
Un testo interessante e intenso questo libro che sottolinea le tante amicizie e collaborazioni che Newman ebbe con registi, da Michael Curtiz, a Otto Preminger a Martin Ritt e produttori ebrei come Sam Spiegel e il suo rifiuto di americanizzare il suo cognome. A questo proposito egli disse “avrei potuto eliminare le mie radici ebraiche, che mi hanno causato tanti problemi, ma mi sembrava più stimolante mantenerle ed insistere su questa mia appartenenza come se portassi un distintivo”.
Personalità che alternava forza e insicurezza, tenacia e fragilità, oltre che affermato attore, Newman fu anche audace pilota automobilistico e filantropo dedito a varie cause umanitarie con la sua Fondazione Newman sempre pronta ad aiutare chi fosse in difficoltà, come i bambini affetti da malattie croniche. Come suo padre anche l’attore ebbe problemi di alcolismo e dovette affrontare varie fasi estremamente drammatiche, dal divorzio dalla sua prima moglie Jackie Witte alla morte per overdose del loro figlio Alan Scott il 20 novembre 1978.