«Il 7 ottobre? Una cartina di tornasole per i rapporti fra mondo ebraico e cristiano»

di Giovanni Panzeri

Lo stato di salute del dialogo ebraico-cristiano. Dopo una prima solidarietà, sono emerse critiche nei confronti di Israele, con un uso di stereotipi tradizionali dell’antigiudaismo cristiano contro gli ebrei. Soprattutto, è mancata una vera empatia verso il mondo ebraico e una reale comprensione della posta in gioco: la sopravvivenza di Israele. Intervista allo studioso Massimo Giuliani

 

Per lunghi secoli il punto di vista della Chiesa di Roma è stato determinante nell’influenzare il modo in cui la comunità ebraica era vista e trattata dalle popolazioni cristiane. Le discriminazioni e l’isolamento causati dai classici pregiudizi anti-giudaici, che vedevano gli ebrei come gli assassini di Cristo, costituirono parte del terreno fertile su cui si svilupparono poi i pregiudizi razziali, che sfociarono nella follia nazista e nella Shoah.
In seguito alla Shoah e alla conclusione della Seconda guerra mondiale i rapporti tra la Chiesa e le comunità ebraiche sono progressivamente migliorati, in un processo di riavvicinamento che ha portato il papato a condannare apertamente l’antigiudaismo del passato – nel Concilio Vaticano II e con l’enciclica Nostra Aetate di Papa Giovanni XXIII, pubblicata nel 1965, sotto il Pontificato di Paolo VI – e a rendere conto delle proprie ambiguità durante la Shoah, grazie allo studio e alla ricerca condivisa sugli Archivi Vaticani, i cui primi risultati sono stati pubblicati in una grande conferenza tenuta lo scorso ottobre. Per capire come e se questo processo sia oggi influenzato dalle tensioni scaturite a livello mondiale in seguito agli attacchi del 7 ottobre, abbiamo intervistato Massimo Giuliani, professore di Pensiero ebraico all’Università di Trento e direttore di Avinu, una nuova rivista sul dialogo ebraico-cristiano.

Qual è lo stato attuale del dialogo ebraico-cristiano in seguito ai fatti del 7 ottobre? Come si è evoluto in questi mesi e quale potrebbe essere il suo futuro?
I terribili massacri, gli stupri e i rapimenti del 7 ottobre scorso sono stati una specie di “cartina di tornasole”, ossia di messa alla prova e di verifica dei rapporti tra mondo ebraico e mondo cristiano, in particolare quelli con la Chiesa cattolica. Vi è stata una prima, breve solidarietà, ma molti vescovi sono stati in silenzio con le comunità ebraiche “in sofferenza” delle loro città. Anzi, due settimane dopo già emergevano alcuni giudizi negativi verso Israele e la sua azione militare. Alcune autorità cristiane sembravano esprimere un’equidistanza tra Israele e i terroristi di Hamas, dando l’impressione di non capire la posta in gioco del conflitto, di negare a Israele il diritto a difendersi e accusandolo anzi di applicare la legge del taglione. Pochi cristiani hanno saputo esprimere vera empatia al mondo ebraico per quel trauma. Tuttavia va notato che nessuna iniziativa dialogica, programmata congiuntamente, è stata annullata o rimandata.

 

Che effetto hanno avuto le dichiarazioni di alcuni cardinali e di altri intellettuali cattolici sui rapporti tra le due comunità di fede?
Alcune personalità della Chiesa hanno usato parole gravi come “vendetta” per stigmatizzare la reazione israeliana, incuranti del fatto che si tratta di uno stereotipo tipico del tradizionale antigiudaismo cristiano, che fa del giudaismo una religione dell’occhio per occhio, contrapposta al cristianesimo come religione dell’amore e della pace. Ma, come ha detto il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni, la Chiesa non ha il monopolio dell’amore e della pace. Nessuna religione lo ha.
Il conflitto a Gaza è una sofferenza anche per il mondo ebraico, ma la difesa dei propri cittadini è un dovere per uno Stato di diritto e per una società che siano sotto attacco, come avviene da tempo in Israele. Evocare la legge del taglione significa non aver capito cosa è successo e quale è il vero progetto politico di Hamas. Nonostante la mancanza di empatia e di comprensione, le posizioni teologiche non sono cambiate. La svolta conciliare di Nostra Aetate e i pronunciamenti pontifici contro l’antisemitismo sono stati ribaditi con forza, e gli incontri legati al 17 gennaio (giornata che la Chiesa dedica al dialogo tra ebrei e cristiani, ndr) sono stati l’occasione per interrogarsi sul valore dell’amicizia tra le due fedi ma anche sui “limiti teologico-politici” delle posizioni ecclesiastiche a riguardo di Israele. Molta teologia cristiana non accetta che la terra di Israele e il ritorno a Sion costituiscano parte integrante dell’identità ebraica, che non si esaurisce nella sfera religiosa.

Lei sostiene che è importante che la Chiesa tenga conto del valore dello Stato d’Israele per gli ebrei, credenti e no. Ma c’è anche, soprattutto in America e Inghilterra, una minoranza rumorosa di ebrei, con una certa presenza nel mondo intellettuale, che rifiuta il legame con Israele…
Si tratta di una questione complessa. La categoria di “ebrei credenti” o “ebrei non credenti” non è molto ebraica, nel senso che rischia di dividere il popolo ebraico proprio dal punto di vista religioso. Tutt’al più si può distinguere tra ebrei osservanti o meno, ma entrambe queste aggettivazioni non sono di natura halakhica. Secondo il monaco cattolico Enzo Bianchi, la Chiesa deve instaurare il dialogo con gli “ebrei credenti”. Io penso che sia un approccio sbagliato. Quella ebraica è un’identità complessa, ed è bene che il dialogo da parte cristiana sia con il mondo ebraico nel suo insieme, senza quelle distinzioni che rischiano di far credere (ai cristiani) che esistano ebrei buoni ed ebrei cattivi. I credenti sarebbero quelli buoni, gli altri sarebbero cattivi o meno buoni. Un tempo gli ebrei buoni erano solo quelli che si facevano battezzare… Occorre superare questo schema. Ciò significa che chi dialoga non deve scegliersi gli ebrei che gli piacciono, neppure in base al loro grado di sionismo o di antisionismo. Occorre che la Chiesa accetti la complessità dell’identità ebraica come tale, e la fede è solo una componente, per quanto importante, di questa identità.

Come giudica l’apertura degli Archivi Vaticani e la revisione storica in corso sui silenzi di Pio XII nel periodo della Shoah?
Pochi giorni dopo il 7 ottobre la Pontificia Università Gregoriana, in collaborazione con alcuni centri ebraici (tra cui il CDEC di Milano e lo Yad Vashem di Gerusalemme) hanno promosso una grande conferenza per fare il punto sulle ricerche dopo l’apertura degli Archivi Vaticani relativamente al pontificato di Papa Pacelli. Purtroppo gli studiosi israeliani sono stati impossibilitati a partecipare. La sensazione è che sia presto per fare bilanci storiografici, vista l’enorme quantità di documenti ora resi disponibili. Sembra però abbastanza chiaro che non potrà mai esservi un giudizio in bianco e nero, o tutto positivo come vogliono gli apologeti di quel Papa o tutto negativo come vogliono i suoi detrattori. Gli storici sanno che occorre lavorare di cesello sulle carte e magari al riparo dalle ribalte mediatiche.

Lei dirige la rivista Avinu, nata da poco, e dedicata al dialogo ebraico-cristiano. Quale è lo scopo?
Questa nuova rivista, edita da Castelvecchi, che sarà quadrimestrale, riempie un vuoto in Italia, mentre ne esistono di consimili all’estero. Si chiama Avinu, che significa “nostro padre”, perché la paternità divina è un punto religioso condiviso da ebrei e cristiani, e rimanda pure alla centralità dei patriarchi, in particolare di Abramo, che fu un campione della “fede fine a se stessa”, come spiegava Yeshayahu Leibowitz. Avinu malkhenu è una delle grandi preghiere ebraiche. Scopo della rivista è raccogliere il patrimonio di idee e di elaborazione nei rapporti tra ebraismo e cristianesimo sviluppatisi in oltre sessant’anni. Il suo lancio è avvenuto purtroppo in questo drammatico momento della vita di Israele, come Stato e come popolo. Spero che la rivista aiuti a superare le incomprensioni che tali eventi stanno generando e favorisca un processo di miglior comprensione e di rispetto reciproci.